Corriere della Sera - La Lettura
Una via femminile per l’agricoltura
L’economista indiana Bina Agarwal, premio Balzan nel 2017, sottolinea l’importanza di un accesso paritario alle risorse nelle campagne. «Fondamentale il ruolo delle donne e delle comunità nell’opera di protezione delle foreste»
Bina Agarwal è stata la prima economista a concentrarsi in modo approfondito sulle diseguaglianze di genere nella proprietà, specialmente terriera: un impegno iniziato negli anni Ottanta e culminato nel pluripremiato libro A Field of One’s Own (Cambridge University Press, 1994), che ha avuto un impatto globale. Pionieristiche anche le sue ricerche in altre tre aree: genere e governance ambientale; negoziazione e rapporti di genere; e il suo lavoro attuale sull’agricoltura di gruppo. Disuguaglianze di genere nelle economie in via di sviluppo (il Mulino) raccoglie alcuni suoi scritti più importanti, che non solo sfidano presupposti convenzionali in economia, ma aprono nuove strade per ricerca e politica.
La Rivoluzione Verde, cioè l’industrializzazione dell’agricoltura indiana, ha danneggiato l’ambiente. Come?
«La Rivoluzione Verde degli anni Sessanta fu basata su un “pacchetto di pratiche”, che includevano i semi di varietà ad alto rendimento (soprattutto per grano e riso), fertilizzanti chimici e pesticidi, con irrigazione assicurata. Così l’India diventò autosufficiente per i cereali ma questo portò alla contaminazione dei suoli, all’impoverimento delle falde acquifere e alla monocoltura. Non è sostenibile. Dobbiamo cambiare il modo in cui coltiviamo, passando a pratiche agroecologiche, colture resistenti al calore, conservazione dei suoli, espansione della raccolta dell’acqua piovana e micro-irrigazione. C’è anche bisogno di innovazioni istituzionali, come l’agricoltura di gruppo, basata sulla cooperazione tra coltivatori».
Quali sono i benefici dell’agricoltura di gruppo? Esiste al di fuori dell’India?
«La maggioranza delle aziende agricole indiane sono molto piccole: l’86% degli agricoltori coltiva meno di due ettari e la maggior parte non ha accesso a irrigazione, credito bancario, informazioni su nuove tecnologie o potere di contrattazione nei mercati. Una percentuale crescente sono donne. Mettendo insieme terre, lavoro e capitale, i piccoli agricoltori potrebbero sfruttare le economie di scala, espandere fondi e competenze, risparmiare sui costi di produzione, intraprendere la conservazione del suolo e dell’acqua e affrontare i cambiamenti climatici. Le mie ricerche nel sud e nell’est dell’India mostrano che l’agricoltura di gruppo può aumentare molto rendimenti e profitti. Ho confrontato un campione di aziende agricole di gruppo nel Kerala (che ne conta 68 mila femminili, con 5-6 donne che coltivano insieme) con le singole piccole aziende agricole a conduzione familiare. Risultato: i gruppi avevano un valore annuale di produzione per ettaro 1,8 volte superiore; e il profitto per azienda agricola era 5 volte maggiore di quelle singole. Nell’est dell’India, anche i gruppi maschili o misti superano le piccole aziende familiari. In Francia, Norvegia, Romania e Irlanda esiste l’agricoltura di gruppo sebbene i dettagli varino».
Le leggi agricole contro cui protestano oggi gli agricoltori in India portano avanti questo tipo di cambiamenti?
«No, affrontano la commercializzazione dei prodotti agricoli e non i limiti alla produzione dei piccoli agricoltori. Per trarre beneficio dalla riforma devi produrre più eccedenza da vendere. Protestano anche migliaia di donne che dipendono dall’agricoltura più degli uomini».
Lei è una pioniera degli studi sul diritto delle donne alla proprietà terriera e sulla riforma dell’eredità in India. Quali sono gli effetti sulla produzione?
«Pochissime donne indiane possiedono terreni agricoli, nonostante la riforma per la parità di genere nell’eredità. Nelle famiglie rurali che possiedono terra, sono donne solo il 14% dei proprietari terrieri. Questo gender gap è globale. Quando gli uomini passano a impieghi non agricoli, le donne gestiscono le aziende ma senza averne la proprietà. Questo ha un effetto negativo sulla produzione. Secondo la Fao, nei Paesi in via di sviluppo, se le donne coltivatrici avessero lo stesso accesso degli uomini alle risorse produttive, ciò aumenterebbe il loro rendimento del 20-30% e la produzione nazionale del 2,5-4%. Nel libro mostro inoltre che avere proprietà terriere o immobiliari riduce nettamente i rischi di violenza domestica sulle donne».
Lei critica l’ecofemminismo e presenta un concetto alternativo: l’ambientalismo femminista.
«L’ecofemminismo è emerso in Occidente negli anni Ottanta. Le ecofemministe sostengono che le donne siano più vicine alla natura e gli uomini alla cultura. La natura è vista come inferiore alla cultura, dunque le donne come inferiori agli uomini. Si ritiene inoltre che le donne abbiano una maggiore conoscenza della natura e la loro emancipazione sia legata a quella della natura. Invece, l’“ambientalismo femminista”, termine da me coniato, concettualizza un rapporto delle donne con la natura complesso e mediato da divisioni diseguali del lavoro, della proprietà e del potere tra i sessi. Contano anche la classe sociale (ricche/povere) e il contesto (rurale/urbano). Sia le donne che gli uomini hanno una conoscenza della natura e interesse alla conservazione ma in modi diversi, poiché diversa è la loro dipendenza dalle risorse naturali».
Negli anni Ottanta molti Paesi sono passati dall’approccio verticistico nella conservazione delle foreste al coinvolgimento delle comunità. In India ha fatto la differenza?
«Enorme. Il governo possiede il 96% delle foreste. Nel 1991 ha lanciato il programma Joint Forest Management, che ha trasferito il 22% delle foreste in gran parte degradate sotto tutela delle comunità. Nel 2001 c’erano 84 mila gruppi di protezione: questo ha portato le foreste da un rapido declino a un aumento di 3,6 milioni di ettari tra 1991 e 2001».
Nel libro «Gender and Green Governance» lei scrive che anche la massa critica del 25-33% di donne nei comitati esecutivi dei gruppi di protezione delle foreste ha fatto la differenza.
«Oggi nel mondo una persona su 6 dipende dalle foreste e dai terreni comuni per risorse come legna da ardere e foraggio. La dipendenza delle donne è quotidiana, specie per la legna, necessaria per cucinare nelle zone rurali. Dunque, hanno grande interesse alla conservazione delle foreste, ma sono spesso escluse dai comitati di gestione delle foreste, e le poche incluse raramente parlano, per via delle norme sociali. Secondo le mie ricerche in India e Nepal è più probabile che le donne partecipino se sono il 25-33% dei membri. Soprattutto, se i comitati hanno una massa critica di donne o sono di sole donne, la probabilità della conservazione delle foreste migliora nettamente rispetto a comitati in gran parte maschili».
Perché bisogna che le famiglie rurali riducano la dipendenza dalle foreste?
«Tagliare gli alberi per costruire case, mobili o attrezzi agricoli non è ecologicamente sostenibile. Raccogliere legna da ardere è meno dannoso, ma non è un combustibile pulito: usarla per cucinare in casa inquina l’aria e provoca problemi di salute. Il tasso di mortalità delle donne indiane dovuto a questo è del 50% superiore agli uomini. Un passaggio al biogas o al gas naturale pulito è essenziale».