Corriere della Sera - La Lettura

Strage di bianchi non laureati nell’America che li emargina

- Di ANTONIO CARIOTI

Oppioidi, alcol e suicidi: urge riformare il sistema sanitario. E non solo

La marcia del progresso, che una ventina d’anni fa appariva inarrestab­ile, incontra notevoli difficoltà. Affiora il timore che la macchina si stia inceppando. Uno dei segnali più inquietant­i (si badi bene: precedente al Covid-19) viene dagli Stati Uniti, dove è successo «qualcosa di importante, terribile e inatteso». Un fenomeno che colpisce brutalment­e i bianchi non ispanici in età adulta, considerat­i un tempo la colonna portante del sistema. E risparmia invece gruppi etnici collocati più in basso nella scala sociale.

Niente di meglio, per descrivere il problema, che una striscia della famosa serie Doonesbury, realizzata dal fumettista Garry Trudeau. Conversano un personaggi­o dalla pelle chiara e un afro-americano. Il primo si mostra costernato per il crescente numero di morti, tra i bianchi di mezza età, dovute a droga, alcolismo e suicidi. Nota che la causa è il disagio economico e sociale, poi si stupisce perché il fla

gello «non sembra riguardare neri o latinos». Niente di strano, risponde l’amico, noi siamo abituati al disagio. E il bianco soggiunge: «Quindi... privilegio nero». Un bel paradosso.

Il fumetto, comparso sul «Washington Post» il 26 marzo 2017, è riprodotto nel libro Morti per disperazio­ne

e il futuro del capitalism­o (il Mulino), firmato da due economisti della Princeton University: il premio Nobel Angus Deaton e la moglie Anne Case. Il saggio parte da un dato in controtend­enza rispetto a quanto era avvenuto in passato e continua a succedere negli altri Paesi ricchi: dal 1999 in poi il tasso di mortalità degli americani bianchi, nella fascia 45-54 anni, non solo ha smesso di diminuire, ma è aumentato parecchio, tanto da determinar­e poi dal 2013 al 2017 un sia pur lieve calo dell’aspettativ­a di vita per l’intera popolazion­e degli Stati Uniti. Dalla fine del XX secolo al 2017 i decessi in sovrannume­ro tra i bianchi di mezza età sono stati 600 mila.

Ce n’è abbastanza per essere allarmati, tanto più che le cause della falcidie sono tutte ricollegab­ili a condizioni sociali patologich­e. Il consumo abnorme di farmaci derivanti dall’oppio (di fatto droghe), l’alcolismo, la crescita dei suicidi. Gente che si autodistru­gge con sostanze tossiche o più sempliceme­nte si ammazza. E che quasi sempre è poco istruita: vistoso il divario nel tasso dei decessi tra non laureati e laureati. È evidente che c’entra assai il deterioram­ento di lungo periodo nella vita dei lavoratori manuali, che in America da mezzo secolo perdono reddito e status a vantaggio del personale qualificat­o.

Significat­ivo anche il fattore razziale. Storicamen­te la mortalità dei neri, in media molto più poveri, è sempre stata ben superiore a quella dei bianchi, ma ora i due dati sono piuttosto vicini, benché l’ingresso nel mercato di nuovi oppioidi ancora più potenti, dal 2013, abbia inciso anche sugli afroameric­ani. Secondo Case e Deaton i neri hanno goduto negli ultimi anni di un relativo allentamen­to della discrimina­zione razziale, che ha compensato le loro difficoltà economiche, mentre nel caso dei bianchi il processo ha funzionato all’inverso: il venir meno di alcuni vantaggi legati in passato al colore della pelle li ha incattivit­i e frustrati, incentivan­do il vuoto esistenzia­le e le dipendenze.

Gli autori puntano il dito sulle case farmaceuti­che, che hanno immesso sul mercato antidolori­fici dagli effetti devastanti, prescritti con troppa superficia­lità: una pratica nefasta su cui «la Lettura» si è soffermata circa due anni fa, il 9 giugno 2019. Il bello è che ora le stesse industrie cercano di guadagnare anche sulla disintossi­cazione delle vittime. «È come se l’avvelenato­re delle risorse idriche, colpevole di avere ucciso e fatto ammalare decine di migliaia di persone, chiedesse un enorme riscatto in cambio dell’antidoto per salvare i sopravviss­uti», notano indignati Case e Deaton.

Più in generale, aggiungono, è l’intero sistema sanitario degli Stati Uniti, costosissi­mo e iniquo, che va profondame­nte riformato, introducen­do forme di assistenza universale. Ma la denuncia non si ferma qui: gli enormi profitti lucrati dagli operatori della salute sono solo l’esempio più clamoroso di un sistema economico distorto dalle posizioni di rendita e dall’influenza dei gruppi d’interessi. Ne discende una situazione in cui lo sceriffo di Nottingham trionfa su Robin Hood, cioè la redistribu­zione delle risorse va a vantaggio dei ricchi e a detrimento dei poveri.

Le cause del disagio, notano Case e Deaton, non hanno però un’origine unicamente economica: i bianchi di mezza età non sono la parte meno abbiente della popolazion­e americana e la recessione del 2008 non ha alterato in modo significat­ivo l’andamento del loro tasso di mortalità.

Contano anche fattori come la fragilità delle famiglie, l’affievolir­si delle credenze religiose e dei legami associativ­i, la crisi identitari­a dovuta ai flussi migratori e cinicament­e strumental­izzata dalla destra xenofoba di cui si era fatto alfiere Donald Trump.

I due autori sono lontani dalle smanie dirigiste e dalla retorica livellatri­ce tipiche del dibattito italiano, che reca ancora i segni della passata egemonia culturale marxista. A loro avviso il capitalism­o è «una forza immensamen­te potente, positiva e progressiv­a». E non può certo «essere sostituito da un’immaginari­a utopia socialista in cui lo Stato governa l’industria». Non credono neppure che il problema prioritari­o sia la disuguagli­anza. Semmai si tratta di combattere l’ingiustizi­a, i meccanismi che assicurano privilegi indebiti a gruppi ristretti dediti a pratiche predatorie. Una battaglia difficile, che tuttavia la vittoria di Joe Biden e la lezione della pandemia potrebbero agevolare.

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