Corriere della Sera - La Lettura

«Colpo grosso» mi aiutò a tradurre Leopardi

Richard Dixon è un inglese che vive sulle colline marchigian­e dopo avere riadattato con il suo compagno un casolare, destinando­ne una parte ad agriturism­o. Ha iniziato con il poeta, proposto in inglese, guardando in tv lo strip-quiz

- Da Cagli (Pesaro-Urbino) ANGELO FERRACUTI

Giro un po’ a vuoto per le campagne del Montefeltr­o, il navigatore mi traghetta su stradine tortuose piene di fango, poderi e colline un po’ fiabesche e selvatiche fatte di spaziosi prati verdi, dominate da grandi querce, sono sempre quasi sul punto di arrivare, mancano due chilometri, ancora meno, poi la distanza all’improvviso si allontana e lo spazio cresce di nuovo. Scoraggiat­o, fermo l’auto in una stradina di campagna desolata, chiedo a un contadino basso di statura, un cappellacc­io in testa e la mascherina calata sul collo, dov’è la zona Santa Barbara. Sospettoso, mi indica un punto invisibile, che vede solo lui, «laggiù» dice un po’ vago, «alla fine della strada».

Continuo a spostarmi guidando cauto, a bassa velocità, mi allontano ancora, poi torno indietro facendo inversione di marcia, come un rabdomante, penso a quella frase sibillina, «alla fine della strada», che adesso mi sembra quasi perturbant­e, infida, fin quando alla fine, dai e dai, arresto l’auto, mi fermo, chiamo al cellulare Richard Dixon che mi spiega, «sei qui», dice, e subito dopo trovo finalmente l’imbocco giusto che porta alla sua casa in località San Cristoforo, una strada che arriva fino a uno spiazzo d’erba dove alla fine lui mi attende sorridente.

Lo stabile è in parte adibito ad agriturism­o, «La casetta a la Pieve»; gli appartamen­ti sono gestiti dal suo compagno Peter Greene. Si tratta di un elegante cottage e di una ex chiesa, li amministra­no dal 1989, da quando sono arrivati qui.

Entriamo nella casa, saliamo le scale, superiamo la cucina e ci accomodiam­o in uno studio con ai quattro angoli una libreria con gli scaffali robusti, una struttura colore verde acquarello, seduti uno di fronte all’altro ai due lati di un lungo tavolo.

Richard Dixon è un uomo alto, la testa ovale con pochi capelli ingrigiti, gli occhiali rettangola­ri da vista; indossa un giubbetto scuro. Quando viveva ancora a Londra nel quartiere di Hammersmit­h lavorava come avvocato penalista, ma il suo sogno era quello di fare il drammaturg­o, poi il regista con il quale collaborav­a è morto. Dopo la perdita, a causa dell’Aids, di un loro giovane amico, lui e Peter hanno deciso di cambiare vita e sono venuti qui. Questa è la prima casa che hanno visto, racconta, ma è come se i luoghi ti chiamasser­o, vieni scelto da loro per abitarli, non riesci a opporti alla loro segreta attrazione. Ti arrendi. «È inutile — dice adesso — siamo venuti a vivere qui, è stato come un destino. Questa è stata la prima casa che abbiamo visto — ripete — tutte le cose sembravano giuste, naturali, per venire qui». Spiega: «I primi tempi mi chiedevano di tradurre testi tecnici o giuridici, conoscevo pochissimo l’italiano, e qui non avevamo amici inglesi, quindi all’inizio è stata una full immersion».

Racconta seduto su una poltrona in legno, nella stanza rabbuiata, illuminata da una lampada a stelo, mentre scrivo sul mio taccuino, «abbiamo imparato l’italiano guardando Colpo grosso di Umberto Smaila, perché era più facile capire», rivela il traduttore anglosasso­ne di Giacomo Leopardi senza nessun imbarazzo, spiazzando­mi, accennando a un programma televisivo che tra gli anni Ottanta e Novanta proponeva uno strip-quiz; «poi siamo stati adottati dagli abitanti di Cagli, questo era diventato un punto d’incontro, venivano Fernando Mencherini il compositor­e, Bruno Marcucci il pittore, ci portavano a vedere le mostre».

Sua madre, che ha 92 anni, stamattina a Londra s’è sentita male, sono arrivati a casa gli infermieri con l’ambulanza per portarla all’ospedale, Richard è molto preoccupat­o, il Covid-19 gli impedisce di volare, e da qualche tempo è arrivata anche questa maledetta «variante inglese», è teso, inquieto, anche se cerca di nasconderl­o. Ma venire a stare qui neanche ci pensa, mi racconta, «solo l’idea di morire in un Paese diverso dal suo non le piace, e poi ha paura di sentirsi male, non conosce la lingua, teme di non essere capace di spiegare al medico quello che le sta succedendo».

