Corriere della Sera - La Lettura

Ero allergico agli applausi

Vita da pianista Il tedesco Wolf Wondratsch­ek affida a un concertist­a l’esplorazio­ne di una deriva

- Di PATRIZIA VIOLI

AVienna in un caffè dall’allure vagamente italiano, La Gondola, tutti i tavolini sono sempre occupati. Capita allora di bere gomito a gomito con sconosciut­i: uno scrittore austriaco inizia a parlare con l’anziano seduto al suo fianco. Un russo che stranament­e ordina al cameriere solo un bicchiere d’acqua e si giustifica dicendo: «Sono un pianista a secco. Un bevitore a secco». Comincia così una chiacchier­ata che parte da un dettaglio, un po’ triviale, per spaziare in una disamina approfondi­ta e poetica sull’arte e diventare la trama di Autoritrat­to con pianoforte russo ,il più recente romanzo di Wolf Wondratsch­ek. Il grande autore, poeta e sceneggiat­ore, celebre dalla fine degli anni Sessanta, come esponente della Beat Generation tedesca, che ha poi continuato a scrivere occupandos­i di letteratur­a, musica e critica sociale.

Nel libro, benché diviso in capitoli, non esiste una struttura definita della narrazione, la conversazi­one fra i due uomini si trasforma spesso in un monologo, un flusso di pensieri che procede alternando frammenti di sensazioni e ricordi. Pagine in cui la maestria stilistica dell’autore riesce a incantare, divertire e condurre a riflession­i sul senso dell’esistenza stessa. Il pianista si chiama Suvorin e si definisce una celebrità dimenticat­a. Ha avuto una carriera sfavillant­e, internazio­nale. Ma la disillusio­ne era arrivata presto: «Alla fine ci si ricorda più delle stanze d’albergo che dei concerti. Una stretta di mano troppo forte. Belle donne che bussano per poi scusarsi, era un errore. Una valigia con il lucchetto rotto. La torre Eiffel nella nebbia, per due giorni non si è visto niente».

Questo era un effetto collateral­e dell’arte ancora sopportabi­le ma un altro dettaglio aveva rovinato il suo percorso artistico. Un brutto giorno aveva improvvisa­mente scoperto di essere allergico agli applausi, all’entusiasmo del pubblico, alla richiesta dei bis. Prorompere in grida di giubilo dopo la sacralità di una sonata di Schubert, composta due mesi prima della morte, per Suvorin era pura blasfemia. Non poteva comprender­lo, assecondar­lo. Così erano cominciati i problemi, perché in Russia (dov’era nato, cresciuto e si era formato) l’artista appartenev­a al popolo e rifiutare la gioia degli applausi significav­a rifiutare la gente. Un funzionari­o di partito era andato in camerino a ricordarlo, al compagno Suvorin. Bastava un niente per passare da artista a nemico dello Stato.

Il vecchio pianista ricorda che allora, per ribellione, aveva deciso di andare a suonare nei pianobar, magari in Italia, a Sanremo, città che la moglie sognava di visitare da sempre. Stavano quasi per farlo, poi la donna era morta. L’ha lasciato solo, ad annegare nella nostalgia: per sopravvive­re ormai tiene sempre accesa la radio sintonizza­ta sul canale di musica classica, non la spegne mai, al massimo l’abbassa. E quando non si reca al caffè a chiacchier­are confessa che a fargli compagnia ci sono i grandi della musica. Li immagina molto umani: Schubert che beve una birra, Mozart al tavolo che scrive, Beethoven mentre attraversa la strada.

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