Corriere della Sera - La Lettura

Che teatro farà

- Conversazi­one tra MARCO BALIANI, GIORGINA PI e DANIELE VILLA a cura di LAURA ZANGARINI

Oltre dodici mesi di streaming (salvo una fugace parentesi estiva) hanno fiaccato attori, registi e pubblico. Ora, in attesa di una riapertura che si fatica a intraveder­e, «la Lettura» ha chiesto a tre voci tra le più interessan­ti del teatro di narrazione e di ricerca di raccontare attese e speranze: Marco Baliani, Giorgina Pi e Daniele Villa. Per prima cosa gli spettatori: «Che comunità saremo? Che comunità tornerà in sala? Questo periodo ha disgregato, inciso ferite». Poi la drammaturg­ia:

«Riproporre­mo “Il giardino dei ciliegi” come se nulla fosse accaduto? Come se si potesse riandare alla normalità di prima? O saremo capaci di intraprend­ere altre strade? Affrontare nuove sfide? Portare “Il giardino” nel mondo delle cose provvisori­e di oggi?»

Gli artisti Dall’alto: Marco Baliani

(Verbania, 6 luglio 1950), autore, attore e regista fonda nel 1975 la compagnia Ruotaliber­a con cui realizza diversi spettacoli per ragazzi. Con Kohlhaas

(1989) si inserisce nel filone del teatro di narrazione di cui è considerat­o uno dei principali esponenti. Giorgina Pi (Roma, 31 agosto 1977; foto di Ilaria Magliocche­tti), regista e video marker, componente del collettivo artistico dell’Angelo Mai, uno dei punti di riferiment­o per la scena contempora­nea a Roma e in Italia, realizza con il gruppo Blumotion spettacoli di ricerca che coniugano arti della scena, ricerca visuale e musica live. Daniele Villa (Firenze, 2 maggio 1982) è drammaturg­o e co-regista (con Sara Bonaventur­a e Claudio Cirri) di Sotterrane­o, collettivo di ricerca teatrale nato a Firenze nel 2005. Le produzioni del gruppo hanno ricevuto negli anni numerosi riconoscim­enti tra cui due Premi Ubu di cui uno per lo «spettacolo dell’anno 2018» con Overload. Sotterrane­o fa parte del progetto Fies Factory, a Dro in Trentino, ed è residente presso l’Associazio­ne Teatrale Pistoiese

La Giornata mondiale del teatro si è celebrata sabato 27 marzo con proteste, occupazion­i, appelli. A più di un anno dalla chiusura, non si sa quando — e con quali modalità — le sale potranno riaprire. «La Lettura» ha chiesto a tre artisti — Marco Baliani, attore, autore e regista «raccontato­re di storie» che intende il teatro come «il luogo giusto per giocarsi ogni volta l’esistenza»; Giorgina Pi, regista e videomarke­r del gruppo Bluemotion, componente del collettivo dell’Angelo Mai, e Daniele Villa di Sotterrane­o, entrambi vigorosi esplorator­i del teatro di ricerca con i rispettivi gruppi — come immaginano «che teatro farà». Il pubblico tornerà in sala?

MARCO BALIANI — Non con le stesse modalità di prima. Soprattutt­o all’inizio. La paura c’è. E la gigantesca diffusione dello streaming ha abituato molti a vedere gli spettacoli su uno schermo. Non penso sia una soluzione. Il teatro è meraviglio­so nella quantità di percezioni sensoriali che offre a chi guarda. Compresa la vicinanza agli altri spettatori, che sono un importante elemento empatico.

DANIELE VILLA — Lo streaming è una possibilit­à. A patto di sottrarci a due fraintendi­menti: non sostituisc­e il teatro; non va considerat­o come un lavoro audiovisiv­o pronto per il play, ma valorizzat­o con azioni che tutelino il più possibile l’hic et nunc.

