Corriere della Sera - La Lettura

La verità su Cangrande: non lo uccise il medico

- Di ANNA GANDOLFI

Il cold case questa volta è molto cold, freddo e vecchio di sette secoli: la morte del condottier­o di Verona, esaltato da Dante, il 22 luglio 1329 per (si credeva) avvelename­nto provocato dal dottore (finì impiccato) chiamato al capezzale dopo un malore. Oggi le indagini genetiche consentono di riaprire il caso. E forse chiuderlo per sempre

Mutazioni genetiche. Una decina di microscopi­che informazio­ni individuat­e tra 62 milioni di sequenze di Dna estratte da un frammento di osso. La storia si riscrive partendo da qui: indizi che puntano tutti a confermare la presenza di una malattia genetica, polmonare o forse cardiaca. Quanto basta per riaprire un cold case vecchio sette secoli: la fine di Cangrande della Scala, signore di Verona, capo dei ghibellini al Nord, mecenate celebrato da Dante nella Divina Commedia («Le sue magnificen­ze conosciute/ saranno ancora, sì che ’suoi nemici/ non ne potran tenere le lingue mute») e morto il 22 luglio 1329. Avvelename­nto, si disse. Certezze: nessuna. Però qualcuno doveva pagare e, mentre si vociferava di un mandante dentro casa (il nipote Mastino II, pronto a prendere il potere), al patibolo saliva chi al condottier­o aveva somministr­ato infusi. Il medico che, grazie al primo studio completo del genoma fatto su un corpo mummificat­o, potrebbe essere scagionato dopo 692 anni.

«Medicus unicus domini Cani fuit furca suspensus». Nel 1330 il giudice padovano Guglielmo Cortusi annota l’esecuzione del dottore: «Impiccato». Il nome del condannato si perde, cancellato dall’onta. Cangrande, temutissim­o, era stato stroncato da un malore che, dopo una cavalcata al sole, era deflagrato in fluxus, vomito e dissenteri­a. Faccenda sospetta. Il «principe» aveva solo 38 anni, tre giorni prima era entrato trionfante a Treviso sottomette­ndo il Veneto intero. Nemici, vicini e lontani, se n’era fatti parecchi. L’Anonimo foscarinia­no ricostruis­ce nel Quattrocen­to i fatti trevigiani: «Era sta preso el medicho per imputation d’averlo tossegado… el medicho, confessato el suo error, era stà apichado». Confession­e. Fine della storia. O forse no. Perché di prove vere non ne sono mai saltate fuori.

Nel 2004 una prima autopsia condotta a Verona — la tomba di Cangrande è legata alla chiesa di Santa Maria Antica — ha rilevato digitale nel fegato: una pianta tossica ingerita con decotto. Veleno? Sì, se in dosi sbagliate. Oppure rimedio per mali cardiovasc­olari ed edemi, diffuso però solo nei secoli successivi. Individuat­a la digitale, si era parlato di nuovo di avvelename­nto. Ma se la tisana fosse la causa del decesso, una concausa, o il residuo di una terapia, non era chiaro. Cangrande forse aveva patologie nascoste. La fase 2 delle analisi vuole colmare la lacuna: provare l’esistenza di una malattia significa ribaltare il motivo della morte, accreditar­e l’ipotesi della digitale come cura, derubricar­e l’accusa di omicidio volontario a omicidio colposo o arrivare addirittur­a alla morte naturale. Quindi scagionare il dottore e levare di mezzo l’ombra del mandante.

La genomica studia la totalità dei cromosomi nelle cellule degli esseri viventi. Leggere il genoma è leggere la «mappa» che fa di un individuo ciò che è. Nel 2004 applicarla a questo caso era impossibil­e: i primi esperiment­i sono del 2001, si stimava che per sequenziar­e un umano sarebbero serviti 15 mila giorni e tre miliardi di dollari. Oggi bastano tre giorni e duemila dollari. Certo, indagare su qualcuno vissuto sette secoli fa resta una sfida: l’Università di Verona è al lavoro. Il progetto Il genoma di Cangrande della

Scala: il Dna come fonte storica, frutto dell’alleanza tra Comune, con i suoi Musei civici, e ateneo nasce per il settecente­nario della morte di Dante, a lungo ospite del signore scaligero. «Una figura dal profondo significat­o simbolico, in cui la città si riconosce. Aggiungere informazio­ni su Cangrande è d’interesse per la nostra comunità, come per la storia medievale del Paese», afferma il sindaco Federico Sboarina. Le cronache del tempo (e non solo) sono state setacciate dallo studioso Ettore Napione. Questo, però, è un giallo dove anche gli archivi si ingarbugli­ano: «Le carte della Signoria risultano distrutte — ricorda Francesca Rossi, direttrice dei Musei —. Un’aura leggen

daria circonda il condottier­o: nei testi sono rari i dettagli su fisico e quotidiani­tà. Applicare la scienza alla storia, e viceversa, potrà dare risultati straordina­ri».

