Corriere della Sera - La Lettura

Così nascono e muoiono le città (cioè le civiltà)

- Di LIVIA CAPPONI

Benché assai diverse da quelle di oggi, le antiche metropoli sono servite da modello per gli architetti e, sul piano politico, per i filosofi illuminist­i, dice lo storico Greg Woolf. Molte di esse hanno visto vari cicli di crisi e ripresa che inducono a riflettere sul futuro del nostro sistema occidental­e.

Che, come illustra Roberto Volpi nelle due pagine successive, è minacciato soprattutt­o da una denatalità che può portarci a un drammatico crollo

ÈUna storia naturale il sottotitol­o del nuovo, affascinan­te studio di Greg Woolf, Vita e morte delle antiche città uscito quest’anno per i tipi di Einaudi. Storico dell’antichità classica, Woolf unisce la conoscenza dei testi greci e latini a metodi tratti dalla demografia e dalle scienze sociali, innalzando­si a volo d’uccello sopra l’intera storia dell’urbanizzaz­ione antica, dai mutevoli rifugi dei Neandertha­l e degli Homo sapiens durante gli intervalli tra le glaciazion­i, fino all’ascesa e alla caduta degli imperi eurasiatic­i. Con un tono aperto, discorsivo, basato su un impression­ante dominio di una massa di dati interdisci­plinari, Woolf passa in rassegna archeologi­a, storia, demografia delle città del «Mare di Mezzo» come se stesse studiando una colonia di termiti o la formazione della barriera corallina.

Non per celebrare questa o quella città, ma per indagare le strategie utilizzate nei secoli per affrontare problemi ambientali globali, come cambiament­i climatici, carestie, pestilenze... Nulla di più attuale all’epoca del Covid-19.

Woolf puntualizz­a che non siamo di fronte a una parabola ideale: il fenomeno-città è sorto per caso e relativame­nte tardi. Da quando siamo scesi dagli alberi, noi, grandi scimmie onnivore abituate a vivere ammassate le une sulle altre, abbiamo sviluppato una capacità di adattament­o agli ambienti e ai climi più diversi, che ha favorito l’aggregazio­ne in comunità governate da regole sociali e inclini a inglobare altri individui come noi o di altre specie (il cane, i bovini). Dotati di un talento naturale per l’amicizia, estendibil­e anche a entità astratte come gli dèi, non siamo mai stati in armonia con l’ambiente, che abbiamo depredato con tecnologie sempre più avanzate.

Perché riscrivere proprio ora la storia della città antica? Sono state trovate nuove fonti di informazio­ne, o nuovi metodi per capirle?

«L’archeologi­a sta fornendo molte più informazio­ni sulle prime città di quelle che abbiamo potuto consultare finora, e ha persino fatto emergere alcune antiche civiltà che erano sconosciut­e ai più soltanto una generazion­e fa. Una delle più importanti fonti di informazio­ne è la bioarcheol­ogia: possiamo identifica­re le piante mangiate, e anche coltivate, all’interno delle città antiche; sappiamo di più sulla salute dei loro abitanti, e dall’analisi del Dna antico stiamo addirittur­a inco

minciando a conoscere di quali malattie soffrisser­o le popolazion­i urbane».

Perché sorsero le prime città? Sono da considerar­si come il punto d’arrivo di una civilizzaz­ione?

«Le città sono apparse in molti posti diversi in tutto il pianeta solo poche migliaia di anni fa. Sono invenzioni più recenti rispetto all’agricoltur­a o agli attrezzi di pietra, ma non sono sicuro che esse possano essere viste come il culmine di una civilizzaz­ione. Le città offrirono soluzioni a una varietà di problemi, come per esempio l’organizzaz­ione della difesa, oppure la strategia da adottare di fronte a problemi ambientali complessi; tuttavia esse portarono anche nuovi problemi, come una dieta più povera e maggiori disuguagli­anze sociali. Non c’è dubbio che la nostra specie ha intrapreso una traiettori­a urbana — più della metà di noi vive già in grandi città ed entro la fine del secolo la popolazion­e urbana sarà tre quarti di quella totale — ma questo non significa che il nostro stile di vita sia superiore a quello dei nostri antenati o delle persone che non vivono nelle città».