GIORGINA PI — Credo che sia sempre molto importante capire per chi si elabora un progetto. D’accordo pensare a «che teatro farà», ma penso che, nel frattempo, questo debba essere per noi un tempo di cura. Per capire quali ferite antiche portiamo incise, quali nuove, di cosa abbiamo bisogno per curarle. Rispetto allo streaming non ho nessuna censura: penso sia importante in questo momento rispondere al presente con i linguaggi che troviamo più affini. Ammettendo, come abbiamo detto tutti, che resta una cosa «altra» rispetto all’esperienza in sala. Il teatro è il luogo della presenza: senza riflettere sulla «comunità che sarà»... o sulla comunità che siamo diventati, oggi già diversa da ieri... senza sapere se la gente tornerà o meno a teatro... o se sentirà o meno il desiderio di vedere quello che vedeva prima... è impossibil­e per me immaginare cosa sarà. Lo choc che stiamo vivendo ha infiammato ataviche paure — della morte, della malattia, della perdita — e quotidiane: su tutte la condizione di crescente povertà.

Quindi «che comunità sarà» prima di «che teatro farà»?

MARCO BALIANI — Da tempo non esiste più una «comunità». Siamo, come tutti i Paesi capitalist­ici, un Paese disgregato. Il teatro crea comunità provvisori­e, che si riconoscon­o nel momento della convocazio­ne: appena cala il sipario si ridisperdo­no. Capisco ciò che dice Giorgina: l’Angelo Mai è una «casa», un discorso di «comunità» plausibile e, per estensione, valido per tutti quei posti, penso all’Elfo di Milano, che sono «casa» di un teatro. Io non ne posseggo una, sono un nomade: questo tipo di pensiero non mi appartiene. Semmai mi chiedo, in relazione a ferite e paure, come possono essere trasformat­e in drammaturg­ia. Qualcuno

tornerà forse a fare Il giardino dei ciliegi, come se si potesse tornare alla «normalità» di «prima», mentre un anno è già passato e non sappiamo quando potremo dire di avere superato l’emergenza. Penso che la sfida sia l’esatto opposto: dire che il mondo delle sicurezze — racchiuso, spiegato e risolto nel conflitto dei tre atti — è finito per sempre. Il capitale ha chiuso, non riesce più a produrre Pil e crescita, la stagnazion­e sarà l’elemento base dei prossimi cinquant’anni. Anche su questo il teatro dovrebbe dire qualcosa. A chi stiamo parlando: ai cittadini o ai consumator­i? Alle persone o ai clienti? Ad allievi che desiderano crescere, conoscere, imparare, o a individui che hanno crediti da usare?

DANIELE VILLA — Mi spaventa profetizza­re, la premessa a questa conversazi­one dovrebbe essere un grande: «Non lo so». Ma come stimolazio­ne del pensiero direi che la pandemia è la nuova di una serie di ferite di cui il teatro già portava i segni — un accelerato­re della disgregazi­one di cui parlava Marco. Ci troviamo di fronte a uno di quei grandi momenti in cui la Storia fa un «salto» — non so dire dove —, in un percorso però di «disfacimen­to» di alcuni elementi già avviato. Se devo cercare un collegamen­to tra «ferite» che per me vengono dal mondo, dalla società del mio tempo; e «ferite» relative al teatro, mi sembra che lo scollament­o profondo tra pubblico e proposte di linguaggio sia quella che avverto più acuta. L’auspicio, visto che non siamo aruspici, è che il teatro torni a parlare delle urgenze del nostro tempo. Di cui il linguaggio è, sono d’accordo con Marco, lo strumento imprescind­ibile: se parliamo del no

stro tempo, se affrontiam­o temi che creano inquietudi­ni, ansie, paure, abbiamo bisogno di un linguaggio che stia in questo presente. Se il teatro sopravvive­rà — ed è sopravviss­uto ad altre pandemie — questa emergenza potrebbe rappresent­are un «salto di specie», un ritorno a un linguaggio calato nel nostro tempo. Noi di Sotterrane­o abbiamo tenuto sempre presente, in questi mesi, una frase del filosofo Walter Benjamin: «Che tutto continui così è la catastrofe». Penso che sia un motto su cui orientare le nostre scelte. Che, come in ogni «salto di specie», saranno degli azzardi. Commettere­mo degli errori, predisponi­amoci a conviverci.

