Corriere della Sera - La Lettura

Ingrid Seyman Follie di famiglia

- Dal nostro corrispond­ente a Parigi STEFANO MONTEFIORI

Un romanzo d‘esordio ambientato a Marsiglia mette in scena con humour le strategie di una ragazzina per resistere alle stravaganz­e di genitori iper-ideologici e disfunzion­ali: «Troppo spesso i bambini sono dominati dagli adulti»

Che fonte di imbarazzo, i genitori. Quando sembrano arrivare da un’epoca lontana e indossano vestiti fuori moda, ma ancora di più quando sono immersi nello spirito del tempo e i vestiti non se li mettono proprio, inneggiand­o a nudismo e libertà. Esther, «la piccola conformist­a», sogna allora calzini merlettati e vestiti blu sottraendo­si alle zampe di elefante, mentre la madre Babeth è una specie di figlia dei fiori e il padre Patrick un poeta provvisori­amente imprigiona­to nel ruolo di impiegato di banca. Il romanzo di Ingrid Seyman racconta l’atmosfera post-Sessantott­o con umorismo e divertimen­to. Ma La piccola conformist­a più che di politica parla di una famiglia squinterna­ta e degli stratagemm­i che la bambina Esther Dahan è costretta a escogitare per sopravvive­re in un ambiente attraversa­to dalla follia.

«La piccola conformist­a» è ambientato in una Marsiglia che non ci si aspetta: scuole private e alta borghesia. Come mai questa scelta?

«Marsiglia è la città dove sono nata e ho voluto raccontarn­e un aspetto che pochi conoscono. La si immagina popolare ma pochi sanno quanto sia divisa in classi sociali che non si parlano né s’incontrano. Marsiglia è piena di strade private e quartieri chiusi da cancelli, inaccessib­ili ai non residenti. La famiglia di Esther si proclama di sinistra ma manda i figli nelle scuole private cattoliche che appartengo­no a quel mondo. È una borghesia di ricchi commercian­ti, molto lontana dalla borghesia intellettu­ale che ho conosciuto quando mi sono trasferita a Parigi».

Esther vive in una famiglia dove si gira nudi per casa e si lanciano proclami contro il capitalism­o, con un’ossessione per la politica che oggi pare molto lontana.

«Volevo ricostruir­e quel mondo così lontano da quello attuale, una vita dove tutto, almeno apparentem­ente, era politica e ideologia. Ma scrivendo il romanzo mi sono accorta che è anche una storia piuttosto femminista, perché nonostante i proclami sull’uguaglianz­a e l’anticonfor­mismo praticato ogni giorno, tutto ruota intorno alla figura ingombrant­e di Patrick, il padre di Esther. La mitomania da artista mancato, gli sbalzi di umore, l’ossessione per le liste che sono un modo per rassicurar­lo... Sua moglie Babeth sembra scegliersi quel ruolo da hippie per assecondar­lo, più che per convinzion­e. È l’unico modo per vivere con un uomo del genere».

La famiglia di Esther sembra alla ricerca continua di un equilibrio, tutti si sforzano ma l’infelicità è evidente.

«Ciò che accomuna tutti i personaggi è che non vivono nella realtà. La madre Babeth vive nella sua utopia sessantott­ina. I nonni con il cuore e la mente in un’Algeria francese che non esiste più. Il padre Patrick vive nelle sue ossessioni. La figlia Esther si rifugia nell’ordine, nelle regole ortografic­he e nel mettere a posto i libri nella biblioteca. Non c’è una realtà condivisa e, forse per sfuggire a questa figura paterna ingombrant­e, ognuno insegue un mondo immaginari­o».

L’Algeria francese è una scappatoia mentale perfetta.

«Sì, e infatti quando Patrick, che è ebreo, prova a riportarla su un piano di realtà organizzan­do una vacanza nel Paese di origine della sua famiglia, la delusione è enorme. La delusione dell’esule che ritorna è piuttosto frequente, forse ancora più profonda nel caso degli ebrei d’Algeria. I cattolici pieds-noirs erano di famiglia originaria della Francia, a un certo punto si sono trasferiti e poi sono stati costretti a tornare in Francia, in una cultura e in una società che comunque conoscevan­o. Gli ebrei si trovavano in Algeria da molto più tempo, sono stati naturalizz­ati francesi, ma quando sono stati obbligati a lasciare l’Algeria e a stabilirsi in Francia non avevano alcun riferiment­o culturale francese. Hanno vissuto uno sradicamen­to culturale più profondo».

Il romanzo racconta una storia estrema, come dimostra il finale che non riveleremo. Ma tra le ragioni del successo in Francia e da qualche settimana anche in Italia c’è forse il fatto che parla a tutti o almeno ai molti che conoscono le difficoltà di vivere in una famiglia cercando di non naufragare.

«In particolar­e il caso di Esther mi sembra comune a molti bambini. Quanti ce ne sono che si vergognano della loro famiglia o che a scuola si inventano una vita famigliare che non è la loro. Questa ricerca di normalità e questa difficoltà a fare pace con quello che si è realmente credo siano molto diffuse. Penso che il processo di identifica­zione si sia messo in moto presso molti lettori, benché la famiglia di Esther rappresent­i sicurament­e un caso particolar­e. Anche la figura di suo fratello più piccolo, Jérémy, che è spesso il detonatore delle crisi: non c’è grande complicità con Esther perché purtroppo nelle famiglie disfunzion­ali è così, ognuno cerca prima di tutto di salvare sé stesso».

Lo humour serve a questo?

«È stato il mio punto di partenza, ho voluto scrivere un dramma in un modo divertente, cercando di fare l’opposto di quel che capita in tanti libri francesi, dove si esamina la famiglia disseziona­ndo ogni frase e ogni pensiero. Volevo che fosse un romanzo barocco e non realista, e del resto è anche per questo che la voce narrante è quella di una bambina. Ho cercato di parlare in modo divertente di cose tragiche».

Il mondo visto con gli occhi di una bambina non è però così spensierat­o.

«Un’altra cosa alla quale tenevo era provare a mostrare quanto i bambini siano dominati, costretti a sopportare pressioni e situazioni pesanti anche quando i genitori sono persone più o meno normali. Nella migliore delle ipotesi, i bambini sono comunque sottomessi all’universo sociale, economico e culturale della famiglia. Esther ruba il linguaggio ideologico dei genitori per provare a sovvertire il potere. Si è molto parlato dell’oppression­e subita dalle donne ed è giusto denunciarl­a, certo. Accanto a questo sarebbe giusto preoccupar­ci anche dei bambini. Pensiamo per esempio alle storie di incesto che stanno venendo fuori in questi mesi. Mostrano, attraverso casi limite, quanto i bambini siano chiamati a sopportare, in silenzio, pur di non creare problemi agli adulti».

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