Corriere della Sera - La Lettura
Quante trappole tra amici e nella famiglia
Simone Lappert mischia ironia e suspense intorno alla protagonista in un intreccio a più voci
Saltare salta, eccome. L’ouverture del romanzo di Simone Lappert, Il salto, che nondimeno si legge con il fiato sospeso fino all’ultima pagina, non lascia dubbi. La ragazza che sta lassù sul tetto dell’edificio verdolino e che da un pezzo cammina agitata su e giù, tra il comignolo e la grondaia, si lancerà di sotto. O, anzi, più che buttarsi, continuerà a camminare sicura oltre il freddo bordo di ferro e si lascerà cadere nel vuoto. In quella paginetta preposta a mo’ di prologo all’inizio della narrazione, composta con slancio lirico, senza nemmeno un punto fermo a spezzare le sue 25 righe e messa lì come un programma, o un avvertimento, o la rivelazione di un segreto che, risucchiati poi in una storia irresistibilmente trascinante, sarà bene tener presente, si vive in anteprima la caduta, il volo, il tuffo: spiccato a occhi aperti con l’idea di potenziare i sensi, di non perdere un dettaglio, di «vedere sentire sperimentare odorare» il più possibile. Un’esperienza simile capiterà di certo una volta sola. E allora «che ne valga la pena».
Dunque il lettore ha già le antenne tese e l’adrenalina a mille prima ancora di cominciare. I testimoni del fatto, invece, ci impiegano un bel po’ a rendersi conto di quello che sta succedendo. Giù da basso, ai piedi di quel palazzo e in tutto il circondario, in un tranquillo quartiere di periferia di Thalbach, immaginaria cittadina della Svizzera tedesca ai confini con la Germania, è una serena giornata di maggio, una delle prime giornate calde dell’anno.
Al caffè di Roswitha ci si siede con soddisfazione fin dal mattino ai tavolini all’aperto. Ed è lì che, senza darsi appuntamento, senza nemmeno conoscersi, si avvicendano casualmente i vari personaggi del romanzo, tutti ignari di essere dentro a un’unica storia, tutti a proprio turno protagonisti. A ciascuno di essi — a Felix, il poliziotto; a Henry, il senzatetto; a Maren, la paffuta sarta per signora; a Egon, il vecchio proprietario del negozio di cappelli di lusso fallito e chiuso da tempo, ora impiegato al confezionamento di una macelleria; a Finn, il ciclista innamorato; a Theres, la bottegaia del negozietto dietro l’angolo dove la gente ormai va solo a comprare all’ultimo momento quello che ha dimenticato di prendere al discount; a Edna, la vecchietta che lavorava nelle ferrovie... — è intitolato a più riprese un breve capitolo del libro. Le loro personali peripezie sono raccontate a intermittenza ma compiutamente, e per ognuno di loro il lettore prova una potente, empatica attrazione.
Ciascuno di questi medaglioni narrativi però è legato — per gravità, la forza che aziona «il salto», la propulsione che muove la dinamica del romanzo spinta all’estremo — alla vicenda della ragazza sul tetto. Prima ancora di accorgersi di lei — solo a pagina 86 qualcuno alzerà il naso per scorgere la sua sagoma in bilico sulle
tegole; solo a pagina 107 si scopre che quella lassù è Manu, la ragazza del rider — le loro storie gravitano attorno alla storia di lei. Il lettore sa tutto, o quasi, dall’inizio, e tuttavia è spinto (pure lui) a individuare pian piano, senza cercarle ma trovandole sempre con un brivido di esultanza, le linee che li legano, a tracciare le orbite che tengono insieme il microcosmo congegnato sapientemente, con divertimento, dalla scrittrice trentacinquenne. Il finale non si può rivelare, ma è chiaro, non fosse che per lo humour che anima da cima a fondo tutto il testo, che non finirà in tragedia.
Una provocazione enigmistica, una sciarada, un giochino? Ma no. Simone Lappert, ragazza di campagna domiciliata a Zurigo che discende da una stirpe di
storyteller — il nonno raccontava storie davanti al camino nella loro casa rurale, il papà inventava favole per lei prima di metterla a nanna, lei stessa dalla prima età scolare immaginava racconti per divertire i fratellini, come ha ricordato in un’intervista alla «Frankfurter Rundschau» — rivela, alla sua seconda prova narrativa (il primo romanzo Wurfschatten non è tradotto in italiano) quell’originalità e quella passione per la realtà che sono una prova di talento. Ha lavorato quasi sette anni alla stesura di Il salto, ha preso spunto da un fatto di cronaca, ha raccolto con appassionata intelligenza le storie vere delle persone reali che hanno dato vita e sostanza ai suoi personaggi. Un formidabile orecchio musicale — ottimamente captato dalla traduttrice Margherita Belardetti — buono a dare tono, slancio, ritmo al racconto e concretezza a una sensibilità di artista, hanno contribuito a creare il piccolo miracolo di un’operina riuscita. E se in un paio di passaggi l’autrice si fa prendere la mano e casca nel cliché — per esempio offrendo alla complessata teenager sovrappeso la sua pazzesca rivincita — o scivola in un fiabesco esagerato — come nel caso del principe degli stilisti italiani che si materializza a Thalbach per farsi ispirare dal cappellaio matto — le si perdona tutto per la simpatia suscitata da ciascuno dei suoi eroi. E per certe frasi nascoste come perle qua e là tra le sue pagine.
«Per la frase più bella» l’autrice rivolge il suo grazie a un’amica citata con nome e cognome in appendice al testo. Difficile dire a quale frase alluda. Forse a quella di Egon, l’ex cappellaio che ammette: «Nella mia vita ho già visto sparire molte cose: mio padre dal cancello del giardino, mia madre sempre più dentro sé stessa, banche, vicini, muri, spazi verdi, valute, regine, stile, buone maniere...». Forse a quella di Henry, il senzatetto cui, guardando l’orologio della stazione, dava una bella sensazione il momento in cui iniziava un nuovo minuto: «Era un minuto in più che si era lasciato alle spalle».
A quella di Theres, che davanti a un inaspettato ritorno di fiamma nel marito avvilito e disincantato pensa: «Sposarsi, dubitare, restare insieme comunque, proprio per momenti come questo». Di Felix, il poliziotto, che all’alba beve come un nettare il momento in cui la notte sbiadisce lentamente: «È il momento in cui solitamente ci sono pochi problemi, pochi delitti, la gente per lo più dorme, sospesa in quella variazione di luce». O a quella di Roswitha, la barista, che sentenzia: «Ce ne stiamo qui su un pianeta vecchio fantastiliardi di anni, evoluto fin sopra i capelli, e nonostante tutto siamo in balia del desiderio, sempre intenti a combattere la nostra tendenza alla pigrizia».
Un corpo si muove per inerzia o permane nella quiete. È la legge di Newton che Lappert, precisa come un matematico, cita in esergo sul frontespizio del romanzo. È così, recita il seguito della legge di gravità, finché non interviene una forza esterna a modificare tale stato. Finché qualcosa o qualcuno non ti dà una spinta per spiccare il salto.