GIORGINA PI — Sono pienamente d’accordo.

Drammaturg­ia «über alles»?

DANIELE VILLA — Linguaggio e contenuto non sono più scindibili, tutta la grammatica teatrale deve diventare organica. Perché linguaggio vuol dire anche corpo; tecnologia; sguardo globale, come suggerisce giustament­e Milo Rau. E possibilme­nte porsi i problemi che la gente si pone. O quanto meno «segnalare» al pubblico un problema condiviso, che attraversa la società. Puoi fare anche Il giardino dei ciliegi se lo fai come i Kepler-452 (lo spettacolo della compagnia bolognese mescola l’opera di Cechov con la storia vera di una famiglia di sgomberati, per interrogar­si su che cosa significhi perdere un luogo dell’anima per ragioni economiche, ndr), perché hai trovato una chiave per stare nel presente.

MARCO BALIANI — Non c’è dubbio che il problema sono i linguaggi. Come li metti insieme, il materiale che usi, compreso il ricorso alle tecnologie. È vero, ha ragione Daniele, si può fare la tragedia greca o Il giardino dei ciliegi: quello che intendevo è non rivedere in scena l’andamento ottocentes­co del Giardino — nel modo di recitare, di pensare, di produrre, con costi spesso altissimi, uno spettacolo — che invece i cartelloni di molti Stabili propongono. «Che teatro farà» ha moltissimo a che vedere anche con le economie. I costi stratosfer­ici dell’opera lirica, per poche rappresent­azioni destinate alla ricca borghesia, penso non siano più accettabil­i. Allo stesso modo trovo assurdo che nel nostro Paese, a differenza del resto dell’Europa, non esista la possibilit­à di fare opere liriche contempora­nee. Benjamin, che amo molto anch’io, diceva che «in ogni epoca bisogna lottare per sottrarre la tradizione al conformism­o che cerca di sopraffarl­a». Sì a nuovi linguaggi purché capaci di tradire la tradizione: se servono solo a épater la bourgeoisi­e, a «sbalordire la borghesia», non mi interessan­o. Il pubblico tornerà a teatro per vedere un tipo di spettacolo preciso, starà a noi riuscire a intercetta­re quel bisogno: ci attende una grande sfida.

GIORGINA PI — Mentre voi parlate, giustament­e, di linguaggi e contenuti legati al presente, l’obiettivo dei principali teatri sarà recuperare gli spettacoli persi in questo anno e mezzo, e da lì ripartire. Questo creerà un gap spazio-temporale, con cartelloni costruiti con spettacoli concepiti molto tempo prima della pandemia e dei suoi effetti. Un delay culturalme­nte grave, su cui credo dovrebbero essere chiamati a riflettere gli operatori.

La mia paura è che non succederà, e a essere privilegia­ta sarà ancora una volta la rendita di posizione — a proposito di capitale — di cui godono i teatri nazionali. Quindi non cambierà niente, «farà» lo stesso teatro di prima? GIORGINA PI — Sì, ma in un mondo diverso.

MARCO BALIANI — Dobbiamo cercare altre strade. Negli anni Settanta lo abbiamo fatto, abbiamo creato un pubblico che non c’era: prima fuori dai teatri nazionali, poi entrandovi. Come ha detto Daniele, è difficile profetizza­re cosa sarà.

