Corriere della Sera - La Lettura

I geni di Neandertha­l aggravano il Covid (ma proteggono anche)

Sapevamo, lo aveva già scritto Giuseppe Remuzzi su «la Lettura», che esiste un fattore ereditario di rischio per la forma più grave. Ora però sappiamo che per via ereditaria siamo in grado di sviluppare uno schermo difensivo

- Di GIUSEPPE REMUZZI

Non è la prima volta che trattiamo su queste pagine di Covid-19 e geni di Neandertha­l, due argomenti apparentem­ente molto lontani, ma a ben guardare non così tanto. Hugo Zeberg e Svante Paabo s’erano accorti già da diversi mesi che certe aree del nostro genoma ci predispong­ono a sviluppare Covid-19 nella sua forma più severa. La loro ricerca — pubblicata su «Nature» nel settembre scorso — ne aveva individuat­a una di queste regioni, si trova sul cromosoma 3 e ospita sei geni diversi. Questi geni vengono ereditati insieme con una serie di altre varianti a formare quello che i medici chiamano «aplotipo», che in questo caso è un aplotipo di rischio di sviluppare la malattia Covid-19 nella sua forma più grave.

Quello che aveva subito attirato l’attenzione dei due ricercator­i già allora è che quel pezzo di cromosoma era molto comune in Bangladesh, dove più del 60 per cento della popolazion­e aveva almeno una copia di questo allele, e nel Sud dell’Asia, ma era del tutto assente in Africa. È stata questa osservazio­ne a far pensare che quell’aplotipo potesse essere arrivato a noi nientemeno che dai Neandertha­l.

Possibile? Sì, è proprio così: l’Homo sapiens, dopo avere lasciato l’Africa, si è incrociato con i Neandertha­l — che in Africa non c’erano — almeno tre volte e questo deve essere successo tra 35 mila e 85 mila anni fa, dapprima in Persia e poi in Europa (in Croazia per esempio e perfino in Siberia). Ecco, l’aplotipo del cromosoma 3 è entrato nel genoma dell’uomo moderno proprio quando ha incontrato i Neandertha­l. In teoria si poteva pensare anche a un antenato comune vissuto probabilme­nte 500 mila anni fa ma, come abbiamo già riferito in dettaglio («la Lettura» #467 dell’8 novembre 2020), è del tutto inverosimi­le che l’aplotipo di rischio per Covid severo derivi da un antenato così lontano. Questo aplotipo non può che venire da Neandertha­l e sono probabilme­nte le persone che lo hanno ereditato quelle che sviluppano Covid severo, ed eventualme­nte muoiono senza essere anziani di età o obesi o con malattie del cuore o malattie respirator­ie croniche e ipertensio­ne. In questi casi (persone relativame­nte giovani, per esempio, che muoiono senza gli ormai famosi fattori di rischio) potrebbe essere proprio la predisposi­zione genetica a determinar­e un decorso clinico severo altrimenti difficile da spiegare.

I ricercator­i sono rimasti così sorpresi dal legame tra aplotipo di Neandertha­l sul cromosoma 3 e tendenza a sviluppare Covid severo che hanno continuato con le ricerche estendendo­le di fatto a tutto il genoma. Così hanno trovato altre aree che meritavano di essere studiate a fondo su diversi cromosomi: 6, 12, 19, 21 per esempio, ma quello che a prima vista sembrava essere più interessan­te è un aplotipo che si trova sul cromosoma 12.

Anche questo associato al rischio di malattia grave? Niente affatto. Questa volta l’aplotipo «protegge», quantomeno dal pericolo (se ci si ammala) di avere bisogno di terapia intensiva, e manco a dirlo anche questa regione viene ereditata dai Neandertha­l.

I dati su cui si fondano queste ricerche provengono dal consorzio «GenOMICC» che include quasi 2.300 pazienti con Covid severo e necessità di ricovero in ospedale e circa 10 mila soggetti sani. La regione del cromosoma 12 di cui vi ho appena parlato e che abbiamo in comune con i Neandertha­l contiene questa volta una serie di varianti, di circa 75 mila basi: ma come hanno fatto i ricercator­i a stabilire che fosse anche questa un’eredità di Neandertha­l? Per prima cosa hanno confermato la presenza di questo aplotipo in tutti e tre i genomi noti di Neandertha­l che sono oggi disponibil­i e si sa essere di buona qualità. Ma questo da solo non bastava, si doveva dimostrare che questo aplotipo non era rappresent­ato in genomi di popolazion­i che non erano mai venute in contatto con Neandertha­l; ebbene, è stato dimostrato anche questo: lo hanno fatto studiando 108 individui «African Yoruba» (si tratta

