Corriere della Sera - La Lettura
Un’altra Venere, una terza Grazia
Un check-up ad altissima risoluzione ha fatto chiaramente emergere dettagli e figure prima solo intravisti E ha svelato il metodo di lavoro e le rielaborazioni dello straordinario Tiziano conservato alla Galleria Borghese di Roma
C’è una storia dell’arte invisibile, ancora da scrivere, che lo sviluppo delle tecnologie, applicate ai beni culturali, sta via via disvelando: con la conseguente mutazione di certezze radicate nei secoli e con l’apertura di nuovi, a volte sorprendenti, orizzonti di studio.
Vale, soprattutto, per i grandi maestri del passato, quelli per cui valga davvero la pena sottoporre le opere a (costose) operazioni di indagini diagnostiche, per questo riservate, oggi, quasi esclusivamente a capolavori conclamati. Uno di questi è il celebre dipinto di Tiziano (1490-1576) Venere che benda amore, opera tarda del genio cadorino di cui, a dispetto della fama, ancora si ignorano molti elementi.
Il quadro è conservato alla Galleria Borghese da sempre, fin dai tempi dell’istituzione della raccolta, nei primi anni del Seicento, da parte del ricco e potente cardinale Scipione, raffinatissimo e spregiudicato collezionista «nepote» e figlio adottivo di Papa Paolo V. Proprio il museo romano ha deciso di sottoporre in questi giorni il quadro a una serie di indagini diagnostiche, anche in vista di un doppio prestito imminente (pandemia permettendo) per due mostre, a Mantova e a Vienna.
Non un restauro. Bensì un check-up ad altissima risoluzione — non invasivo, condotto senza movimentare la tela grazie a tecnologia portatile — che ha visto coinvolti, in pool, storici dell’arte e restauratori del museo diretto da Francesca Cappelletti, insieme a chimici, fisici, informatici. E come spesso accade in questi casi le sorprese non sono mancate e altre non mancheranno: i risultati delle indagini — in particolare quelli relativi alla riflettografia infrarossa a 1700 nanometri condotta con scanner InGaAs — sono ancora in via di definizione in queste ore. Ma il tanto che è emerso basta ad annunciare che sarà proprio la tela di Tiziano la protagonista di una monografia in uscita dopo l’estate, a cura di Maria Giovanna Sarti — che inaugurerà una nuova collana di studi edita dalla Galleria Borghese. «Una serie di Quaderni — anticipa Cappelletti — dedicati a ricerche e approfondimenti su aspetti inediti o poco noti della Collezione, a conferma di un ruolo del museo come luogo di studi, oltre che di mostre temporanee ed esposizione permanente».
Ed ecco cosa è emerso da una lettura più approfondita di questa tela, dipinta circa 450 anni fa, e che già in una precedente campagna del 1992-93 (quella volta si trattò di un restauro, ma in un’epoca in cui era disponibile solo la «tradizionale» ispezione a infrarossi) aveva fatto intravedere importanti novità. Stavolta, sondando lo strato sottostante la vernice e il film pittorico, sono chiaramente emersi i dettagli del volto di un’altra Venere presenti al di sotto dell’attuale — diverse sia le pupille sia le sopracciglia — ma soprattutto ha preso consistenza, con chiarezza, una figura posta al centro del dipinto, di spalle ma con il volto ruotato verso lo spettatore, recante un oggetto sollevato dal braccio sinistro poi celato dalle pennellate del cielo e delle nuvole.
La finitezza di quest’ultimo ritrovamento suggerisce, al momento, non tanto un pentimento da parte dell’artista (abbastanza comuni in tutta la storia dell’arte), quanto l’invenzione di un soggetto diverso, forse una Venere con le tre Grazie. È singolare che proprio questo sia uno dei tanti titoli che hanno accompagnato l’opera dai primi del Seicento almeno fino al termine del XVIII secolo. Un’oscillazione che riflette il «mistero» sulle sue origini. Venere che benda Amore entrò in Collezione Borghese con buona probabilità attraverso la vendita di un nutrito gruppo di dipinti che il cardinale Paolo Emilio Sfondrati, «nepote» di papa Gregorio XIV, cedette a Scipione Borghese forse già nel 1608. I vari titoli del quadro si ritrovano però solo in inventari di molto successivi. Sconosciuta rimane la committenza dell’opera, come di difficile interpretazione appare il soggetto, sulla cui lettura la critica dibatte da secoli.
La figura femminile incoronata, seduta sulla sinistra, è ritratta nell’atto di bendare il putto alato poggiato sul suo grembo, mentre dalla sua spalla un altro putto osserva la scena. A destra, altre due donne recano l’una un arco, l’altra una faretra. La scena si svolge sullo sfondo di un paesaggio sovrastato da un cielo infuocato. La tela appartiene alla fase avanzata dell’artista, caratterizzata da una stesura cromatica resa con tocchi di pennello densi di vibranti effetti luministici.
Eppure proprio queste recenti indagini — coordinate per la parte tecnica da Stefano Ridolfi, fisico e docente alla Sapienza, responsabile della società ArsMensvrae — rivelano un aspetto inedito nella prassi consolidata di Tiziano il veneto, grande colorista per antonomasia. Non solo la presenza di un’inattesa quadrettatura, nell’angolo destro della tela, che doveva scandire in settori regolari la superficie da dipingere. Ma anche tracce evidenti di un disegno a carboncino.
Tiziano dunque, prima, disegnava: «Magari non con l’estrema cura di un Raffaello — spiega Barbara Provinciali, funzionaria restauratrice della Galleria Borghese — ma comunque non procedeva alla stesura con sovrapposizioni di colori e senza contorni». Una novità tecnico-esecutiva sulla «mano» del genio Vecellio non di poco conto. «Una novità ancora tutta da studiare e valutare», specifica la direttrice Francesca Cappelletti. E che ora sarà sottoposta, con tutti i risultati delle indagini, all’attenzione della comunità scientifica internazionale.