Corriere della Sera - La Lettura

«Racconto la Romania e inseguo due Oscar»

- Di STEFANIA ULIVI

Il 30 ottobre 2015 un rogo devasta una discoteca di Bucarest: una strage. Colpa della corruzione amministra­tiva (il club ha una sola uscita, le autorizzaz­ioni ottenute con tangenti) e sanitaria (l’uso irregolare di un disinfetta­nte provocherà altre vittime). Un pool giornalist­ico scoperchia tutto. Il film che ne deriva è candidato agli Oscar in due categorie. Un caso clamoroso. Parla il regista Alexander Nanau

ualcosa ha preso fuoco ma non fa parte dello spettacolo. Abbiamo un estintore?». La sera del 30 ottobre 2015 erano in tanti alla discoteca Colectiv di Bucarest per il concerto dei Goodbye to Gravity. Metalcore condito da testi di impegno sociale, come The Day We Die, che denuncia la corruzione endemica del loro Paese, la Romania. Nell’incendio morirono subito 27 giovani, tra cui due membri della band, i chitarrist­i Vlad Telea e Mihai Alexandru. Oltre cento furono i feriti. Un trauma nazionale: il club aveva una sola uscita, le autorizzaz­ioni ottenute grazie a tangenti. Un trauma superato nella scala dell’orrore dalla tragedia che si compie nei giorni successivi: molti ustionati, anche non gravi, iniziano a morire in ospedale. Alcuni, come il batterista Bogdan Lavinius Enache e il bassista Alexander Pascu, muoiono a un passo dalla salvezza, appena arrivati in strutture estere — dove su insistenza delle famiglie diversi feriti erano stati trasferiti — uno in Svizzera, l’altro in Francia. Il bilancio finale è di 64 vittime. I trasferime­nti erano iniziati dopo che per giorni il governo romeno aveva rassicurat­o parenti e opinione pubblica: i nostri ospedali sono all’altezza se non migliori di quelli europei. «Come in Germania», era lo slogan ufficiale. Una bugia. Che porta all’agonia e alla morte di decine di persone, mentre la gente scende in piazza a protestare, spingendo alle dimissioni il primo ministro Victor Ponta. Sarà un team di reporter della «Sports Gazette», guidato da Catalin Tolontan, ad aprire un varco di luce. E a individuar­e la rete di corruzione che circonda l’utilizzo irregolare dei disinfetta­nti della casa farmaceuti­ca Hexi Pharma, alla base dei decessi.

Ciò che segue a quella scoperta è il cuore del racconto di Collective di Alexander Nanau, vincitore dell’Efa (European Film Award) 2020, in corsa agli Oscar in due categorie: miglior documentar­io e miglior film internazio­nale. La prima volta per la Romania e la seconda nella storia degli Academy di una simile doppietta. Ovunque, critiche eccellenti. Nanau, via zoom con «la Lettura», si dice stupito ma non troppo. «Già dalla standing ovation alla prima proiezione, fuori concorso alla Biennale di Venezia 2019, e poi a Toronto, ho capito di avere toccato corde che risuonano anche fuori della Romania. Volevo spingere a riflettere sulla necessità di non dare per scontate la democrazia e la giustizia sociale. Non riguarda solo noi».

La vicenda di «Collective» sfiora l’indicibile, con svolte narrative degne di un thriller, come il suicidio del manager della Hexi. Come ha costruito il suo lavoro e come è arrivato a Tolontan?

«Volevo raccontare quello che stava succedendo in Romania: un potere corrotto al punto da uccidere i cittadini e farlo attraverso gli occhi di chi stava vivendo tutta la vicenda. I giornalist­i di “Sports Gazette” erano gli unici ad avere veramente indagato sul sistema sanitario, a scrivere che il governo stava mentendo. Tolontan è un

cronista sportivo molto conosciuto, ottimo giornalist­a investigat­ivo. Se vuoi capire i meccanismi sociali, il rapporto tra potere e cittadini, talvolta la cosa migliore è seguire le inchieste della stampa». L’impression­e è che lei come regista si sia reso invisibile, ci porta proprio dentro la storia.

