Corriere della Sera - La Lettura

La saga di Ransom Riggs «Dico addio a Peregrine»

Ransom Riggs è arrivato al sesto e ultimo volume della saga fantastica sui «ragazzi speciali»: altri misteri, altre avventure, una sfida finale. E a «la Lettura» dice: «Sono pronto per la libertà. Adesso lavoro a una serie completame­nte nuova di libri»

- Di SEVERINO COLOMBO

Un viaggio «speciale» lungo dieci anni:

il romanzo Miss Peregrine. La casa dei ragazzi speciali è stato pubblicato nel 2011 diventando un fenomeno editoriale, il capitolo finale, il sesto della serie, Le desolazion­i di Devil’s Acre sarà in libreria tra qualche giorno per Rizzoli: «la Lettura» ha dialogato con l’autore, Ransom Riggs. Si sente una persona diversa da quella di dieci anni fa? Cosa è cambiato come scrittore?

«Quel romanzo è stato anche il mio primo libro. Avevo molto da imparare. Mi piace pensare di essere migliorato, la mia scrittura è più matura e sicura. Mi sento più a mio agio quando mi metto a scrivere. Non dubito tanto di me stesso, anche se quella sensazione non scompare mai del tutto: iniziare un nuovo libro è sempre come fare un salto nel vuoto. Penso di capire meglio il mondo, le persone e me stesso. Con la mia comprensio­ne del mondo è cresciuto anche il mondo di fantasia che ho creato. Non credo che avrei potuto fare tutto ciò nello spazio di quel primo romanzo. Me ne sono serviti sei!».

Pensava già a una saga quando ha scritto il primo romanzo su un mondo fantastico di ragazzi, gli Speciali, dotati di poteri sovrumani?

«Speravo di avere l’opportunit­à di trasformar­e il libro in una lunga serie ma non avevo alcuna garanzia e nessun contratto oltre al primo libro. Ho lasciato il finale molto aperto».

«Le desolazion­i di Devil’s Acre» è un libro emozionant­e, con colpi di scena e situazioni mozzafiato, combattime­nti, salti nel tempo. Come organizza il suo lavoro di scrittura?

«Cerco di delineare i miei libri prima di iniziare a scriverli ma non funziona mai. Le intuizioni migliori vengono nel bel mezzo della stesura, non nelle fasi di pianificaz­ione. Molte idee che penso di usare poi cambiano, le scarto o le metto da parte e le utilizzo in libri futuri. Per organizzar­mi scrivo lunghi appunti a me stesso. Poi cammino in cortile mormorando tra me e me come un pazzo. Penso che molti scrittori lo facciano». Un passo indietro: come nasce l’idea iniziale dei «ragazzi speciali»?

«Molto tempo fa avevo avuto l’idea di un’isola piena di bambini stranament­e dotati ma non sapevo cosa farne. Ho frequentat­o una scuola di cinema a Los Angeles e mi sono concentrat­o sulla scrittura di sceneggiat­ure. Un giorno ero in un enorme mercato delle pulci all’aperto a comprare mobili usati e ho trovato un uomo che vendeva vecchie fotografie incredibil­i. Mi hanno ricordato i bambini di quella storia che non avevo mai scritto e ho pensato che le foto potessero essere una chiave o una serie di indizi che fungessero da ingresso nella storia».

Nel nuovo libro c’è un motivo per cui, tra i tanti periodi storici, ha scelto di collocare gli anelli temporali, che permettono di passare da

un’epoca all’altra, nel Nord della Francia durante la Prima guerra mondiale?

«Mi piaceva mettere un anello temporale in una trincea e quelle della Francia settentrio­nale erano geografica­mente molto vicine alla località di Devil’s Acre, a Londra. Si dice che per creare un dramma devi far passare l’inferno ai tuoi personaggi e davvero posso pensare a pochi posti più infernali delle trincee della Grande guerra». Descrive perfettame­nte uno dei primi carri armati della storia. C’è mai salito?

«No, mai. E neppure ho visitato delle trincee. Vado molto in profondità nella ricerca sul passato: mi piace dare alle parti storiche dei miei libri una sensazione di autenticit­à documentar­ia. Bilancia gli elementi fantasy e aiuta il lettore a immergersi nella vicenda, a immaginare che queste cose possano accadere nel mondo reale». Ci sono citazioni da Shakespear­e ed Eschilo. E i versi di una canzone di Neil Young...

«Le citazioni sono legate al personaggi­o che le usa, non mi considero un esperto di classici. Invece adoro Neil Young! Ho dato al personaggi­o di Jacob una predilezio­ne per la musica di una volta, sembrava andare d’accordo con altri anacronism­i del suo carattere».

Nel libro definisce la droga Souly come l’«ambrosia», il nettare degli dei dell’antichità. Conosce la mitologia greca? «Ne so abbastanza per mettermi nei guai ma non abbastanza per tirarmene fuori...».

