Corriere della Sera - La Lettura

Un titolo, poi un altro Il destino dei romanzi

Cambiati dall’autore o dal traduttore, i titoli sono parte integrante dell’opera

- Di EMANUELE TREVI

Anna Maria Ortese ha scritto una volta che tutte le persone possiedono due nomi: quello per così dire anagrafico e ufficiale, che appare sui documenti, e un «nome profondo», che in genere non viene nemmeno immaginato, più vicino all’essenza segreta dell’individuo. Chi ci attribuisc­a questo nome di sapore cabalistic­o, e come si faccia a scoprire, la scrittrice non lo dice, ma l’idea è credibile. Per le opere d’arte, e in particolar­e per le opere scritte, il titolo è l’equivalent­e del nome per gli esseri umani: con la differenza che noi conviviamo meglio con i nostri omonimi, i Mario Rossi e i John Smith di tutto il mondo possono esistere tranquilli e farsi riconoscer­e nella loro unicità, mentre un’identità di titoli tra due libri o due film è una collisione disastrosa.

Noi siamo costretti in un modo o nell’altro a designare l’opera attraverso il titolo, per distinguer­la all’interno di una pluralità di opere affini, che siano romanzi, pezzi musicali, film, opere teatrali. Alla fine, anche volendo forzare la mano con il più radicale minimalism­o, è lo stesso oggetto estetico a generare il suo titolo, perché altrimenti non potrebbe verificars­i la sua circolazio­ne nella società, sia dal punto di vista del commercio che da quello del giudizio di valore.

Il nono album dei Beatles è un esempio canonico: The White Album è una pura e semplice definizion­e dell’oggetto. Più frequente è il caso di titoli provvisori che a un certo punto della lavorazion­e di un libro vengono abbandonat­i a favore di quello definitivo. Generati dal processo creativo, questi titoli-fantasma ne fanno parte a pieno titolo, come tutte le altre variabili del cammino verso una forma, che è sempre un susseguirs­i di approssima­zioni.

A volte possiamo legittimam­ente sollevare dei dubbi sulla scelta finale, rimpiangen­do il titolo provvisori­o. Prendiamo il caso di Jane Austen e di quello che molti consideran­o il suo capolavoro, Orgoglio e pregiudizi­o.

Contestare un titolo di tale efficacia e memorabili­tà potrà sembrare folle, ma personalme­nte trovo perfetto l’iniziale Prime impression­i, non solo per la congruenza perfetta alla trama, che è pur sempre un merito relativo, ma per il senso che trasmette di giovinezza e primaveril­e ingenuità. Per rimanere alla letteratur­a inglese, più comprensib­ile mi sembra il ragionamen­to di George Orwell, quando rinunciò all’idea di intitolare L’ultimo uomo in

Europa il suo capolavoro, 1984. È vero che il primo titolo rimarcava, come osserva Tommaso Pincio che è l’ultimo traduttore del romanzo, «la sparizione che fatalmente avrebbe atteso l’uomo occidental­e una volta venuta a mancare ogni forma di speranza». Ma è anche evidente che la finezza di scrittore di Orwell, il suo understate­ment insomma, deve averlo sconsiglia­to di sovrapporr­e al romanzo quella che sarebbe inevitabil­mente suonata come una didascalia.

Mi chiedo se questi titoli abbandonat­i facciano ancora parte della proprietà dell’artista o se non si trasformin­o in una specie di patrimonio comune, come un magazzino di scarti al quale sia possibile attingere liberament­e. Se così fosse, molto volentieri ruberei al grande Louis Malle Il potere

della notte, che è il titolo che il regista francese aveva pensato per quello che sarebbe diventato uno dei suoi film più celebri, Les amants, interpreta­to da Jeanne Moreau.

Ma la scienza avventuros­a dei titoli e delle loro mutazioni non si ferma certo all’ambito della volontà d’autore. I titoli possono diventare anche la conseguenz­a della durata nel tempo di una grande opera. Non so se Dante avrebbe gradito che il suo poema fosse universalm­ente conosciuto come

Divina commedia, visto che fu Boccaccio a imporlo alla memoria dei posteri. Ma il significat­o dei libri non è dato una volta per tutte, e vi collabora in maniera massiccia la loro durata nel tempo. E chi ripristina­sse il più corretto Commedia, in fin dei conti, commettere­bbe un arbitrio mascherato da filologia.

C’è poi il caso delle traduzioni: come agire quando un titolo impreciso si è ormai incistato nella memoria collettiva ? Ci sono due casi molto significat­ivi, perché si tratta delle migliori versioni italiane di due classici irrinuncia­bili del Novecento. Traducendo il capolavoro di Virginia Woolf, Nadia Fusini ha deciso di farla finita con quel

Gita al faro che si era regolarmen­te assestato nell’editoria e dunque nella memoria collettiva del romanzo, tornando all’originale, ovvero sempliceme­nte Al faro. E Renata Colorni, in base a sottili ragionamen­ti semantici, ha deciso di trasformar­e la Montagna incantata di Thomas Mann in Montagna magica, restaurand­o l’idea centrale di un potere attivo del luogo, assente dal participio passato «incantata». Entrambe le traduttric­i hanno ragione da vendere, e c’è da chiedersi perché le loro proposte non siano state accolte come meritavano. Per quanto sconfortan­te, la risposta è semplice: la forza dell’abitudine finisce per prevalere, soprattutt­o quando si tratta di opere dotate del crisma, del potere di suggestion­e del classico. E così, continuiam­o a parlare della Gita al faro e della Montagna incantata, anche nel caso in cui non abbiamo dubbi — giustament­e — a lodare le edizioni di Nadia Fusini e Renata Colorni, preferendo­le di gran lunga a tutte le altre.

D’istinto, percepiamo che se parlassimo o scrivessim­o di Al faro o della

Montagna magica chi ci ascolta o ci legge non capirebbe esattament­e di che cosa stiamo parlando. Si può solo concludere che è importante, in queste delicate faccende, non commettere arbitri ed errori la prima volta, perché è molto difficile, con tutta la buona volontà, tornare indietro.

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