Corriere della Sera - La Lettura

S’affaccia sul solco che separa l’umanità

Lo scrittore torna alla narrativa con un romanzo, «Salvare il fuoco», che esplora le fratture sociali e le lacerazion­i dell’animo. «Sì, il mondo è molto diviso»

- Di ALESSANDRA COPPOLA È così anche per l’autore, il messicano Guillermo Arriaga? Da una parte «el miedo» di chi possiede, dall’altra «la rabia» di chi non ha più nulla da perdere? Il primo livello del racconto è socio-economico. La pandemia ha accentuato

Il mondo si divide in due, sostiene uno dei personaggi nel «manifesto» che apre il romanzo: «Quelli che hanno paura e quelli che provano rabbia».

«Ogni manifesto è politico e la politica tende a semplifica­re la vita. Io credo che il mondo sia più complesso di questo schema. Vero è, però, che molti Paesi stanno diventando così. Non so in Italia, ma certamente in America Latina una parte della società è stata lasciata indietro da questo capitalism­o tanto aggressivo dei tempi recenti, e non ha nulla da perdere».

Sessant’anni doppiati da poco, massiccio e sorridente via Skype, gli occhi luminosi, la barba bianca rada e una giacca di fantasia mimetica che potrebbe essere adatta alle sue battute di caccia, Arriaga torna al romanzo con Salvare il fuoco, di nuovo Bompiani, ancora una volta magistralm­ente tradotto dall’amico Bruno Arpaia. Già sceneggiat­ore della trilogia di Iñárritu, lui stesso regista, produttore, negli ultimi anni si è dedicato sempre di più alla scrittura, quasi ossessivam­ente, racconta. «Una dipendenza» che ha generato questo poderoso volume (848 pagine) sul solco che separa l’umanità, ma anche sulle lacerazion­i dell’animo umano, tra abissi, pulsioni, fantasie.

«Qui il divario è stato innanzi tutto tra chi ha potuto restare in casa a proteggers­i e chi no; tra chi può usare mascherine protettive e chi no; tra chi ha l’acqua per lavarsi le mani, può comprare gel disinfetta­nte e così via... Dunque sì, il mondo è molto diviso e questo romanzo rappresent­a la divisione che c’è in Messico e nel resto del Continente».

L’incontro tra questi due gruppi umani risulta potente, rivoluzion­ario, anche sanguinoso, a leggere quello che accade a Marina, coreografa borghese, sposata, tre figli, che entra in carcere per un laboratori­o di danza e ne esce stravolta dalla passione per José, il personaggi­o del manifesto.

Arriaga apre la giacca e mostra una scritta bianca su maglietta nera: «Unidad Modelo». È il quartiere popolare della sua infanzia, a Sud di Città del Messico in cui ha costruito il precedente romanzo, Il selvaggio. «Sono cresciuto in strada — riprende — non vengo da una famiglia ricca, i miei hanno messo da parte i soldi poco a poco, ma quando ero bambino non avevamo grandi possibilit­à. Da lì viene la mia gestione di questo linguaggio in cui ho anche inventato molte parole... Povero Bruno».

«Io credo che molto di questo mi venga dalla caccia, che è affrontare i corpi, entrare nei corpi. C’è una parte molto sessuale nel romanzo. Cresce il livello di quello che Marina va provando. E la donna comincia a chiedersi se il sesso non abbia a che vedere con la classe sociale. Qui l’alta borghesia è delicata, igienica, ossessiona­ta dal pulito. Con quest’uomo di strada sono tutti altri odori, umori, sensazioni. Marina scopre un mondo via via più forte e si mette in discussion­e».

«L’ho fatto leggere alla fine a mia figlia che mi ha detto che “suonava da donna”. Molte donne messicane di classe alta mi hanno poi raccontato di essersi identifica­te. Soprattutt­o nelle parti in cui evidenzio i ricatti a cui sono soggette. I figli, per esempio. Una donna non può mai abbandonar­e un figlio, gli uomini sì. Ci sono questioni sul corpo, che solo all’uomo sono concesse. Ci sono scelte imposte: una donna deve prendere un marito che le dia stabilità economica. Dal sesso al lavoro, al ruolo in famiglia, per la donna è un percorso di trappole».

«Il Messico sta vivendo una stagione di violenza. Ma non è questo il cuore del Paese. Il cuore del Messico è la solidariet­à, siamo gente calda, buona».

«Sto scrivendo il mio romanzo più difficile. Perché parla di cose che non conosco e per la prima volta ho dovuto fare ricerche. Non lo faccio mai. Io in genere parto da una storia brevissima e la lascio sedimentar­e per anni, attingendo alla mia esperienza. Non faccio mai un piano, non so mai di che cosa parlerà il romanzo, lo scopro mentre scrivo».

«Al contrario, il mio metodo di lavoro è il caos. Parto da un tema breve, e lascio poi che l’inconscio lavori risolvendo i problemi che via via sorgono».

«Esatto! Io lavoro con l’inconscio: mi pare uno strumento così delicato che è meglio non toccarlo...».

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