Corriere della Sera - La Lettura
Strage di bianchi non laureati nell’America che li emargina
Oppioidi, alcol e suicidi: urge riformare il sistema sanitario. E non solo
La marcia del progresso, che una ventina d’anni fa appariva inarrestabile, incontra notevoli difficoltà. Affiora il timore che la macchina si stia inceppando. Uno dei segnali più inquietanti (si badi bene: precedente al Covid-19) viene dagli Stati Uniti, dove è successo «qualcosa di importante, terribile e inatteso». Un fenomeno che colpisce brutalmente i bianchi non ispanici in età adulta, considerati un tempo la colonna portante del sistema. E risparmia invece gruppi etnici collocati più in basso nella scala sociale.
Niente di meglio, per descrivere il problema, che una striscia della famosa serie Doonesbury, realizzata dal fumettista Garry Trudeau. Conversano un personaggio dalla pelle chiara e un afro-americano. Il primo si mostra costernato per il crescente numero di morti, tra i bianchi di mezza età, dovute a droga, alcolismo e suicidi. Nota che la causa è il disagio economico e sociale, poi si stupisce perché il fla
gello «non sembra riguardare neri o latinos». Niente di strano, risponde l’amico, noi siamo abituati al disagio. E il bianco soggiunge: «Quindi... privilegio nero». Un bel paradosso.
Il fumetto, comparso sul «Washington Post» il 26 marzo 2017, è riprodotto nel libro Morti per disperazione
e il futuro del capitalismo (il Mulino), firmato da due economisti della Princeton University: il premio Nobel Angus Deaton e la moglie Anne Case. Il saggio parte da un dato in controtendenza rispetto a quanto era avvenuto in passato e continua a succedere negli altri Paesi ricchi: dal 1999 in poi il tasso di mortalità degli americani bianchi, nella fascia 45-54 anni, non solo ha smesso di diminuire, ma è aumentato parecchio, tanto da determinare poi dal 2013 al 2017 un sia pur lieve calo dell’aspettativa di vita per l’intera popolazione degli Stati Uniti. Dalla fine del XX secolo al 2017 i decessi in sovrannumero tra i bianchi di mezza età sono stati 600 mila.
Ce n’è abbastanza per essere allarmati, tanto più che le cause della falcidie sono tutte ricollegabili a condizioni sociali patologiche. Il consumo abnorme di farmaci derivanti dall’oppio (di fatto droghe), l’alcolismo, la crescita dei suicidi. Gente che si autodistrugge con sostanze tossiche o più semplicemente si ammazza. E che quasi sempre è poco istruita: vistoso il divario nel tasso dei decessi tra non laureati e laureati. È evidente che c’entra assai il deterioramento di lungo periodo nella vita dei lavoratori manuali, che in America da mezzo secolo perdono reddito e status a vantaggio del personale qualificato.
Significativo anche il fattore razziale. Storicamente la mortalità dei neri, in media molto più poveri, è sempre stata ben superiore a quella dei bianchi, ma ora i due dati sono piuttosto vicini, benché l’ingresso nel mercato di nuovi oppioidi ancora più potenti, dal 2013, abbia inciso anche sugli afroamericani. Secondo Case e Deaton i neri hanno goduto negli ultimi anni di un relativo allentamento della discriminazione razziale, che ha compensato le loro difficoltà economiche, mentre nel caso dei bianchi il processo ha funzionato all’inverso: il venir meno di alcuni vantaggi legati in passato al colore della pelle li ha incattiviti e frustrati, incentivando il vuoto esistenziale e le dipendenze.
Gli autori puntano il dito sulle case farmaceutiche, che hanno immesso sul mercato antidolorifici dagli effetti devastanti, prescritti con troppa superficialità: una pratica nefasta su cui «la Lettura» si è soffermata circa due anni fa, il 9 giugno 2019. Il bello è che ora le stesse industrie cercano di guadagnare anche sulla disintossicazione delle vittime. «È come se l’avvelenatore delle risorse idriche, colpevole di avere ucciso e fatto ammalare decine di migliaia di persone, chiedesse un enorme riscatto in cambio dell’antidoto per salvare i sopravvissuti», notano indignati Case e Deaton.
Più in generale, aggiungono, è l’intero sistema sanitario degli Stati Uniti, costosissimo e iniquo, che va profondamente riformato, introducendo forme di assistenza universale. Ma la denuncia non si ferma qui: gli enormi profitti lucrati dagli operatori della salute sono solo l’esempio più clamoroso di un sistema economico distorto dalle posizioni di rendita e dall’influenza dei gruppi d’interessi. Ne discende una situazione in cui lo sceriffo di Nottingham trionfa su Robin Hood, cioè la redistribuzione delle risorse va a vantaggio dei ricchi e a detrimento dei poveri.
Le cause del disagio, notano Case e Deaton, non hanno però un’origine unicamente economica: i bianchi di mezza età non sono la parte meno abbiente della popolazione americana e la recessione del 2008 non ha alterato in modo significativo l’andamento del loro tasso di mortalità.
Contano anche fattori come la fragilità delle famiglie, l’affievolirsi delle credenze religiose e dei legami associativi, la crisi identitaria dovuta ai flussi migratori e cinicamente strumentalizzata dalla destra xenofoba di cui si era fatto alfiere Donald Trump.
I due autori sono lontani dalle smanie dirigiste e dalla retorica livellatrice tipiche del dibattito italiano, che reca ancora i segni della passata egemonia culturale marxista. A loro avviso il capitalismo è «una forza immensamente potente, positiva e progressiva». E non può certo «essere sostituito da un’immaginaria utopia socialista in cui lo Stato governa l’industria». Non credono neppure che il problema prioritario sia la disuguaglianza. Semmai si tratta di combattere l’ingiustizia, i meccanismi che assicurano privilegi indebiti a gruppi ristretti dediti a pratiche predatorie. Una battaglia difficile, che tuttavia la vittoria di Joe Biden e la lezione della pandemia potrebbero agevolare.