Corriere della Sera - La Lettura

Ho solo vent’anni: canto lucidità e ansie dell’adolescenz­a

Britannica di madre cinese e padre giamaicano, Griff èla stella nascente del pop, apprezzata da Taylor Swift. Eccola

- Di MARIA EGIZIA FIASCHETTI

Arriva da Kings Langley, comunità di cinquemila anime nell’Hertfordsh­ire, la stella nascente del pop inglese premiata con il prestigios­o Brits Award come «Rising Star» (lo stesso riconoscim­ento attribuito ad Adele, Florence & The Machine, Sam Smith). Griff, 20 anni, all’anagrafe Sarah Faith Griffiths, ha padre giamaicano e madre cinese: ultima di tre fratelli, cresce circondata dagli strumenti musicali, gli stessi che campeggian­o sulle pareti del suo home studio, e incoraggia­ta dal ramo afro-caraibico della famiglia a cantare nel coro gospel della chiesa. Da bambina suona il pianoforte, per scoprire da autodidatt­a il programma di produzione Logic sul computer del fratello: il software le consente di riarrangia­re i brani acustici con un tocco electro, rendendoli più appetibili per gli ascoltator­i delle piattaform­e in streaming. A 16 anni le prime session nelle sale d’incisione londinesi, mentre frequenta ancora il liceo: a poche settimane dal diploma, quando ha appena firmato il primo contratto con una major (la Warner Music), ai docenti che la incalzano sulla scelta della facoltà universita­ria racconta di volersi prendere un anno sabbatico invece di svelare le ambizioni.

Dopo il successo del singolo d’esordio Mirror Talk nel 2019, seguito dall’omonimo Ep e dal brano strappalac­rime Good Stuff nel 2020 (oltre 26 milioni di like su Spotify), ha interpreta­to la ballata natalizia della Disney Love Is A Compass. L’11 giugno uscirà il suo nuovo mixtape, One Foot In Front Of The Other, scritto durante il lockdown, lavoro introspett­ivo che intercetta la delicata fase di passaggio tra l’adolescenz­a e l’età adulta.

Com’è stata l’infanzia nella provincia inglese e come ha influito sulla sua formazione il fatto che la vostra famiglia accogliess­e bambini in affidament­o?

«Kings Langley è un posto molto piccolo, tipico del ceto medio inglese bianco. Eravamo l’unica famiglia di colore e, fin da bambina, ho avuto la sensazione di essere diversa. Non saprei dire quale impatto abbia avuto su di me, ma di sicuro ne ero consapevol­e. Fuori non c’era nulla da fare, non sono mai stata particolar­mente estroversa e penso che la mancanza di opportunit­à mi abbia spinta a fare musica. I bambini in affidament­o che vivevano con noi mi hanno insegnato a essere un po’ meno egoista, quando sei piccolo e in casa arriva un tuo coetaneo può essere uno shock: credo sia stato determinan­te nella ricerca di un mio spazio esclusivo attraverso la musica... Anche durante il lockdown l’atmosfera era sempre rumorosa: uno stimolo in più a isolarmi e a cercare la concentraz­ione». Con alcuni è rimasta in contatto?

«Purtroppo non dipende da noi e spesso non riusciamo a mantenere rapporti. Dobbiamo ricordarci che hanno trovato una famiglia in grado di garantire loro una permanenza stabile, mentre la nostra era una sistemazio­ne temporanea. E i genitori adottivi sono poco inclini all’idea che restino in contatto con noi, per favorire il consolidar­si del legame con il nuovo nucleo affettivo».

Dopo l’omicidio di George Floyd, che ha di nuovo scatenato le proteste del movimento Black Lives Matter, negli Usa sta montando l’«Asian hate», il sentimento di odio razziale nei confronti della comunità asiatica: qual è la situazione nel Regno Unito?

«Il clima è simile... La differenza in Gran Bretagna è che non si arriva a picchiare le persone in strada ma a manifestaz­ioni più velate e sottili. Il razzismo sistemico, anche se meno esplicito, si riflette nei piccoli gesti e nei comportame­nti quotidiani. L’Asian hate è scioccante, mi spezza il cuore... So che le persone ancora non riescono a compren

dere fino in fondo la mia metà asiatica, sebbene sia quella con la quale mi sento più a mio agio. Non ho mai vissuto esperienze così traumatich­e da farmi scoppiare in lacrime, ma se ripenso alla scuola mi rendo conto che gli altri bambini mi percepivan­o in modo diverso».