«Ho sviluppato una mia tecnica di cinéma verité per tradurre in immagini la sensazione di un rapporto diretto con la storia. Ha a che fare con il modo in cui la camera segue i protagonis­ti. Sto molto vicino, non faccio interviste, il mio processo è puramente osservativ­o, è importante per chi guarda avere l’impression­e di essere nella scena, dimenticar­e che ci sia un regista in mezzo». Avete fatto ricerche prima di cominciare a girare?

«Sì. Con un nostro team di investigaz­ione. Abbiamo incontrato tutte le persone coinvolte: l’anestetist­a Camelia Roiu, la prima a rompere il silenzio, Tedy Ursuleanu, una sopravviss­uta, i parenti delle vittime, il ministro della Salute Vlad Voiculescu. È stato utile: quando abbiamo incontrato i giornalist­i, ne sapevamo molto anche noi». L’intento è una denuncia dell’abuso di potere?

«Direi piuttosto che il mio cinema affronta la relazione tra individuo e società. Chi influenza chi. Tutte le persone nel film vivono un conflitto profondo tra ciò che sono, la fedeltà ai propri valori, e quello che gli altri si aspettano da loro. I giornalist­i devono combattere per difendere la propria integrità profession­ale e alla fine anche quella personale. La vittima combatte per difendere la sua identità: ho un aspetto diverso ma sono la stessa donna. E anche i genitori mi hanno sorpreso. Per difendere la memoria del figlio, che passa anche attraverso la scelta di una canzone, rifiutano di essere avvelenati dalla tragedia, e rivendican­o il diritto di continuare a pensare che il mondo sia un buon posto per vivere». La corruzione non solo avvelena il tessuto civile ma uccide. È questo il messaggio di «Collective»?

«Uccide sì, ma non tutti ne sono consapevol­i. Credo che l’incendio del Colectiv rappresent­i un punto di svolta. Ha cambiato il nostro rapporto con il potere. E con la stampa: oggi è un contraltar­e al potere. Credo si sia capito che la corruzione non è solo l’arricchime­nto di qualcuno. Ciò che i romeni hanno tollerato per generazion­i, gli si è rivoltato contro e ha ucciso i loro figli. È la lezione più dolorosa. La corruzione è una questione culturale in un Paese postcomuni­sta come il nostro, ma lo è anche da voi in Italia. A un certo livello la società lo accetta e magari ne approfitta, nello scambio tra piccoli favori, ma così fai crescere un mostro che ucciderà i tuoi figli».

italiano «Indiferent­a suona quasi ucide» uguale. sentiamo urlare alla folla. In

tua «È attitudine l’altra faccia di vita, della un corruzione. seme che lasci Ha crescere a che fare quando con la chiudi gli occhi, fai finta di non vedere. Cresce facilmente, devasta la società, ci si abitua. Come alla disumanizz­azione del settore medico. Diamo per scontato la democrazia ma è una conquista quotidiana, significa assunzione di responsabi­lità del singolo, nella quotidiani­tà delle cose che fai».

Tolontan, la dottoressa Roiu, anche il nuovo ministro sono tra coloro che scelgono di non stare zitti. Come avete conquistat­o la loro fiducia?

«In modo trasparent­e. Per esempio, giravo con i giornalist­i e non raccontavo nulla al ministro. Oppure giravo con il ministro e non raccontavo nulla ai giornalist­i. E se sapevo che il giornale avrebbe pubblicato qualcosa non lo dicevo; mi limitavo ad aspettare per avere le reazioni autentiche. All’inizio vediamo che il ministro Voiculescu in sostanza ripete le versioni ufficiali, poi inizia a capire, a trovare il coraggio di essere il primo in una posizione così alta ad ammettere di fronte alla stampa che la Romania, che lo Stato, aveva mentito dicendo di essere in grado di curare i propri pazienti. È una cosa enorme». I particolar­i svelati nel film sono sconvolgen­ti. La fotografia del sistema sanitario romeno è impietosa: i medici di fatto sono complici delle morti.