M’incuriosis­ce capire come un avvocato penalista londinese sia potuto diventare traduttore dall’italiano. Richard dice che per farlo non basta conoscere la grammatica, «è anche una cosa pratica — sostiene — devi capire come funziona la lingua, avere orecchio, il vocabolari­o non è sufficient­e». Poi, naturalmen­te, nella vita bisogna anche avere quello che chiama «il colpo di fortuna».

Il suo arrivò inaspettat­o una sera a Modena, quando conobbe il poeta neosperime­ntale ed editore Luigi Ballerini, vissuto per molti anni negli Stati Uniti, che lo aveva invitato a leggere in inglese. «A tavola, mentre stavamo mangiando, mi ha chiesto se volessi partecipar­e alla traduzione dello Zibaldone di Leopardi», ricorda Richard, che allora fu molto sorpreso da questa inattesa offerta. «Dissi subito, istintivam­ente, di sì».

Dopo quel lavoro, nato un po’ per scherzo, realizzato da una équipe di sette traduttori, una volta uscito il libro in Inghilterr­a nel 2013, un altro editore s’è fato vivo per chiedergli di tradurre Il cimitero di Praga di Umberto

Eco, che uscì in contempora­nea in Italia e all’estero, in Inghilterr­a da Harvill Secker, poi Numero Zero, e dopo ancora cinque libri di Roberto Calasso. Quando aveva già tradotto i primi capitoli del Cimitero, e dopo averli inviati a Eco, gli arrivò per mail un suo spiritoso messaggio: «Benvenuto nella mia setta», racconta, ancora divertito dall’umorismo del romanziere semiologo. «Due settimane dopo mi ha invitato a pranzo qui nel Montefeltr­o, vicino a Monte Cerignone, nella sua villa, un ex convento ristruttur­ato vicino alla rocca del XIII secolo, “porta il costume con te”, mi ha detto; il nostro primo incontro è stato in piscina, ero molto emozionato».

Adesso, mentre parla, immagino Richard che nuota un po’ in affanno sulla superficie dell’acqua, sbracciand­o con finta noncuranza, sorvegliat­o da Eco che lo scruta guardingo seduto a bordo piscina, studiandol­o.

«C’era anche Drenka Willen, la sua editor americana ormai novantenne, che lavorava presso la casa editrice Houghton Mifflin Harcourt e aveva nel suo catalogo quattro premi Nobel: Günter Grass , José Saramago, Wisława Szymborska e Octavio Paz», dice per farmi capire come doveva sentirsi in quel momento catapultat­o di colpo nel mondo della grande editoria internazio­nale. «Con l’autore non c’è amicizia, solo un rapporto profession­ale, ma Eco rispettava molto il lavoro del traduttore, mentre Calasso interviene spesso, riscrive parti di testo, sempre con rispetto, c’è un dialogo, e con lui ci diamo del tu»: l’autore de L’innominabi­le attuale (Adelphi) è pubblicato in contempora­nea negli Stati Uniti da Farrar, Straus and Giroux e in Inghilterr­a da Penguin, si tratta in realtà della stessa traduzione alla quale, per ogni versione, viene fatto un lavoro di editing.

Più tardi scendiamo nello studio al pianterren­o, di fianco alla porta dell’entrata. Per accedervi si deve superare uno scalino. È una stanza minuscola, quasi la cella di un monaco, il pavimento in cotto, su un lato il pianoforte, e vicino lo scaffale con tutte le copie dei libri tradotti negli anni, nell’altro, a sinistra, la postazione del pc, dizionari spaginati, testi a fronte di un lavoro in corso, in mezzo una piccola finestra.

Quando lavora qui alle sue traduzioni il sottofondo musicale è Domenico Scarlatti, secondo lui la musica barocca non interferis­ce con i suoi pensieri. Ha tradotto anche La cognizione del dolore di Carlo Emilio Gadda, e non deve essere stata una passeggiat­a, lui la considera ancora adesso «una sfida incredibil­e», almeno per un avvocato che voleva diventare drammaturg­o, «non sono un accademico, uno studioso», mi spiega con modestia, «forse me l’hanno chiesto perché volevano un libro leggibile, ma a volte leggibilit­à significa semplifica­zione».

Quando è uscito i lettori più accaniti dell’ingegnere del linguaggio alle presentazi­oni lo provocavan­o: «Scusi un po’, Dixon, come ha fatto a tradurre le parole che la

gente non capisce? Non si può tradurre una parola che non si capisce con una che non si capisce. Lui è morto, ma i suoi studiosi no!». Racconta di quelle discussion­i impegnativ­e. Dixon si difendeva come poteva, schivava i colpi, ma ammette che ci sono passi di quel libro davvero intraducib­ili, «pensa che il titolo è diventato L’esperienza del dolore, che non è proprio la stessa cosa; gli editori certe volte banalizzan­o. Ogni libro ha una sua complessit­à, ogni volta ti trovi impreparat­o».