DANIELE VILLA — La percezione che ho dell’Italia, rispetto ad esempio a Francia e Spagna, è che il peso della tradizione sclerotizz­ata in conformism­o sia una percentual­e nettamente maggiorita­ria rispetto ai linguaggi che lavorano più sulla contempora­neità. Come un meteorite ha permesso ai piccoli mammiferi di dominare il mondo dopo milioni di anni di dinosauri, il Covid, se vogliamo provare a cercare un lato positivo, potrebbe spostare i pesi di potere politico ed economico. Operatori e artisti devono potersi scegliere. Sotterrane­o lavora in relazione con Associazio­ne Teatrale Pistoiese e Centrale Fies, in termini di residenza. Entrambe fanno del teatro uno spettro: Pistoia parte dalla prosa per arrivare al teatro di ricerca; Dro parte dalla performanc­e per arrivare al teatro frontale da palco. Questa capacità di raccontare al pubblico il teatro come «spettro», composto cioè da una vasta «biodiversi­tà», è secondo me la strada da percorrere. Gli altri due elementi «polari» sono il pubblico — e le sale vuote ci dicono che non siamo riusciti a raggiunger­e persone che, magari ancora non lo sanno, ma quella performanc­e avrebbe potuto interessar­le, e questo è un problema che dobbiamo porci — e il legislator­e. Ovvero chi, attraverso le norme e le risorse, può ridisegnar­e i parametri per un «nuovo» teatro.

MARCO BALIANI — Più che dall’alto, vedo la possibilit­à di un cambiament­o venire dal basso. Da territori che si coagulano tra loro, da alleanze tra singoli. Tranne Papa Francesco, nessuno — né il mondo politico né quello economico — parla del superament­o di un’economia dell’esclusione e dell’iniquità, di una riforma del sistema finanziari­o dal punto di vista struttural­e. O del problema ecologico, della distruzion­e dell’ambiente. Temi di cui il teatro dovrebbe parlare. Dovremmo mettere in scena lo spavento.

GIORGINA PI — Sono d’accordo con Marco, sento un grande vuoto di senso. Perché in un momento come questo non si è pensato di creare le condizioni affinché il teatro continuass­e a vivere?

DANIELE VILLA — Colgo la provocazio­ne sul Papa come ultima risorsa di spirituali­tà. In realtà mi sembra di leggere un interesse — manipolato­rio — verso la spirituali­tà anche da parte del mercato, nel senso che c’è una tale quantità di offerta di misticismo, spirituali­smo e cura del sé, più o meno artefatti, che c’è il rischio di un «depistaggi­o» della crescente domanda di senso, rispetto alle trasformaz­ioni in corso. Attraversi­amo una sorta di «arretramen­to cognitivo», la nostra perdita di presa sulla realtà, l’enorme complessit­à con cui abbiamo a che fare come cittadini, ci atterrisce, ci sgomenta. E dal momento che, a livello neurologic­o, siamo ancora del tutto «tribali», tendiamo a cercare risposte semplifica­te per sentirci meno disorienta­ti nel caos. La strada intrapresa nell’ultimo ventennio porta a un momento di «buio storico», a un totalitari­smo, a forme di azzerament­o del pensiero che già abbiamo sperimenta­to nel Novecento e non solo. Più che una ricerca di spirituali­tà, secondo me, il teatro e la cultura tutta sono le uniche, vere armi che abbiamo per un «recupero cognitivo», per creare cioè una forma di «resistenza» all’inebetimen­to nel quale rischiamo tutti di cadere per manifesta incapacità di stare nella complessit­à. Se, in questo senso, riusciamo a diventare un «polmone», potremo dire di aver fatto il nostro dovere. MARCO BALIANI — Hai descritto perfettame­nte la situazione, Daniele. È un problema di «resistenza», non dobbiamo immaginare un «dopo» sfolgorant­e e nuovo; non sarà così. «Resistere» equivale

a trovare luoghi dove continuare a pensare. Viviamo in un tempo in cui non abbiano gli strumenti per affrontare l’enorme complessit­à del mondo che ci circonda. Finite le ideologie, che ci dicevano chi erano i «buoni» e chi i «cattivi» — la classe operaia da una parte e il capitale dall’altra —, oggi non abbiamo più un orizzonte al quale guardare. L’idea di «resistenza» è un’idea che ci riguarda e che possiamo sostenere anche con microecono­mie. I teatranti da tempo hanno imparato a «digiunare», non ho mai avuto uno stipendio fisso in vita mia. Resistenza — non resilienza —, combattere perché le cose cambino.

GIORGINA P — Il teatro è sempre un atto di resistenza, se fatto in un certo modo.

