Corriere della Sera - La Lettura
Diversamente strani i pianeti non hanno sosia
Tatooine è un deserto di dune rosse, Hoth una landa desolata ricoperta di ghiaccio, Dagobah un intrico di giungle e paludi maleodoranti. Oltre che su razze aliene, astronavi gigantesche ed epiche battaglie l’impatto visivo della saga di Star Wars poggia sulle ambientazioni, cioè sulla varietà di scenari che i personaggi incontrano nel loro continuo peregrinare all’interno della celebre «galassia lontana lontana».
A uno sguardo più attento, però, i pianeti di quell’universo narrativo, come accade in moltissime opere di fantascienza, non sono altro che imitazioni o deformazioni dei biomi terrestri. Megalopoli, deserti e foreste mostrano in realtà ben poco di alieno: le loro peculiarità riflettono e reinterpretano la straordinaria ricchezza e varietà degli ambienti presenti sulla Terra. Un viaggio nel cosmo più prossimo, quello del nostro Sistema solare, potrebbe a prima vista apparire come una banale sequela di pianeti e altri corpi celesti, capace di emozionare soltanto gli appassionati di esplorazione spaziale e schiere di astrofisici. Decenni di fotografie in bianco e nero, illustrazioni scolastiche e immagini a bassa risoluzione inviate alla Terra dalle sonde potrebbero aver scoraggiato i più, dando l’impressione che intorno alla nostra stella regni incontrastata la monotonia e che lo sterile deserto marziano mostrato nelle ultime settimane dalla sonda Perseverance sia quanto di più emozionante si possa trovare nel vuoto dello spazio.
Se tracce di vita organica non sono ancora state rinvenute, c’è qualcosa lassù che sia in grado di animare il pubblico e accendere l’immaginazione di chi ha i piedi fin troppo poggiati a terra? La risposta è sì, ed Erik Asphaug è la guida di cui abbiamo bisogno. Nato in Norvegia, Asphaug è un esperto di scienza planetaria, la disciplina che si occupa di studiare le proprietà dei pianeti e di altri corpi celesti, come satelliti e asteroidi. Il suo libro, intitolato Quando la Terra aveva due lune, è la guida scientifica che ogni esploratore del Sistema solare dovrebbe portare con sé nella tasca della tuta spaziale.
Sebbene sia un volume che richiede dedizione e grande attenzione, per via delle numerose digressioni tecniche che propone, è in grado di aprire la mente del lettore e di proiettarlo nello spazio profondo, alla scoperta della più sorprendente fra le caratteristiche rintracciabili nei sistemi stellari presenti nel cosmo: la diversità planetaria. Grazie a una straordinaria capacità di descrivere con parole, immagini e metafore quelli che spesso sono soltanto dati e statistiche ottenuti con misurazioni e modelli informatici, Asphaug riesce a dimostrare come pianeti, satelliti e comete del cosmo reale non abbiano nulla da invidiare ai mondi della fantascienza e, anzi, li superino per la bizzarria delle loro caratteristiche e l’appassionante storia della loro formazione.
Quando la Terra aveva due lune contiene un’enormità di condizionali. La quantità di informazioni che per ora possiamo soltanto inferire è infatti elevatissima, ma questo non sminuisce il fascino della geologia aliena e dei fenomeni che hanno luogo sui corpi celesti che il libro racconta. Malgrado i pianeti «terrestri» come Mercurio, Marte e Venere siano da tempo i più osservati e studiati, a sorprendere sono i satelliti dei giganti gassosi Giove e Saturno. Su Titano, ad esempio, ci sono vasti mari di idrocarburi, la cui superficie — «punteggiata da centinaia di laghi dalla struttura intricata» — è bersagliata da piogge di metano. Ed è qui che Asphaug conduce il lettore, immaginando una futura missione robotica che possa tuffarsi in quei mari alla ricerca di vita aliena. L’esplorazione non si ferma ai noti Io, Europa e Ganimede, ma si spinge oltre, fino alle estreme propaggini del Sistema solare, dove nella cosiddetta fascia di Kuiper orbitano corpi poco conosciuti, come Haumea, un pianeta nano che ruota con tale rapidità da assumere una curiosa forma allungata.
Sarebbe impossibile escludere da questo viaggio la nostra Luna, che pur essendo vicina a ospitare la prima base umana permanente nasconde ancora molti misteri. Molti dei quali riguardano la sua formazione, argomento che è ancora oggetto di dibattito fra gli studiosi. Se ai coraggiosi che seguiranno Asphaug nel suo vagabondare cosmico non dovesse bastare la teoria sull’origine lunare che dà il titolo al libro, formulata insieme a Martin Jutzi, potrebbe interessare Il libro della Luna dell’astronoma francese Fatoumata Kébé. Un volume capace di accostare le informazioni scientifiche più aggiornate sul nostro satellite ai miti che le culture terrestri amano raccontarsi sulla «dea» del cielo notturno fin dall’alba dei tempi.