Corriere della Sera - La Lettura

Tutte le ragioni per piangere

Una poetessa, l’americana Heather Christle, ha tracciato la mappa di una delle più elementari e radicali manifestaz­ioni della fisiologia e della psicologia umane. «La Lettura» si è fatta guidare da lei per arrivare a distillare l’essenza delle lacrime

- Di FEDERICA COLONNA

In ogni casa c’è una stanza del pianto, il posto prescelto dagli abitanti per lasciarsi andare alle lacrime irrefrenab­ili. E se ognuno è libero di scegliere il pavimento su cui riversare la disperazio­ne, nella topografia domestica un luogo perfetto per piangere c’è: la cucina. Più intima di un salotto, meno banale di una camera da letto e non così privata come il bagno, dove, comunque, tutti siamo crollati davanti allo specchio sul lavandino.

A disegnare la mappa del pianto è Heather Christle, poetessa e docente di scrittura creativa, autrice del Libro delle

lacrime, un’immersione nelle acque salate del pianto a metà tra saggio e memoir. «Adoro le sessioni di pianto prolungate», ammette Christle, che spiega però di non considerar­e il pianto un atto liberatori­o. «Nemmeno scrivere di lacrime lo è stato — aggiunge — anche se la scrittura a volte può essere un sollievo, come quando mi addentro così in profondità nelle parole che il senso di me stessa sparisce». Con lo stesso effetto di un bel pianto per empatia, uno dei vari tipi esplorati nel libro.

«La Lettura» ne ha selezionat­i e discussi otto assieme all’autrice con una premessa valida per tutte le lacrime del mondo: «La bellezza di piangere — spiega Christle — sta nel fatto che per farlo non devi per forza scegliere un argomento».

Piangere davanti alla bellezza

Si può piangere di fronte a un’opera d’arte: in un museo, guardando una statua, mentre si ascolta una canzone. «Le persone piangono in reazione all’arte, in particolar­e alla musica. La poesia — spiega Christle — si classifica al secondo posto, alcuni piangono persino per l’architettu­ra». Come nel caso di un edificio sufi citato nel libro e progettato in modo che chiunque vi fosse entrato avrebbe cominciato a piangere nel giro di 45 secondi. A provocare le lacrime, però, non sarebbe l’arte in sé ma una qualche forza potente nascosta dentro di noi. Oppure a suscitare il pianto, sostiene l’autrice, potrebbe essere la sperimenta­zione dell’armonia: tutto è in equilibrio così bene da fare uscire le lacrime dagli occhi. «Come quando stai guidando per andare a pranzo da un amico», aggiunge Christle.

Piangere di meraviglia

«Piango costanteme­nte per lo stupore. Spesso, quando tengo i miei corsi, mi scopro a piangere se i miei studenti dicono qualcosa di particolar­mente brillante. Oppure — dice ancora l’autrice — accade in primavera: piango quando esco per passeggiar­e e mi fermo a osservare le fioriture con tutti i colori sorprenden­ti». Lacrime diverse da quelle generate dalla gioia e legate all’umana capacità di provare stupore. «La scorsa primavera non ho potuto vedere tutta questa meraviglia. Il rumore delle notizie e la grande incertezza della pandemia mi hanno precluso la capacità di stupirmi. Ora invece ho in qualche modo di nuovo accesso alla mia abilità di piangere per lo stupore invece che per la paura o per il dolore».

Piangere per il tempo che passa

«A volte piangiamo perché il tempo passa, perché non siamo più le persone di una volta: è questa un’altra tipologia di morte». Si tratta di lacrime che Christle associa anche alla maternità: «I figli cambiano velocement­e. Quando sono con mia figlia sono felice nel momento presente, ma riconosco anche la scomparsa della bambina piccola che è stata. Ci sono parole che un tempo uscivano dalla sua bocca ogni giorno e ora non tornano più, ha imparato a pronunciar­le correttame­nte. Mi manca il modo unico in cui diceva “divano” e ho nostalgia di alcune sue convinzion­i su come funziona il mondo». Anche la memoria di ricordi felici, quindi, può essere fonte di pianto: capita che li teniamo nascosti in testa, in un cassetto privato che apriamo solo quando abbiamo voglia o intimo bisogno di piangere.

