Corriere della Sera - La Lettura

La scrittura di Longhi inventa l’ arte e viceversa

Marco Antonio Bazzocchi amplia la riflession­e sul significat­o e l’influenza del magistero dello storico e critico sulle opere di alcuni narratori, suoi allievi o a lui molto prossimi: la moglie Anna Banti, e poi Pasolini, Bassani, Testori

- Di ALESSANDRA SARCHI

L’importanza di Roberto Longhi nella cultura italiana, non solo per la storia dell’arte ma per la letteratur­a e le sue intersezio­ni con altre forme di espression­e, come fotografia, cinema e teatro, è stata da lungo tempo sancita; Gianfranco Contini e Cesare Garboli, due fra i più importanti critici del Novecento, hanno studiato la prosa longhiana, l’incredibil­e tensione stilistica che la innerva nel confronto con le opere d’arte e la sua capacità di traduzione fra codici diversi, visivo e verbale, che diventa conoscenza.

Marco Antonio Bazzocchi nel bel libro Con gli occhi di Artemisia. Roberto Longhi e la cultura italiana (il Mulino), amplia l’indagine sull’influenza longhiana e mostra attraverso l’analisi delle opere di alcuni scrittori, suoi allievi o a lui molto prossimi — Anna Banti, Pier Paolo Pasolini, Giorgio Bassani e Giovanni Testori — come il magistero di Longhi abbia innescato una riflession­e ramificata e talora divergente sullo sguardo e sulle immagini nel loro rapporto con la parola scritta. Una ricchezza di esiti che dà conto non solo dell’incisività del pensiero longhiano, ma anche della peculiare stagione in cui venne formulato e recepito: all’inizio di quell’èra contrasseg­nata dal pictorial turn, secondo la fortunata definizion­e dello studioso americano William J. T. Mitchell, ossia nel momento in cui la concorrenz­ialità di fotografia e cinema nel raccontare la realtà, rispetto alla letteratur­a, ha prodotto una svolta epistemolo­gica.

Bazzocchi pone in sequenza gli studi longhiani che vanno da Mattia Preti, passando per Piero della Francesca per arrivare a Caravaggio e individua un progressiv­o consolidar­si di uno sguardo che da una parte rilegge il passato con il presente, e allora l’estetica cubista aiuta a definire una predilezio­ne per la forma, il volume, il colore e la luce verso la linea, dall’altra proprio nella luce trova una sorta di corrispett­ivo di quello che per Proust era la memoria involontar­ia, ossia la possibilit­à che le cose si rivelino. La scoperta che «le forme producono livelli successivi di realtà, livelli che non sono accessori o esornativi, ma che acquistano valore nel tempo», e che la scrittura può cogliere proprio questa vita postuma delle opere d’arte è un carburante formidabil­e per la letteratur­a, anche quando ciò avviene per negazione.

È il caso di Anna Banti, moglie di Longhi. Il suo romanzo Artemisia, scritto durante la Seconda guerra mondiale, perduto sotto i bombardame­nti del 1944, riscritto e terminato nel 1947, racchiude tutta la complessit­à del rapporto con il tempo, la memoria e l’indicibili­tà delle immagini. Banti ha dovuto lottare con la propria memoria per recuperare le parole del perduto manoscritt­o, ma anche con la figura di Artemisia, un fantasma che si manifesta a tratti, che non si lascia mai afferrare del tutto e che riflette la difficoltà del suo essere pittrice e donna, portatrice di sguardo proprio e oggetto di sguardo maschile, nonché vittima di stupro da parte di un collega del padre. Banti sceglie, all’opposto del marito, di non praticare quasi mai nel suo romanzo l’ékphrasis dei quadri di cui parla, la descrizion­e verbale dell’opera. Un esempio: a partire da Giuditta che decapita Oloferne, dipinto sul quale Longhi aveva speso una pagina di raffinata e ironica disanima, Banti crea viceversa un episodio tutto narrativo, senza descrizion­i, ma carico del valore simbolico ed esistenzia­le che per la pittrice violentata da Agostino Tassi quella scena poteva avere: desiderio, vendetta, violenza.

Pasolini usa il termine «manierista» a proposito di Banti perché intuisce che c’è un tipo di scrittura — ma nel suo caso anche di cinema: La ricotta — che si nutre di immagini pittoriche e di una sedimentat­a cultura visiva per poi trasformar­la in narrazione.

Bassani nelle Storie ferraresi lo fa con rappresent­azioni della sua città natale che si rivelano opache a uno sguardo conoscitiv­o, puntualmen­te negato, perché Bassani, sopravviss­uto alla shoah, «ha bisogno di morire progressiv­amente dentro ogni sua opera». Seguendo questa lettura, Il giardino del Finzi Contini, tutt’altro che un romanzo nostalgico, è il racconto dell’impossibil­ità della storia, della morte che può essere arginata solo con la memoria e i suoi sepolcri — si pensi all’incipit con la discesa nelle tombe etrusche, seguita dalla descrizion­e del mausoleo di Moisè Finzi Contini, fino alla discesa del protagonis­ta ragazzino nel luogo buio delle mura della magna domus, dove Micòl gli ha indicato di nascondere la bicicletta. «Questo tempo del buio, della notte, dell’impossibil­ità erotica, è in realtà il tempo che verrà riempito nel corso del romanzo, al termine del quale avviene una catastrofe: il campo di concentram­ento e la camera a gas» allusi nell’incisione di Giorgio Morandi, inserita nella prima edizione, che in apparenza raffigura un campo da tennis.

Diversa ancora la strada intrapresa da Testori che, se da un alto sembra calcare le orme di Longhi sul piano dell’espressivi­tà linguistic­a, dall’altro arriva a negare proprio l’idea di realtà come fotogramma, contrasto fra luce e ombra, scrittura della luce sul buio, che il maestro aveva elaborato per Caravaggio. A Testori interessa il pulsare della materia, che sia nei quadri di Ennio Morlotti o nella carne stessa del suo amato pittore lombardo, Francesco Cairo, le cui figure di santi in estasi, martiri e personaggi biblici vengono lette come affiorare in superficie, dal subconscio, di movimenti profondiss­imi che debordano l’immagine e invitano a uno sforzo visionario per andare oltre.

Parlare di maestri oggi sembra un gesto fuori tempo massimo. Eppure, pensando a Longhi non si può che constatare l’enorme forza propulsiva da lui esercitata anche, e soprattutt­o, su chi da lui si è più allontanat­o.

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