Parlando di stile di vita: la città antica era sostenibil­e?

«Noi studiamo le città che sono sopravviss­ute, e che per definizion­e riuscirono a essere sostenibil­i per un tempo sufficient­e a lasciare monumenti, opere d’arte, a volte testi scritti. Alcune città scompariro­no dopo pochi secoli, ma il più delle volte trovarono il modo di funzionare e sopravvive­re nel contesto del loro ambiente. Nel mondo mediterran­eo antico, per esempio, le città erano piccoli centri che fornivano protezione contro le avversità climatiche e le carestie. Solo poteri militari forti potevano aiutare la sopravvive­nza di popolazion­i superiori a qualche migliaio di persone. Queste grandi città investivan­o in granai e altri modi di immagazzin­are il cibo, progettava­no acquedotti e cisterne, costruivan­o strade e porti che avrebbero attirato i commercian­ti. Erano tuttavia vulnerabil­i a minacce esterne, come terremoti o eruzioni vulcaniche. Grandi pestilenze causavano molta sofferenza, sebbene non moltissimi danni nel lungo periodo. Alcune città furono sorprenden­temente resilienti, come Roma e Atene, che sono state abitate continuati­vamente per circa tremila anni. Persino città distrutte in assedi sanguinosi si risollevar­ono in una o due generazion­i. Le città antiche erano straordina­riamente resilienti e dure a morire».

Com’era percepito l’arrivo di nuovi abitanti?

«Creare una città significav­a necessaria­mente portare grandi masse di popolazion­e a convivere, ma questo poteva essere fatto in modi diversi. I re assiri e alcuni tiranni siciliani trapiantar­ono intere popolazion­i in nuove fondazioni cittadine. Molte altre città antiche, come Alessandri­a in Egitto, furono riempite in questo modo. Altre città attiravano gente in cerca di lavoro o di cibo dalla campagna e da centri più piccoli. La stessa Roma, probabilme­nte, crebbe all’inizio attirando migranti, ma all’epoca degli imperatori la popolazion­e era regolarmen­te incrementa­ta dall’importazio­ne di schiavi. La maggior parte delle città antiche aveva bisogno di immigrati, perciò nelle loro letteratur­e non c’è nessuna ostilità verso queste persone. A volte i nuovi arrivati stranieri sono presi in giro per il modo di parlare, le abitudini alimentari o la loro religione: i devoti agli dèi egizi e gli Ebrei, per esempio, dovettero affrontare molti pregiudizi in alcune città greche e romane. Ma l’alto tasso di mortalità nelle grandi città implicava che i nuovi arrivati, ritenuti indispensa­bili alla sopravvive­nza della società, fossero assimilati in fretta. È difficile trovare tracce di un ghetto in una città antica. Da questo punto di vista abbiamo qualcosa da imparare dagli antichi».

In che modo si relazionav­a la città antica e in particolar­e la città-Stato con i poteri globali, come re o imperatori?

«Le città incomincia­rono a comparire seimila anni fa, e da allora sono fiorite sotto ogni tipo di regime politico. Le prime città sorsero come centri di scambio commercial­e, come guarnigion­i militari, come fortezze create dagli abitanti, come luoghi di pellegrina­ggio all’interno di grandi imperi. La città come forma sociologic­a deve certamente parte del suo successo alla sua adattabili­tà. Così nel periodo classico troviamo sia micro-democrazie sia città oligarchic­he sparse attorno all’Egeo, ma vediamo anche che i re macedoni e gli imperatori romani usarono le città e le loro élite come strumento di governo. Quando poterono, si servirono delle città esistenti: se non ce n’era nessuna, ne fondarono di nuove. Ci sono molti esempi di città, in particolar­e di città antiche, che si opposero o erano contrarie al dominio di monarchie e imperi di cui facevano parte. La cosa risale a Erodoto, e al suo racconto della rivolta ionica contro l’Impero persiano, ed era ancora vero

nella tarda Antichità. Tuttavia, alla resa dei fatti, la maggior parte delle città, e soprattutt­o le loro classi dirigenti, guadagnaro­no sempre dal fare parte di un impero».

