Corriere della Sera - La Lettura
Le fanciulle cercano l’eros e gli sciacalli danzano
Antica lirica tamil, così affine alla poesia cortese
Sarà forse un’eredità dell’epoca romantica, ma su tante cose che ci arrivano da lontano, nel tempo o nello spazio, si stende subito una specie di aura poetica. Leopardi lo chiamava l’effetto dell’indefinito, del peregrino, dell’indeterminato. E chi si trovi a leggere il volume Copioso sangue e rossa pasta di sandalo. La poesia tamil del «Muttollayiram», molto ben curato e tradotto da Giovanni Ciotti e Daniele Cuneo, difficilmente potrà sottrarsi a una sensazione di questa natura.
«Come una lampada dentro una giara,/ rimane celato/ il desiderio delle fanciulle flessuose come giunchi»: è pressoché impossibile leggere questi versi sottraendoli alla loro immediatezza, alla qualità intrinseca delle loro immagini, come se non fossero radicati in un tempo e luogo particolari, e dunque non avessero patria. Ma va detto intanto che si tratta a tutti gli effetti di una primizia. Il volume costituisce infatti la prima traduzione italiana in assoluto di un florilegio di poesie, scritte in tamil classico, denominato appunto Muttollayiram. Composto nel VI secolo della nostra era nell’India meridionale, guarda però molto più addietro. Come chiariscono i curatori, questi «brevi componimenti» sono infatti «dedicati ai monarchi delle tre dinastie tamil che si contendevano, secondo quanto si tramanda, il sud del subcontinente all’alba della storia: i Cera, i Cola e i Pandya». Il titolo tamil della raccolta significa molto probabilmente «novecentina», in relazione al fatto che originariamente comprendeva trecento poesie per ciascuno dei tre monarchi. La maggioranza di quei componimenti sono però andati perduti, e ne rimangono oggi all’incirca centotrenta.
In realtà queste poesie che si è portati a leggere dando credito all’impressione e all’autonomia ritmica e figurativa del singolo frammento, affondano le loro radici in un contesto storico e culturale ben determinato, che poi è quello del medioevo indiano. Per gli studiosi e interpreti rimane magari incerta la sua esatta definizione ma è comunque certo che si tratta di un sistema di valori, di rituali, di procedimenti d’idealizzazione e d’omaggio propri di una società fortemente gerarchizzata. Per un lettore occidentale che abbia qualche confidenza con l’antica letteratura cortese, certi aspetti potrebbero risultare persino familiari. Il che significa che in queste immagini, in cui tante volte compaiono splendide metafore e similitudini tratte dal mondo naturale, non vi è nulla di gratuito, di a sé stante, ma diciamo pure d’innocente.
L’immediatezza e la convenzionalità, in sostanza, non sono che le due facce della stessa medaglia. La raccolta è il risultato della variazione e dell’intreccio di due temi fondamentali: la guerra e l’amore (è pressoché assente, invece, la tematica religiosa e devozionale). Al primo polo andranno allora ascritti i motivi del mondo esteriore, del potere e della regalità, del valore e della gloria militare del monarca, della forza fisica e sessuale, ma anche della violenza e della morte. Al secondo, invece, quello dell’interiorità, dell’ammirazione e del trasporto amoroso, del desiderio non solo inappagato ma per statuto inappagabile.
Molte di queste poesie adottano non a caso il punto di vista di fanciulle intraprendenti e appassionate. Encomio per il sovrano o legittimazione dell’eros e dei suoi diritti? L’uno e l’altro, si può dire (i curatori fanno al riguardo considerazioni molto pertinenti). Il titolo stesso del volume italiano, del resto, allude proprio alla partita doppia che intesse ognuna di queste poesie, come rivela molto bene il componimento eponimo: «Al rilascio di copioso sangue e rossa pasta di sandalo/ che fiotta dalla rilucente lancia scagliata da re Kotai/ sulla cui ghirlanda si aprono boccioli,/ lì danzano con i fichi le api/ lì festosi danzano giovani sciacalli».