Corriere della Sera - La Lettura
Il precipizio demografico dell’Europa
Le previsioni dell’Onu indicano che la popolazione della Terra comincerà a calare entro la fine del XXI secolo. In Occidente la diminuzione è già avviata, ma negli Stati Uniti la natalità regge ancora, con 1,8 figli per donna, mentre nel Vecchio Continente siamo a 1,5 e solo i flussi migratori hanno permesso di chiudere in lieve attivo il saldo degli ultimi dieci anni. Se non riesce a contrastare questo trend, ancora più netto in Italia, l’Ue avrà un futuro difficile
La Population Division dell’Onu, massima autorità in campo demografico, redige regolarmente stime della popolazione mondiale e dei singoli Paesi fino alla fine del secolo. Ha senso un’inferenza così spostata nel tempo, dal momento che, se si trattasse — mettiamo — di previsioni economiche, non si riterrebbero degne di attenzione neppure se si spingessero alla metà del secolo, se non addirittura alla fine di questo terzo decennio? Sì, ha senso perché, diversamente da quelle economiche o di altro tipo, le tendenze demografiche sono in assoluto quelle più difficilmente modificabili da qualsivoglia programma, progetto, azione che uomini e governi possano concepire e pure realizzare. Così molto di quel che avverrà è inscritto nella stessa struttura della popolazione d’oggi — se è vecchia o se è giovane, se ha un’alta o una bassa proporzione di donne in età feconda — e con almeno due probabilità su tre alla fine del secolo avremo una popolazione mondiale tra 10 e 12 miliardi (ma, attenzione, di questa forchetta si fanno oggi preferire i valori più bassi, perché negli ultimi anni il tasso di incremento della popolazione ha cominciato a scendere un poco più velocemente di quanto si prevedesse).
Sotto il miliardo fino alla metà dell’Ottocento, la popolazione mondiale aumenta di 1,5 miliardi dalla metà del XIX alla metà del XX secolo e la bellezza di 5,3 miliardi da allora, nel giro degli ultimi 70 anni. Fino a portarsi ai 7,8 miliardi attuali. Esplosione stupefacente. Tanto da meritarsi l’appellativo assai minaccioso di Population
Bomb, come recita il titolo del celeberrimo, apocalittico libro del 1968 dell’entomologo Paul R. Ehrlich. Niente delle previsioni di quel saggio si è avverato: non la crisi delle risorse, specie alimentari, non le carestie devastanti, non i milioni e milioni di morti in più. Tutto il contrario. La speranza di vita è aumentata nel mondo intero, il tasso di mortalità nei primi cinque anni di vita non ha fatto che scendere, riducendosi nell’ultimo mezzo secolo dell’80 per cento, il che spiega l’impennata della popolazione: perché se per nascere si continua a nascere, ma per fortuna il morire è rimandato a data da destinarsi, allora non c’è scampo a una forte crescita degli abitanti. Avremmo forse desiderato il contrario?
Ma anche sul nascere, non è così vero che si continua a nascere ai ritmi di cento, cinquanta e perfino di trenta anni fa. Si nasce sempre meno, anzi. Da oltre 3,5 figli in media per donna degli anni Cinquanta dello scorso secolo si è scesi sotto i 2,5 figli di oggi e scenderemo sotto i 2 figli in media per donna entro la fine del secolo, quando, non arrivando più alla soglia di sostituzione di 2,1 figli per donna, le nascite non compenseranno le morti e la popolazione mondiale comincerà a diminuire.
Ed eccoci al punto. Perché per molte aree del mondo, e per l’Occidente segnatamente, non bisognerà aspettare affatto la fine del secolo per vedere il sopraggiungere dell’inversione di tendenza. L’inversione è già ora.
C’è Occidente e Occidente
Se si toglie quello che è stato definito come l’«eccezionalismo demografico americano», le dinamiche delle popolazioni dell’Occidente sono asfittiche e perdenti, un’autentica palla al piede per il futuro non difficile, ma difficilissimo che si prefigura in questa parte di mondo.
