Corriere della Sera - La Lettura
LA VOCE SCANDALOSA LANCIATA DA PASOLINI CHE RECITA SÉ STESSA
Dario Bellezza si può legittimamente definire l’autore più rappresentativo di quella nutrita schiera di poeti che cominciò a scrivere dopo la cesura del Sessantotto. «Ecco il miglior poeta della nuova generazione»: così si era subito espresso al riguardo Pier Paolo Pasolini, firmando il profetico risvolto di copertina del suo libro d’esordio, Invettive e licenze, apparso nel 1971.
In quella prima raccolta di versi il nucleo più rovente e originale della poesia di Bellezza appare già perfettamente definito: la vocazione istrionica e teatrale, il gioco equivoco tra simulazione e autenticità, la centralità dell’io («il mare di soggettività sto perlustrando»), l’esibizione della tematica erotica e amorosa (di un amore omosessuale, come nei suoi maestri Pasolini e Sandro Penna), l’intreccio di narcisismo e di autolesionismo, il sentimento della morte, la critica dell’Italia borghese e piccolo-borghese, del moralismo, dell’ipocrisia, del perbenismo.
Bellezza si è voluto un poeta provocatorio, scandaloso, ma insieme, con altrettanta consapevolezza, un poeta che fosse anche la prima vittima delle proprie provocazioni e del proprio scandalo. Dovunque fosse e di qualsiasi cosa parlasse non era mai sé stesso, ma proprio per questo lo era sempre, come se la sua recita fosse impermeabile alle falsificazioni. La qualità più impagabile della sua poesia va cercata nella voce, che è sempre intonatissima, perentoria, e comunque tesa almeno un po’ verso l’alto, le frequenze acute, l’intensità del dire: «Fuggono tutti i giorni miei/ o oscura luce dagli occhi incantatori./ Fuggono, si perdono, corrono/ dietro le immagini di una volta:/ i baci, gli abbracci, i turbamenti/ insinceri del ragazzo migliore/ fuggono atterriti verso la fine/ che è prossima. Solo tu, Serpenta,/ gioisci e mi riscuoti come larva/ che al sole si sveglia e vola via».