Corriere della Sera - La Lettura
La neoplebe degli esclusi (e speriamo nei creativi)
Paolo Perulli critica gli effetti sociali della globalizzazione
Il termine neoplebe colpisce come un pugno leggendo le prime pagine del libro che il sociologo Paolo Perulli ha dedicato a prefigurare l’anno di grazia 2050, «il passaggio al mondo nuovo». Neoplebe è un’espressione politicamente scorretta e l’autore ne rintraccia l’ispirazione nell’uomo-massa di José Ortega y Gasset o nell’operaio di Ernst Jünger, non a caso studiosi critici della democrazia che hanno avuto però il pregio di vedere «più lontano della loro epoca». Tanto lontano fino a oggi, alla formazione di quell’estesa platea di perdenti della globalizzazione fatta sia di lavoro dipendente sia di lavoro autonomo, in entrambi i casi svilito e male retribuito. Scarti della globalizzazione, ci dice Perulli usando un’espressione di Papa Francesco. Una volta rappresentavano il ceto medio, il baricentro dell’equilibrio politico delle liberaldemocrazie, oggi sono un serbatoio di protesta e di consenso oscillante, mai identificabile in un movimento o in un partito, sempre pronto a spostarsi a seconda dell’offerta politica del momento.
In sostanza la constituency del populismo o, se preferite, i penultimi che temono di diventare come quegli ultimi (gli immigrati) che non amano. Ma di chi sono le responsabilità? La risposta di Perulli suona come un secondo pugno: la neoplebe non è solo un sottoprodotto delle politiche neoliberiste, ma anche di quei leader riformisti americani ed europei come Bill Clinton, Tony Blair, Gerhard Schröder e Barack Obama «accomunati dalla retorica della responsabilità e del merito». Che sono stati osannati dai progressisti ma hanno disconnesso il mercato dalla protezione sociale, hanno lasciato indifesa la società davanti al capitalismo.
C’è tanta trama nel densissimo libro di Perulli, ma anche un minimo comune denominatore: la critica feroce della globalizzazione. Ci sono voluti trent’anni e un pipistrello cinese per capirne i guasti, per avere piena coscienza della voragine aperta dalle classi dirigenti occidentali e orientali entrambe «ostaggio del circuito tecno-finanziario» e ora abbiamo a disposizione non più di trent’anni se vogliamo salvare la Terra. Ma per l’autore non c’è nessun new green deal vincente senza critica della globalizzazione, «sarebbe solo vuota retorica». Piuttosto occorrono soggetti che, al posto delle vecchie élite miopi e compromesse, si prendano carico di rappresentare la Natura e di individuare uno schema di governo economico del mondo che ci consenta quantomeno un soft landing (gli Stati-continente).
Il soggetto sembra essere la classe creativa. Istruita, colta, tollerante, urbana. «Erede della società civile hegeliana», la proclama Perulli, che è costretto a registrare però come negli anni della globalizzazione trionfante si sia allontanata dalla sfera pubblica e politica.
«Il caso dell’ambientalismo è istruttivo: hanno inventato stili di vita ecologisti ma non hanno affatto imposto alla società il risultato delle proprie conoscenze e sperimentazioni». Di fronte ai pericoli che corre la Terra — e a qualche palese incoerenza nei programmi di decarbonizzazione — c’è però bisogno di mettere in piedi una nuova alleanza, una «coalizione per il progresso tecnologico e ambientale». Una volta c’era un patto di ferro a legare élite e ceti medi, ora lo scivolamento verso il basso di questi ultimi ha messo al centro la classe creativa, che in alcuni contesti vale quantitativamente anche il 30 per cento ma soprattutto ha dalla sua le nuove competenze e lo spirito critico. «Un’alleanza tra classe creativa e neoplebe sembrerebbe a prima vista impossibile, ma la possibile visione di beni comuni e di sostenibilità futura potrebbe aprire una diversa prospettiva». Per questo cambiamento è necessaria, però, un’educazione, addirittura una nuova paidéia. Compito alto ma altrettanto gigantesco di quanto, annota Perulli, non fosse un secolo fa il ruolo degli intellettuali disegnato da Antonio Gramsci.