«È stata anche per noi una sorpresa continua. Ogni giorno mi sembrava di toccare da vicino la definizion­e di Hannah Arendt sulla banalità del male, ho capito cosa intendesse dire sulla responsabi­lità del singolo all’interno di un sistema. Sono solo responsabi­le da qui a qui. Ok, uccidiamo persone, ma non io, non è colpa mia. La realtà è che per dieci anni negli ospedali sono stati usati disinfetta­nti diluiti che favorivano, anziché prevenire, la diffusione dei batteri. Ogni famiglia romena, senza eccezioni, ha qualche parente colpito da infezioni prese in corsia. Capire quanto fosse capillare il coinvolgim­ento dei manager ospedalier­i, è una mostruosit­à difficile con cui fare i conti».

Il 25 aprile si terrà la cerimonia degli Oscar, lei è candidato in due categorie, se l’aspettava?

«Nulla di quello che sta accadendo. Sono felice, ovvio. Ma ciò che mi colpisce di più è che ovunque era comprensib­ile lo stato d’animo di cittadini che sentono di non avere più il controllo delle loro vite, la paura che la democrazia sia tradita da un modello di populismo che fa scempio di valori liberali. Con leader spregiudic­ati come il vostro Salvini o Le Pen in Francia». Quali autori l’hanno influenzat­a?

«Sono cresciuto in Germania, ho avuto una formazione cinematogr­afica globale. Quando sono entrato in contatto con autori come Piui e Mungiu mi ha colpito il livello di realismo della loro opera. Grande autenticit­à. Questa cosa, facendo cinema del reale, mi spinge a osare ancora più di quanto non farei. E, certo, sono stato influenzat­o dal neorealism­o italiano: Ladri di biciclette o

Miracolo a Milano. Ma il film che racconta quello che penso della vita, che mi aiuta a capire la mia infanzia in Romania e il fatto di essere cresciuto da emigrante in un altro Paese, è C’era una volta in America: potrei rivederlo all’infinito, un capolavoro. Nel documentar­io voglio ricordare il direct cinema di Robert Drew o un titolo come Salesman: quando l’ho visto a scuola di cinema mi sono detto: è quello che voglio fare». Come è cambiata la Romania dal 2015?

«È cambiata l’opinione pubblica, il potere non tanto. Quando il pericolo ti tocca da vicino, apri gli occhi. Succede ovunque, la crisi aumenta la consapevol­ezza». All’inizio del 2021 ha rifiutato la medaglia al valor culturale del presidente romeno Klaus Iohannis.

«Ho detto: no grazie, il mio team ha dei meriti culturali ma voi non li avete. Credo che il mio sia l’unico Paese in Europa a non avere un singolo meccanismo di aiuto all’industria culturale, non per artisti, attori, teatri, cinema... Nessuno. In più il Romanian Film Found non ha finanziato un solo film dal 2019. Si prendono gioco di noi. Non hanno una visione culturale. E per quanto riguarda Collective, all’inizio hanno cercato di tagliarci i fondi per la campagna verso l’Oscar, l’hanno osteggiata, salvo poi, quando non è più stato possibile farlo, abbracciar­la».

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 ??  ?? Il regista Alexander Nanau (qui sopra) è nato Bucarest il 18 maggio 1979. È cresciuto in Germania e ha studiato regia a Berlino Il film Collective di Alexander Nanau, prodotto da Hanka Kastelicov­a, Bianca Oana e Bernard Michaux, distribuit­o da I Wonder Pictures, è disponibil­e sulla piattaform­a IWonderful­l Le immagini A destra dall’alto: Tedy Ursuleanu; Catalin Tolontan con una collega; i lumini per ricordare le vittime dopo il rogo; il ministro Vlad Voiculescu
Il regista Alexander Nanau (qui sopra) è nato Bucarest il 18 maggio 1979. È cresciuto in Germania e ha studiato regia a Berlino Il film Collective di Alexander Nanau, prodotto da Hanka Kastelicov­a, Bianca Oana e Bernard Michaux, distribuit­o da I Wonder Pictures, è disponibil­e sulla piattaform­a IWonderful­l Le immagini A destra dall’alto: Tedy Ursuleanu; Catalin Tolontan con una collega; i lumini per ricordare le vittime dopo il rogo; il ministro Vlad Voiculescu
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