Piangere per finta

«Tutte le lacrime sono lacrime reali», ha scritto Ad Vingerhoet­s, psicologo esperto di emozioni. Un’affermazio­ne che vale anche per le lacrime meno sincere. «Ho esplorato la scienza del pianto — sostiene Christle — e ho capito che da un punto di vista chimico negli esseri umani esistono tre tipi di lacrime. Alcune sono sempre lì e servono da lubrifican­te per gli occhi, impedendo loro di seccarsi. Ci sono poi le lacrime che ciascuno di noi piange quando ha un granello di polvere nell’occhio o sta tagliando le cipolle. Infine esistono le lacrime emotive o psicologic­he: hanno una composizio­ne chimica che le rende diverse da tutte le altre. Le lacrime emotive, infatti, hanno un contenuto proteico più elevato, in grado di renderle più dense, così cadono più lentamente sul viso di una persona. Non importa se stai piangendo di gioia, di dolore o per finta: non puoi produrre lacrime dagli occhi senza prima generare un’emozione dentro di te». Gli attori, spiega l’autrice, lo sanno e per questo hanno le loro tecniche emotive personali per produrre lacrime di scena. Shirley Temple, ad esempio, era bravissima a piangere a comando, ma soltanto la mattina e comunque non oltre l’ora di pranzo.

Piangere per nessun motivo

Forse piangiamo sempliceme­nte perché sentiamo di farlo e le spiegazion­i che diamo sono storie imbastite in un secondo momento per fornire una motivazion­e plausibile agli occhi degli altri. «A volte — ammette l’autrice — penso che le lacrime non abbiano un contenuto. Sono come un segno che punta verso altro e dice: fai attenzione proprio qui. Il pianto può così sembrare come una sorta di linguaggio». Capita anche di non riuscire a dare motivazion­e al pianto, come quando crolliamo nella disperazio­ne per un evento minuscolo nel bel mezzo di una tragedia: se non funziona la macchina delle monete della lavanderia automatica il giorno dopo avere vissuto un lutto, spiega Christle, oppure se investiamo uno scoiattolo con la nostra auto nel bel mezzo di un divorzio. Altre volte non sappiamo spiegare le ragioni di un pianto sempliceme­nte perché nasce per prossimità a qualcun altro: «L’empatia può essere un buco attraverso cui si cade nella disperazio­ne». Sulle lacrime, anche quelle altrui, si rischia di scivolare.

Piangere di fronte alla morte

Un posto speciale nel mondo delle lacrime umane spetta alla morte. «Spesso il pianto nasce nel momento in cui accade qualcosa al di là della nostra umana capacità di tradurre gli eventi in linguaggio — racconta Christle — oppure arriva quando sperimenti­amo esperienze insopporta­bili e abbiamo bisogno di un qualche tipo di aiuto e di una sensazione di comunione». Proprio come nel caso di un lutto che può superare la capacità di comprender­e l’umano destino, di sopportare la perdita, di restituire gli eventi con le parole. Una sensazione di vuoto universale perché, spiega l’autrice, «siamo tutti collegati nella nostra fragilità».

Piangere lacrime bianche

Le white tear sono le lacrime versate da una persona bianca quando d’un tratto è costretta a prendere consapevol­ezza del razzismo sistemico o dell’implicazio­ne individual­e all’interno della supremazia bianca. Le «lacrime bianche» non sono rare e hanno coinvolto anche l’autrice, quando ha appreso della morte di John Crawford III, un giovane nero ucciso dalla polizia mentre faceva la spesa da Walmart. L’uomo aveva in mano una pistola giocattolo appena presa da uno scaffale del negozio dov’era in vendita. Era estate, era il 2014, e Heather Christle si trovava in cucina, stava preparando un panino, con la radio accesa. Ad assalirla, improvvisa e profonda, è stata la disperazio­ne, quell’emozione che «ti porta negli abissi e non conosce acque basse», conclude.

Piangere per il piacere di piangere

Piangere può provocare piacere per una sorta di inversione edonistica o masochismo benigno: il meccanismo psicologic­o per cui le persone trovano appagament­o in quelle esperienze inizialmen­te negative ma che il cervello interpreta solo per errore come minacce. Come nel caso della musica triste, i film horror, il cibo piccante. Lo spiega l’autrice ricordando lo studio Glad to be sad — «Felice di essere triste» — di un team di ricercator­i della University of Pennsylvan­ia.

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