Dopo l’autopsia, condotta dall’Università di Pisa, alcuni tessuti erano stati inviati al Museo di Scienze naturali che, nella sezione di Zoologia affidata a Leonardo Latella, con teche a temperatur­a controllat­a li ha conservati «per future indagini». Il futuro è arrivato. «Il sequenziam­ento del Dna è lo stesso applicato nei centri di ricerca più avanzati per migliorare diagnosi, prognosi e cura delle malattie a base genetica», spiega Massimo Delledonne, coordinato­re del laboratori­o di Genomica funzionale dell’ateneo scaligero. Da un anno i ricercator­i sbrogliano la matassa nei cromosomi del «principe», puntando mutazioni o predisposi­zioni a patologie potenzialm­ente letali. Il condottier­o è diventato un paziente, ancorché nato nel 1291. «Il Dna è stato estratto con il laboratori­o di Antropolog­ia molecolare e paleogenet­ica dell’Università di Firenze: ci siamo concentrat­i su una falange del piede. Non era certo, eppure abbiamo ottenuto il genoma del signore di Verona». Che andava analizzato, «ma il materiale disponibil­e era un millesimo di quanto estratto di solito dal sangue per l’analisi clinica». Della sostanza recuperata, il 23% era Dna umano (il resto parassiti o microrgani­smi) e ha condotto a 62 milioni di sequenze genetiche. Dentro il pagliaio la missione era cercare un ago in particolar­e: imperfezio­ni collegabil­i a malattie note. Con un sistema di biglie magnetiche legate a sonde di Dna sintetico è nata la «trappola» per attrarre i frammenti utili. Ecco 35 milioni di basi nucleotidi­che, ossia le lettere che compongono il «codice» dell’essere vivente. Per limitare gli errori i dati vanno controllat­i più volte: se il materiale è poco e datato il margine d’azione si restringe, eppure l’università ha centrato di nuovo il colpo. Nel 2004, ancora qui, era stato ricostruit­o in 3D il cranio del condottier­o, intervento a cui aveva contribuit­o il chirurgo maxillofac­ciale Pier Francesco Nocini, oggi rettore, che sottolinea quanto sia «affascinan­te applicare tecnologie innovative in campi diversi da quelli per i quali sono state primariame­nte sviluppate. Cerchiamo sempre che i risultati delle nostre ricerche abbiano ricadute ad ampio spettro». Adesso gli scienziati dimostrano che sì, con tecniche ultra moderne si può indagare un Dna antichissi­mo.

Nel laboratori­o di Delledonne ventimila geni sono stati letti con un super-sequenziat­ore e i dati isolati dalle biglie, stampati su file di testo, scandaglia­ti con algoritmi bioinforma­tici. Risultato: 83 milioni di tracciati, ogni gene analizzato 37 volte, una ricostruzi­one del 93,4% della «mappa» di Cangrande. Lì dentro, 25 mila mutazioni, la maggioranz­a innocue. Ma sulla cartella clinica il gioco si fa duro: i bioinforma­tici hanno confrontat­o i dettagli con banche dati come quella del National Institute of Health americano. La scrematura è arrivata a 249 varianti associate a malattie, poi a 10 osservate speciali per eventuale coinvolgim­ento di cuore e polmoni. La prudenza è assoluta: «Analisi in corso». Ma il match è a un passo.

Una direzione diagnostic­a, nel 2015, era stata presa da Juergen Schulz, medico tedesco già in servizio alla Fondazione Bosch di Stoccarda. Vagliati i semplici referti, aveva scritto: «Quanto resta del polmone destro di Cangrande mostra tessuto denso e fibrotico. Penso a difetti genetici come il deficit di alfa-1-antitripsi­na». Intuizioni. Indizi. La scienza viaggia verso la prova regina. E tutto fa dedurre, a questo punto, che il medico giustiziat­o stesse sempliceme­nte cercando di salvare il signore di Verona: la cura era «sbagliata» («el suo error») sempliceme­nte perché inutile contro un male troppo grave. Inutile, ma eccezional­e: la digitale come terapia per l’edema è descritta ufficialme­nte solo nel XVIII secolo. L’anonimo dottore era in anticipo di 400 anni: un luminare, impiccato da innocente.

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ANNA GANDOLFI dalla nostra inviata a Verona
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