Certo, che cosa sia l’Occidente non è chiarissimo. Oggi, dopo la caduta dell’Urss, si tende a farvi rientrare tutta l’Europa, Russia inclusa. È Occidente l’America del Nord, semmai con l’esclusione del Messico, e ancora l’Australia e la Nuova Zelanda. È Occidente anche l’America Latina? Potremmo sciogliere il nodo semplicemente affermando che senz’altro non sono Occidente l’Asia e l’Africa: la grande dominatrice della popolazione mondiale di ieri e di oggi — l’Asia — che sta mano a mano cedendo il posto alla grande dominatrice di domani — l’Africa. I due continenti rappresentano, con quasi 6 miliardi di abitanti, il 76,8 per cento della popolazione mondiale attuale e sono destinati a rappresentarne quasi l’83 per cento per la fine del secolo. Visto in modo così delimitato, l’Occidente appare diviso in due. Europa da un lato, America del Nord dall’altro. Divise non solo dall’Oceano. Dalla demografia perfino di più.
Negli ultimi dieci anni in Europa sono nati 79 milioni di bambini e sono morte 81,5 milioni di persone. Per un bilancio negativo di meno 2,5 milioni di abitanti. Nell’America del Nord sono nati 43 milioni di bambini e sono morte meno di 30 milioni di persone, per un bilancio positivo di 13,4 milioni. Se si considera che l’America del Nord ha 367 milioni di abitanti, meno della metà dell’Europa, che di milioni ne conta 748, il divario della vitalità demografica apparirà ancora più netto.
Ma che cosa rappresentano queste cifre, se si pensa che negli ultimi dieci anni nel mondo sono nati poco meno di 1,4 miliardi di bambini e sono morte 561 milioni di persone, con un guadagno netto di abitanti dovuto al movimento naturale della popolazione (nati-morti) di 839 milioni? Nell’Occidente dato da Europa e Nord America la differenza tra nascite e morti non ha raggiunto i 10 milioni, un’eccedenza dovuta solo agli Usa — visto che il movimento naturale in Europa si è spostato in territorio negativo nel quinquennio 2015-2020.
Un paracadute: i flussi migratori
Dovessero reggersi sul solo movimento naturale della popolazione, neppure gli Stati Uniti potrebbero dormire sonni così tranquilli. L’Europa, invece, si troverebbe alle prese con una popolazione già entrata di gran carriera nella fase discendente. Invece gli abitanti degli Stati Uniti aumentano, e neppure di poco. E perfino quelli dell’Europa, che ci riesce raschiando il fondo del barile delle sue potenzialità demografiche. Potenzialità che riposano pressoché al gran completo sul controllo dei flussi migratori in entrata.
L’Europa ha guadagnato negli ultimi dieci anni 11 milioni di abitanti, passando da 736,4 a 747,6 milioni, pur avendone persi 2,5 per la differenza tra nati e morti. Conclusione: nel secondo decennio del secolo tra i 13 e i 14 milioni di abitanti provenienti da fuori hanno trovato posto e (non sempre) buona accoglienza in Europa. Nel frattempo l’America del Nord è passata da 343,3 a 368,9 milioni di abitanti, con un incremento di 25,6 milioni, mentre ne ha guadagnati 13,4 con la differenza tra nati e morti. Anche qui ci sono, pur con una popolazione che è la metà di quella europea, quasi gli stessi abitanti in più, oltre 12 milioni, derivanti dai flussi migratori.
È l’immigrazione, dunque, il grande paracadute dell’Occidente. Ma gli Usa hanno ancora una vitalità demografica intrinseca, anche se il tasso di fecondità è sceso con 1,8 figli per donna al valore più basso della loro sto
ria. Sono una Paese ancora relativamente giovane, anche grazie al concorso dei migranti che nell’ultimo mezzo secolo hanno contribuito all’aumento della popolazione a una media di quasi un milione di abitanti in più all’anno. Persone che vengono da Paesi ad alta fecondità e hanno una più alta propensione a fare figli. Diversamente, la vitalità demografica dell’Europa — con un tasso di fecondità di 1,5 figli in media per donna, lontanissimo dalla soglia di sostituzione di 2,1 figli, e la popolazione più vecchia del mondo, quindi con tassi di mortalità elevati — è così sparuta da non lasciare spazio a fantasie: o una politica di programmazione, energica e senza infingimenti, dei flussi migratori o un irreversibile declino — del resto, per chi lo sappia vedere, già largamente in atto. Ma i governi e le opinioni pubbliche in Europa sono pronti per una politica di questo tipo?