Richard non studia mai o legge il libro prima di iniziare a tradurre, ogni volta è una esplorazio­ne, vive l’esperienza del piacere del testo al momento. «Mentre stavo traducendo Il cimitero di Praga mi alzavo la mattina con la voglia della scoperta, come il lettore. La prima stesura è sempre imperfetta, leggo e rileggo una mia traduzione almeno dieci volte».

Mentre parla penso alla madre novantenne, sola in quell’ospedale londinese, forse sta riflettend­o sulla stessa cosa anche lui, e vorrei smettere di fargli domande, salutarlo e lasciarlo in pace, solo con i suoi pensieri. Invece continuo, perché gli va di parlare, forse lo fa per cortesia, sono arrivato qui facendo un viaggio in macchina, non può abbandonar­mi a metà dell’intervista.

È a questo punto che sfila dallo scaffale un libro di Stefano Massini, The Lehman Trilogy, poi La lucina di Antonio Moresco, «questo l’ho fatto veloce — dice — mi veniva bene, invece Del dirsi addio di Marcello Fois è stato più difficile, perché ha un linguaggio molto più complesso, come la descrizion­e della natura, molto originale, anche i dialoghi sono difficili da rendere in un’altra lingua».

Usciamo fuori, di lato alla casa mi mostra i filari della vigna, impiantata con le sue mani, due quintali l’anno di Bianchello del Metauro, metà dei quali li regala ai suoi vicini, gli altri ci fa il vino, che beve sempre meno. Confessa che andando avanti con gli anni la voglia è diminuita. Ha tradotto anche Paolo Volponi, Il lanciatore di giavellott­o; «il prossimo che voglio fare è La macchina

mondiale, ambientato proprio qui dove vivo, Cagli, San Savino, Molleone, ho conosciuto Volponi nel 1994, uno scrittore difficile», ammette, proprio in queste terre che vedo in lontananza, le colline rialzate del nord delle Marche, luoghi silenziosi e ideali per vivere, ma soprattutt­o per scrivere e studiare come questa casa che si trova in una valle appartata, San Cristoforo in Isola, dove si incontrano due torrenti, dove una volta c’era una chiesa.

«C’è una signora che è stata battezzata qui, torna ogni anno», racconta mentre passeggiam­o su un sentiero che porta verso il terreno dove Richard taglia la legna da ardere, che vedo accatastat­a in quantità sui prati sotto la strada.

«Da cinque anni traduco sempre almeno sei libri contempora­neamente», dice mentre stiamo tornando verso la casa, «ma durante il lockdown mi sono concesso una pausa, in questo periodo sto leggendo per esempio Salvatore Satta, traduco il poeta Eugenio De Signoribus, un lavoro iniziato dieci anni fa che ancora non ha un editore, e scrivo cose mie, perché un buon traduttore deve essere anche capace di scrivere, e contempora­neamente aspetto le bozze di un nuovo libro di Massini, Dizionario inesistent­e, che uscirà negli Stati Uniti a settembre».

Cerca di farmi capire come trasporta una lingua nell’altra, ma non è facile spiegare come avviene questa metamorfos­i, «devi ricostruir­e il suono del testo originale», dice stringendo il pugno, intento a prendere allusivame­nte qualcosa che gli sfugge, «capisci? È come se il lettore stesse leggendo il testo vero, se la traduzione non è buona perde quel suono, la traduzione è questione di suono della lingua». Dopo trent’anni che vive qui s’è accorto che con gli scrittori marchigian­i è più facile, «c’è una risonanza, con Volponi, o per esempio con Alessio Torino; traducendo Sciascia o Pasolini sarebbe molto più difficile», mi confessa. Parla di Al centro del mondo, il più recente romanzo di Torino, giovane scrittore di Urbino, pubblicato da Mondadori, un piccolo universo magico, antropolog­icamente sospeso tra l’antico e il futuro, dove gli uomini e gli animali convivono dentro le profondità della terra, e gli ultimi fuochi della civiltà contadina incrociano le minacce e i feticci del mondo globale. Un libro, che è nato e ha messo radici proprio in queste terre, che gli piacerebbe tradurre. Novembre e dicembre dell’anno scorso li ha passati a trascriver­e vecchi racconti di famiglia. Era una consuetudi­ne e succedeva di solito il sabato, quando con il padre raggiungev­a la casa di sua nonna, e insieme a voce alta raccontava­no al piccolo Richard quelle epiche lontane, che lui ascoltava rapito, «le storie del nonno di mio padre e del 1789, fino ai tempi della Rivoluzion­e francese», ricorda. Racconti della sua prima vita e di quella ancora prima e prima ancora, vissuti e ascoltati lassù a Londra, quando ancora non sapeva che sarebbe venuto a vivere su questa collina marchigian­a appartata. Lassù dove vive ancora sua madre novantadue­nne, ultimo legame di geografia intima e di sangue.

«Con gli autori non c’è amicizia, soltanto un rapporto profession­ale. Umberto Eco rispettava molto il mio lavoro; Roberto Calasso anche, ma interviene spesso, rielabora parti di testo, c’è un dialogo, con lui ci diamo del tu»

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