Corriere della Sera - La Lettura
Un titolo, poi un altro Il destino dei romanzi
Cambiati dall’autore o dal traduttore, i titoli sono parte integrante dell’opera
Anna Maria Ortese ha scritto una volta che tutte le persone possiedono due nomi: quello per così dire anagrafico e ufficiale, che appare sui documenti, e un «nome profondo», che in genere non viene nemmeno immaginato, più vicino all’essenza segreta dell’individuo. Chi ci attribuisca questo nome di sapore cabalistico, e come si faccia a scoprire, la scrittrice non lo dice, ma l’idea è credibile. Per le opere d’arte, e in particolare per le opere scritte, il titolo è l’equivalente del nome per gli esseri umani: con la differenza che noi conviviamo meglio con i nostri omonimi, i Mario Rossi e i John Smith di tutto il mondo possono esistere tranquilli e farsi riconoscere nella loro unicità, mentre un’identità di titoli tra due libri o due film è una collisione disastrosa.
Noi siamo costretti in un modo o nell’altro a designare l’opera attraverso il titolo, per distinguerla all’interno di una pluralità di opere affini, che siano romanzi, pezzi musicali, film, opere teatrali. Alla fine, anche volendo forzare la mano con il più radicale minimalismo, è lo stesso oggetto estetico a generare il suo titolo, perché altrimenti non potrebbe verificarsi la sua circolazione nella società, sia dal punto di vista del commercio che da quello del giudizio di valore.
Il nono album dei Beatles è un esempio canonico: The White Album è una pura e semplice definizione dell’oggetto. Più frequente è il caso di titoli provvisori che a un certo punto della lavorazione di un libro vengono abbandonati a favore di quello definitivo. Generati dal processo creativo, questi titoli-fantasma ne fanno parte a pieno titolo, come tutte le altre variabili del cammino verso una forma, che è sempre un susseguirsi di approssimazioni.
A volte possiamo legittimamente sollevare dei dubbi sulla scelta finale, rimpiangendo il titolo provvisorio. Prendiamo il caso di Jane Austen e di quello che molti considerano il suo capolavoro, Orgoglio e pregiudizio.
Contestare un titolo di tale efficacia e memorabilità potrà sembrare folle, ma personalmente trovo perfetto l’iniziale Prime impressioni, non solo per la congruenza perfetta alla trama, che è pur sempre un merito relativo, ma per il senso che trasmette di giovinezza e primaverile ingenuità. Per rimanere alla letteratura inglese, più comprensibile mi sembra il ragionamento di George Orwell, quando rinunciò all’idea di intitolare L’ultimo uomo in
Europa il suo capolavoro, 1984. È vero che il primo titolo rimarcava, come osserva Tommaso Pincio che è l’ultimo traduttore del romanzo, «la sparizione che fatalmente avrebbe atteso l’uomo occidentale una volta venuta a mancare ogni forma di speranza». Ma è anche evidente che la finezza di scrittore di Orwell, il suo understatement insomma, deve averlo sconsigliato di sovrapporre al romanzo quella che sarebbe inevitabilmente suonata come una didascalia.
Mi chiedo se questi titoli abbandonati facciano ancora parte della proprietà dell’artista o se non si trasformino in una specie di patrimonio comune, come un magazzino di scarti al quale sia possibile attingere liberamente. Se così fosse, molto volentieri ruberei al grande Louis Malle Il potere
della notte, che è il titolo che il regista francese aveva pensato per quello che sarebbe diventato uno dei suoi film più celebri, Les amants, interpretato da Jeanne Moreau.
Ma la scienza avventurosa dei titoli e delle loro mutazioni non si ferma certo all’ambito della volontà d’autore. I titoli possono diventare anche la conseguenza della durata nel tempo di una grande opera. Non so se Dante avrebbe gradito che il suo poema fosse universalmente conosciuto come
Divina commedia, visto che fu Boccaccio a imporlo alla memoria dei posteri. Ma il significato dei libri non è dato una volta per tutte, e vi collabora in maniera massiccia la loro durata nel tempo. E chi ripristinasse il più corretto Commedia, in fin dei conti, commetterebbe un arbitrio mascherato da filologia.
C’è poi il caso delle traduzioni: come agire quando un titolo impreciso si è ormai incistato nella memoria collettiva ? Ci sono due casi molto significativi, perché si tratta delle migliori versioni italiane di due classici irrinunciabili del Novecento. Traducendo il capolavoro di Virginia Woolf, Nadia Fusini ha deciso di farla finita con quel
Gita al faro che si era regolarmente assestato nell’editoria e dunque nella memoria collettiva del romanzo, tornando all’originale, ovvero semplicemente Al faro. E Renata Colorni, in base a sottili ragionamenti semantici, ha deciso di trasformare la Montagna incantata di Thomas Mann in Montagna magica, restaurando l’idea centrale di un potere attivo del luogo, assente dal participio passato «incantata». Entrambe le traduttrici hanno ragione da vendere, e c’è da chiedersi perché le loro proposte non siano state accolte come meritavano. Per quanto sconfortante, la risposta è semplice: la forza dell’abitudine finisce per prevalere, soprattutto quando si tratta di opere dotate del crisma, del potere di suggestione del classico. E così, continuiamo a parlare della Gita al faro e della Montagna incantata, anche nel caso in cui non abbiamo dubbi — giustamente — a lodare le edizioni di Nadia Fusini e Renata Colorni, preferendole di gran lunga a tutte le altre.
D’istinto, percepiamo che se parlassimo o scrivessimo di Al faro o della
Montagna magica chi ci ascolta o ci legge non capirebbe esattamente di che cosa stiamo parlando. Si può solo concludere che è importante, in queste delicate faccende, non commettere arbitri ed errori la prima volta, perché è molto difficile, con tutta la buona volontà, tornare indietro.