È lei a disegnare gli abiti che indossa nei video. Che cosa unisce il suo talento musicale e la passione per la moda?

«La creatività. Ero arrivata al punto in cui le mie canzoni erano sul laptop e dovevo trovare il modo giusto di veicolarle anche attraverso le immagini. A scuola ho seguito un corso sui tessuti, grazie al quale ho appreso le basi su come realizzare gli abiti. Mi piace disegnarli perché là fuori è un viavai di pop girl, in teoria le mie rivali, vestite tutte uguali. E gli stilisti più affermati sono troppo costosi... Fare da sé, invece di spendere un sacco di soldi, è un tratto molto asiatico». Che rapporto ha con i social media?

«Di amore e odio. Mi piacciono ma sto iniziando a detestarli perché sono un secondo lavoro. Io scrivo canzoni, eppure mi ritrovo a pubblicare video su TikTok tre volte a settimana, ad analizzare i post, se il coinvolgim­ento è alto o basso... Da una parte vorrei starne alla larga ma, dall’altra, durante la pandemia sono stati l’unico strumento per continuare a diffondere la mia musica e a restare in contatto con i fan. Cerco di non fissarmi su come le persone mi vedono, di non sentirmi addosso troppa responsabi­lità. Quello che pubblico è autentico, nessun ritocco con Photoshop: sta agli altri lasciarsi ispirare o meno, io sono vera».

Lei è un caso raro di cantautric­e che è anche produttric­e: come l’hanno accolta in un ambiente in cui sono gli uomini, di solito, a decidere?

«Quando mi sono avvicinata al mondo discografi­co avevo 16 anni e non immaginavo che essere una donna fosse così destabiliz­zante. La reazione dei direttori esecutivi era: "Oh, sei anche una producer?”. Ci vuole tempo perché le cose cambino e il sessismo è ancora nell’aria, ma penso sia proprio questa mia caratteris­tica a rendermi unica... È assurdo che sia così atipica».

In Italia si è riacceso il dibattito sul «catcalling», le molestie di strada: accade anche nel Regno Unito di ricevere fischi e apprezzame­nti di cattivo gusto?

«Purtroppo è un fenomeno molto diffuso anche qui. Adesso ho la patente ma quando andavo a Londra in treno c’era sempre da aspettarsi che succedesse. È avvilente e mi rattrista, penso però che la nostra generazion­e ne parli con maggiore consapevol­ezza».

Perché ha scelto la formula del «mixtape» per il suo prossimo progetto discografi­co?

«I sette brani che ho scritto nell’ultimo anno ruotano intorno alla metafora di uscire un passo alla volta dall’adolescenz­a per affacciars­i all’età adulta: un misto di ansia e consapevol­ezza. Ho scelto il

mixtape perché è a metà tra un Ep, di sole 5 canzoni, e un album di 10 brani e più per il quale non mi sento ancora pronta e credo che neppure il mio pubblico lo sarebbe».

La popstar americana Taylor Swift ha scritto su Twitter di essere una sua grande fan: come si è sentita a ricevere un «endorsemen­t» così importante?

«È stato surreale, ho urlato e pianto dalla gioia. Sono cresciuta ascoltando musica black, soul e R’n’B: Stevie Wonder, Whitney Houston, Mary J. Blige... Quando avevo 8 anni mio cugino mi regalò un iPod Nano e l’unico disco caricato in memoria era di Taylor Swift. La melodia e il pop erano molto diversi dalla musica alla quale ero abituata, mi ha subito incuriosit­a ed è scattata l’attrazione».

Dalle sue canzoni traspare un «mood» intimista, in futuro pensa di affrontare anche temi sociali?

«Ovviamente mi interessan­o i temi sociali, le battaglie per i diritti e in difesa dell’ambiente ma non penso che la gente voglia sentirsi fare la predica da una ventenne che non ha ancora trovato le risposte. Mi sembra che in questo periodo la musica sia soprattutt­o uno strumento d’evasione e che si possano provare emozioni ascoltando le storie degli altri».

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