Corriere della Sera - La Lettura
Ero allergico agli applausi
Vita da pianista Il tedesco Wolf Wondratschek affida a un concertista l’esplorazione di una deriva
AVienna in un caffè dall’allure vagamente italiano, La Gondola, tutti i tavolini sono sempre occupati. Capita allora di bere gomito a gomito con sconosciuti: uno scrittore austriaco inizia a parlare con l’anziano seduto al suo fianco. Un russo che stranamente ordina al cameriere solo un bicchiere d’acqua e si giustifica dicendo: «Sono un pianista a secco. Un bevitore a secco». Comincia così una chiacchierata che parte da un dettaglio, un po’ triviale, per spaziare in una disamina approfondita e poetica sull’arte e diventare la trama di Autoritratto con pianoforte russo ,il più recente romanzo di Wolf Wondratschek. Il grande autore, poeta e sceneggiatore, celebre dalla fine degli anni Sessanta, come esponente della Beat Generation tedesca, che ha poi continuato a scrivere occupandosi di letteratura, musica e critica sociale.
Nel libro, benché diviso in capitoli, non esiste una struttura definita della narrazione, la conversazione fra i due uomini si trasforma spesso in un monologo, un flusso di pensieri che procede alternando frammenti di sensazioni e ricordi. Pagine in cui la maestria stilistica dell’autore riesce a incantare, divertire e condurre a riflessioni sul senso dell’esistenza stessa. Il pianista si chiama Suvorin e si definisce una celebrità dimenticata. Ha avuto una carriera sfavillante, internazionale. Ma la disillusione era arrivata presto: «Alla fine ci si ricorda più delle stanze d’albergo che dei concerti. Una stretta di mano troppo forte. Belle donne che bussano per poi scusarsi, era un errore. Una valigia con il lucchetto rotto. La torre Eiffel nella nebbia, per due giorni non si è visto niente».
Questo era un effetto collaterale dell’arte ancora sopportabile ma un altro dettaglio aveva rovinato il suo percorso artistico. Un brutto giorno aveva improvvisamente scoperto di essere allergico agli applausi, all’entusiasmo del pubblico, alla richiesta dei bis. Prorompere in grida di giubilo dopo la sacralità di una sonata di Schubert, composta due mesi prima della morte, per Suvorin era pura blasfemia. Non poteva comprenderlo, assecondarlo. Così erano cominciati i problemi, perché in Russia (dov’era nato, cresciuto e si era formato) l’artista apparteneva al popolo e rifiutare la gioia degli applausi significava rifiutare la gente. Un funzionario di partito era andato in camerino a ricordarlo, al compagno Suvorin. Bastava un niente per passare da artista a nemico dello Stato.
Il vecchio pianista ricorda che allora, per ribellione, aveva deciso di andare a suonare nei pianobar, magari in Italia, a Sanremo, città che la moglie sognava di visitare da sempre. Stavano quasi per farlo, poi la donna era morta. L’ha lasciato solo, ad annegare nella nostalgia: per sopravvivere ormai tiene sempre accesa la radio sintonizzata sul canale di musica classica, non la spegne mai, al massimo l’abbassa. E quando non si reca al caffè a chiacchierare confessa che a fargli compagnia ci sono i grandi della musica. Li immagina molto umani: Schubert che beve una birra, Mozart al tavolo che scrive, Beethoven mentre attraversa la strada.