Misure che non bastano
O bere o affogare, recita un adagio popolare. Ma per molti, correnti di opinione, partiti e leader politici, l’alternativa non è questa. Per molti si deve insistere sulle popolazioni autoctone, limitando se non escludendo il ricorso a ulteriori flussi migratori in entrata. In verità una efficace politica demografica, considerate le condizioni di debolezza dell’Europa, non dovrebbe escludere nessuna delle due vie. Ma è illusorio pensare di risalire la china e fermare il declino facendo leva esclusivamente su misure che mirano a incentivare la natalità, come l’assegno unico per i figli appena varato dal Parlamento italiano. Le ragioni sono due, solidissime.
La prima è specifica dell’Europa e consiste appunto nella gravità delle sue condizioni: tasso di fertilità molto basso, natalità in contrazione, mortalità in crescita per l’invecchiamento della popolazione, insufficiente proporzione di donne in età feconda, conseguenza di alcuni decenni di caduta delle nascite. A queste condizioni l’Europa è destinata a passare dagli attuali 748 milioni di abitanti a 710 nel 2050 e a neppure 630 nel 2100, perdendo quasi 120 milioni e ritrovandosi a fine secolo alle prese con una popolazione ancora più vecchia e ancora meno vitale, avviata al definitivo tramonto. La seconda ragione è invece di ordine generale: è assai più facile mettere in atto misure capaci di frenare la natalità che non di accelerarla incrementando le nascite in misura tale da ringiovanire nel tempo la popolazione e rimettere in moto una dinamica virtuosa. Anche se le nascite cominciassero ad aumentare già da oggi, la proporzione di donne di 25-49 anni, il vero motore della natalità, non aumenterebbe a sua volta che tra un paio di decenni, il tempo per i nuovi nati di entrare nell’età del lavoro e della riproduzione, e fino ad allora la popolazione resterebbe in condizioni di grande precarietà demografica.
Dunque, un’accorta politica di programmazione dei flussi migratori è — e ancora di più sarà — indispensabile. Certo, meglio, è perfino pleonastico aggiungere, se ad essa si affianca una politica demografica per creare condizioni favorevoli a un incremento della natalità.
Il rischio di un’Europa emarginata
In effetti il futuro demografico europeo si presenta molto scuro, segnato com’è da due fenomeni che confliggono tra loro al punto da generare un corto circuito dalle conseguenze non ancora pienamente valutabili: la contrazione della forza lavoro e l’esplosione della popolazione di 65 e più anni. Con prospettive così sfavorevoli sarà difficile contrastare il declino socio-economico e politico-strategico che accompagna inevitabilmente quello demografico, quand’è così profondo.
L’Europa degli anni Cinquanta rappresentava poco meno del 22 per cento della popolazione mondiale (549 milioni su 2.536 milioni), quella del 2020 ne rappresenta il 9,6 (748 milioni su 7,8 miliardi), quella del 2100 — se le previsioni venissero confermate, e comunque andranno le cose non divergeranno molto nella sostanza — appena il 5,8 per cento (630 milioni su 10,9 miliardi): non può pensare di contare come nel passato, e neppure quanto conta nel presente, un continente il cui peso demografico si è dimezzato una prima volta tra il 1950 e oggi e si appresta a un ulteriore dimezzamento.
Fa riflettere l’estensione geografica della crisi europea, non solo la sua profondità quantitativa. Perché delle quattro suddivisioni solo l’Europa del Nord è destinata ad aumentare gli abitanti da 106 a 121 milioni, grazie soprattutto al Regno Unito. E se l’Europa occidentale se la caverà con una flessione moderata (da 196 a 189 milioni) dovuta alla perdita della Germania, subiranno un tracollo l’Europa dell’Est (da 293 a 219 milioni, con la Russia che scende da 146 a 126) e, ancor più, quella del Sud (da 152 a 100 milioni). Nel primato negativo dell’Europa del Sud spicca l’Italia, che da 60 potrebbe slittare ben sotto i 40 milioni di abitanti alla fine del secolo. Le premesse ci sono tutte: a cominciare dai dati disastrosi del 2020. Perché oltre ai morti in più rispetto al 2019 (112 mila) dovuti in grandissima parte alla pandemia, c’è un saldo del movimento migratorio che sprofonda (meno 42 mila) e l’inossidabile marcia delle nascite, toccate dalla pandemia solo in novembre e dicembre (concepimenti marzo-aprile), verso l’irrilevanza: appena 404 mila, meno 16 mila rispetto al 2019, per un quoziente di natalità sotto le 6,8 nascite annue ogni mille abitanti. Il motore della società italiana si sta spegnendo, ha detto il presidente dell’Istat Gian Carlo Blangiardo. Parole sacrosante. Ma si stenta a vedere chi possa raccoglierle.