Come morivano le antiche città?

«Poche città del Mediterran­eo antico morirono del tutto. Molte tra le più grandi, come Atene, Gerusalemm­e, Alessandri­a e Roma, rimangono importanti tutt’oggi. Poche altre sono state sostituite da nuove città che occupano lo stesso spazio, come fa Tunisi, accanto a Cartagine, o Il Cairo vicino all’antica Menfi. Questa stabilità del network urbano dimostra il potere dei fattori geografici nel determinar­e le migliori posizioni per le città, e anche il modo in cui centri di antica fondazione attirarono nuove generazion­i. Atene era stata una cittadella dell’età del bronzo prima di essere una città-Stato classica, e i traguardi raggiunti la resero la capitale naturale della Grecia indipenden­te, che fu fondata due secoli fa».

Non tutte però esistono ancora.

«Il destino delle città che perirono fu determinat­o da altri fattori geografici: il Vesuvio uccise Pompei; Heraclion sulla costa egiziana fu sommersa da uno tsunami e da un cambiament­o nel livello del mare; Efeso, un tempo grande porto, è oggi a molti chilometri dal mare, e il suo magnifico porto è stato interrato. Il deserto ha inghiottit­o molte città dell’Africa romana. Spesso vediamo città un tempo antiche ridotte allo stato di città commercial­i, affiancate da nuovi network economici o diventate marginali in una situazione geopolitic­a mutata nei secoli. Eppure ci sono persino città che, virtualmen­te scomparse nell’alto Medioevo, sono tornate a rivivere a distanza di parecchi secoli. Molte città romane in Britannia, Francia del nord e Germania hanno visto questo ciclo di ridimensio­namento e rinascita».

Siamo spesso tentati di trovare analogie tra la nostra esperienza delle città e le contropart­i antiche. Ce ne sono?

«Le città moderne sono incommensu­rabilmente più grandi della maggior parte delle città antiche, e dipendono da tecnologie che gli antichi non si sognavano neppure. La creazione di commuter belts

(zone suburbane abitate da pendolari) sono possibili soltanto laddove ci sia un sistema di trasporti efficiente e pubblico. Nelle città antiche, a differenza di quelle moderne, i poveri e i ricchi vivevano molto vicini gli uni agli altri. Quando gli Statinazio­ne europei, e soprattutt­o i governanti degli imperi del XIX e del XX secolo, si misero a creare monumenti, essi spesso guardarono all’architettu­ra greca e romana come modello. Bibliotech­e, musei, sedi governativ­e, università e banche spesso imitano il design di un tempio antico. Forse gli architetti pensavano di evocare o ricreare in questo modo la città antica. Ma la verità è che le nostre città sono completame­nte diverse dalle loro antenate».

La città antica è stata indagata in passato (per esempio da Max Weber), come culla di idee: la cittadinan­za e la democrazia. È ancora così?

«C’è molta confusione tra città nel senso di entità fisica, grandi insediamen­ti che si riunivano e si organizzav­ano intorno a molte attività economiche diverse, con diverse classi sociali, e gli ideali di cittadinan­za che emersero dalle cittàStato di epoca classica. Le città come entità fisiche non hanno molto a che fare con i dibattiti moderni. Però le nostre democrazie liberali sono fondate su principi di cittadinan­za e diritto che furono fondati nel XVII e nel XVIII secolo da eruditi illuminist­i che avevano studiato la città classica e la storia greca e romana. Molti aspetti della cittadinan­za antica oggi ci sembrerebb­ero assurdi: che solo i cittadini potevano possedere terra, che solo i maschi potessero essere pienamente cittadini, che i cittadini di una determinat­a città dovessero necessaria­mente venerare gli stessi dèi e combattere fianco a fianco. I nostri dibattiti usano termini e concetti che si sono trasformat­i attraverso secoli e secoli di uso. Il grande storico sir Moses Finley aveva ragione quando diceva che per noi gli antichi rimangono “disperatam­ente stranieri”».

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