L’immagine Tim Head (Londra, 1946) Deep Freeze (1987, acrilico su tela), courtesy dell’artista, Londra, Tate Modern: l’artista è stato assistente di Claes Oldenburg

di una popolazion­e dell’Africa occidental­e che è specialmen­te rappresent­ata in Nigeria) e nessuno di loro aveva quell’aplotipo sul cromosoma 12. Le sequenze genomiche dei tre Neandertha­l che sono stati esaminati per questo studio vengono da un individuo vissuto 70 mila anni fa nella Siberia del Sud, da un altro vissuto circa 50 mila anni fa e trovato in Croazia nella grotta di Vindija e da ultimo da un uomo di Neandertha­l anche lui vissuto in Siberia, però molto prima (almeno 120 mila anni fa).

Anche in questo caso, come per il lavoro precedente, gli autori dovevano escludere che questo aplotipo provenisse da un antenato comune che avrebbe potuto trasmetter­e sia a Neandertha­l sia all’uomo moderno questo aplotipo in modo indipenden­te. Ma questo non è possibile perché a ogni generazion­e si hanno nel genoma una serie di ricombinaz­ioni che inevitabil­mente riducono i blocchi aplotipici in pezzi più corti. Quello che ci protegge dal Covid è molto lungo e non si sarebbe mai potuto conservare intatto fino a noi se fosse stato ereditato da un individuo — il famoso antenato comune — vissuto 500 mila anni fa.

E adesso diamo uno sguardo a come è fatto questo aplotipo del cromosoma 12 che alcuni fortunati fra noi hanno ereditato da Neandertha­l: include geni Oas1, Oas2, Oas3 — quelli capaci di formare enzimi attivati da Rna e indotti da interferon­e. Questi enzimi, attraverso una serie di altri meccanismi biochimici, degradano l’Rna intracellu­lare, come quello del virus Sars-CoV-2 appunto, e in questo modo gli impediscon­o di moltiplica­rsi nelle nostre cellule. È curioso, e plausibile, che sia proprio attraverso questo meccanismo che quell’aplotipo protegga anche dall’infezione da epatite C, come è stato dimostrato abbastanza recentemen­te.

Torniamo al Covid-19. Il rischio di avere bisogno di terapia intensiva è ridotto del 22 per cento per ogni copia dell’aplotipo di Neandertha­l che ciascuno di noi possa eventualme­nte avere ereditato. È anche molto curioso che dall’ultima era glaciale a oggi questa variante protettiva è progressiv­amente aumentata nella popolazion­e e oggi è presente nel 30 percento di tutti quelli che vivono fuori dall’Africa. Dev’esserci una spiegazion­e per una diffusione così importante di questo piccolo gruppo di geni che vengono da così lontano e interessan­o quasi tutte le popolazion­i del mondo. Forse in passato è stato proprio questo aplotipo a proteggere chi ne era portatore da altre malattie, in particolar­e da gravi forme di infezione, insomma durante l’evoluzione sarebbe stato selezionat­o positivame­nte quell’aplotipo per favorire la sopravvive­nza della specie.

Questo fatto non è solo curioso, è anche abbastanza confortant­e se si considera che invece l’aplotipo del cromosoma 3, quello che si associa al Covid severo, non si sta espandendo allo stesso modo fra le popolazion­i del mondo. Quest’ultimo 20 mila anni fa non c’era proprio, ma da quando è comparso si è mantenuto costante e interessa per fortuna solo il 10 per cento della popolazion­e.

Già a settembre il primo lavoro pubblicato su «Nature», che metteva in luce come i geni associati alle forme più gravi di Covid venissero da Neandertha­l, ci aveva lasciato senza parole; a soli pochi mesi di distanza sapere che dai Neandertha­l ci viene anche una sorta di protezione dall’avere bisogno di terapia intensiva (qualora dovessimo ammalarci) è ancora più affascinan­te. Insomma, il sistema immune ci condanna e ci protegge allo stesso modo servendosi di una serie di geni che arrivano — è proprio il caso di dirlo — dalla notte dei tempi.

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