DANIELE VILLA — Vorrei riflettere su un’altra cosa. Registro che il fattore economico — e la pandemia lo ha messo bene in evidenza con la chiusura, dal punto di vista sanitario necessaria, di teatri e cinema — compete con quello scientific­osanitario, mentre il fattore culturale no. Quel che si comunica, a fronte di una minaccia sanitaria, è che si può rinunciare a scuola, teatro, sport — e non mi riferisco solo agli stadi — ma non a pezzi di società che sono strutture economiche. Ovviamente la questione è molto complessa. Domandiamo­ci allora sempliceme­nte se il capitale come assoluta preminenza sia il modello che vogliamo continuare a sostenere. Un modello che genera quella pressione sugli ecosistemi che a sua volta genera le pandemie. Si dà democrazia senza un centro commercial­e, non senza cultura. Il fattore che fa di noi civiltà evoluta e, almeno formalment­e, democratic­a, è la cultura, le risorse cognitive.

GIORGINA PI — Rispetto al capitale e al momento che stiamo attraversa­ndo, aggiungere­i una consideraz­ione che riguarda le piattaform­e digitali, le stesse che stiamo usando ora, strumento formidabil­e che alimenta il capitalism­o «estrattivo», fondato sullo sfruttamen­to dei nostri dati personali. Se ogni «predazione» fosse anche solo minimament­e tassata sarebbe possibile, oggi, un reddito universale per tutti. Indistinta­mente. Le chiusure di questo periodo stanno ancora una volta foraggiand­o il capitalism­o. Paradossal­mente, in questo periodo, la crisi del capitale ne sta producendo ricchezza.

A che cosa state lavorando? Avete pronto qualcosa da portare in scena alla riapertura?

DANIELE VILLA — Con Sotterrane­o abbiamo lavorato a un nuovo progetto, vissuto in simbiosi con la pandemia, Atlante linguistic­o della Pangea, nato a tavolino durante il lockdown, provato nello spazio di Emilia Romagna Teatro Fondazione nel corso della seconda chiusura e pronto a debuttare, speriamo, in estate. In scena terremo mascherine e distanza perché lo spettacolo rechi traccia del momento in cui è stato sviluppato. Non è un

instant show sul Covid, ma una creazione che prova a mettere in scena una costellazi­one di parole intraducib­ili prese dalle lingue di tutto il mondo, parole che richiedono un’intera frase per essere spiegate — tra le più belle e note c’è

ubuntu, espression­e in lingua bantu che significa «senso di umanità» ma che vuol dire anche gioia, vita, amore, relazione. Uno spettacolo per riflettere come il linguaggio informa la nostra percezione della realtà, altra questione fondante.

GIORGINA PI — Con Bluemotion abbiamo continuato, a distanza, la nostra indagine per Tiresias, un testo legato alla figura di Tiresia scritto da Kae Tempest: ha debuttato la scorsa estate, lo riprendere­mo quando i teatri potranno riaprire.

MARCO BALIANI — Nel giugno scorso ha debuttato il mio spettacolo all’aperto realizzato con Marche Teatro, L’attore

nella casa di cristallo, quattro attori chiusi in altrettant­e teche trasparent­i, che gli spettatori possono ascoltare solo uno per volta tramite cuffie. Una forma drammaturg­ica che parlava già dell’assenza, un esperiment­o nel cui solco vorrei proseguire. Ho anche scritto un romanzo, La

pietra oscura, uscirà in giugno per Bompiani. Sono pieno di idee, si tratta solo di capire quando e come realizzarl­e.

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 ??  ?? Le immagini Da sinistra a destra, in senso orario: una scena di Overload di Sotterrane­o; un momento dello spettacolo L’attore nella casa di cristallo, con testo e regia di Marco Baliani; Gabriele Portoghese in Tiresias, regia di Giorgina Pi
Le immagini Da sinistra a destra, in senso orario: una scena di Overload di Sotterrane­o; un momento dello spettacolo L’attore nella casa di cristallo, con testo e regia di Marco Baliani; Gabriele Portoghese in Tiresias, regia di Giorgina Pi
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