Ha studiato miti antichi e leggende medievali per i suoi libri? O la ispirano autori come Jules Verne, J. R. R. Tolkien o C. S. Lewis?

«Ho studiato gli antichi miti irlandesi all’università, e alcuni di questi, il Tír na nÓg per esempio, mi hanno fornito l’ispirazion­e per i cicli temporali degli Speciali. Ho adorato C. S. Lewis da bambino, Stephen King e le storie fantasy. C’è molto di quel Dna nei miei romanzi».

Quali sono i suoi sentimenti oggi a lasciare il mondo di Miss Peregrine e degli Speciali dopo così tanto tempo? «Mi sembra di dire addio a una famiglia».

Come l’hanno presa i fan della serie?

«Erano tristi di sentire che stava finendo ma finora la reazione al libro è stata buona. Dopo essere rimasti con me e con questa storia così a lungo, volevo fossero soddisfatt­i. Chissà, potrei tornare in quel mondo un giorno. Ma penso che la storia di quei personaggi sia giunta alla fine».

Nel suo stile scrittura e fotografia sono legate l’una all’altra. Pensa di mantenere questa tecnica anche in futuro per altri lavori?

«Non credo. È come se le foto fossero legate ai libri degli Speciali, non ai miei libri in generale. È abbastanza limitante dover trovare foto per così tanti elementi nelle storie: è stata una sfida divertente incorporar­le ma dopo dieci anni sono pronto per un po’ più di libertà!». Conosce scrittori italiani attuali o passati?

«Elena Ferrante e Umberto Eco. Poi Dante, ovviamente: ho seguito un corso al college in cui abbiamo letto Inferno, Purgatorio e Paradiso. Assolutame­nte affascinan­te».

Le piace anche il genere horror, vero? Come scrittore ama spaventare un po’ il lettore...

«Sì. Mi piacciono le storie spaventose ma non l’horror come regola generale. Amo essere spaventato e mi piacciono le storie che fanno capolino nell’aldilà ma non ho alcun interesse per il sangue fine a sé stesso. Penso che i modi per spaventare i lettori siano vecchi quanto la finzione stessa: la rivelazion­e lenta e piena di suspense di qualcosa che gratta nell’oscurità, l’ignoto. E poi il lasciar trapelare le informazio­ni importanti con il contagocce, poco per volta». Che tipo di ragazzo era?

«Un bravo ragazzo. Molto normale, almeno da fuori! Ho incanalato la mia particolar­ità nelle storie che ho scritto. Mi piaceva scrivere, anche da giovane. Da bambino la lettura preferita era Il giardino segreto, il mio modello di una storia fantasy, anche se non c’è alcuna magia». Se potesse essere un «ragazzo speciale» quali abilità vorrebbe avere?

«Sono un fotografo amatoriale da anni e vedo sempre le fotografie che vorrei fare quando non ho una macchina a portata di mano o, se lo ce l’ho con me, la foto che immagino svanisce o cambia così in fretta e che non riesco a catturarla. La mia capacità come Speciale sarebbe avere una fotocamera incorporat­a negli occhi da attivare sempliceme­nte sbattendo le palpebre». E se, invece, potesse rinascere in quale periodo storico vorrebbe vivere?

«Molte epoche del passato mi spaventano per un motivo o l’altro. Ci sono momenti che mi piacerebbe visitare, questo sì: l’Inghilterr­a vittoriana, Los Angeles negli anni Trenta. Ma non vorrei vivere altrove che in questo momento». Ha già progetti per il futuro?

«Presto arriverà un regalo per i fan dei ragazzi Speciali. Poi sto lavorando a una serie di libri completame­nte nuova». Con che cosa scrive di solito?

«Un computer Macintosh. Ho una macchina da scrivere, ma è più un pezzo di arredament­o che qualcosa che uso. A volte scrivo a mano su quaderni, ma la mia calligrafi­a è pessima, ho difficoltà a decifrare le mie stesse parole». Quante foto possiede? Ricorda la prima?

«Qualche migliaio. La prima era di una ragazzina sorridente, somigliava a qualcuno per cui avevo una cotta al campo estivo: avevo 14 anni, l’ho tenuta nella mia stanza per un po’, e alla fine l’ho voltata e ho trovato sul retro una scritta. Diceva: “Dorothy, quattordic­i anni, è morta di leucemia nel 1935”. Mi ha fatto sentire come se stessi vivendo con un fantasma e mi ha mostrato il potere delle vecchie fotografie». Come ha vissuto e sta vivendo la pandemia?

«Abitiamo in California, uno tra i primi Stati degli Usa a chiudere completame­nte. Non viviamo in città, per fortuna: abbiamo avuto un po’ di spazio verde e la possibilit­à di muoverci. Ci manca incontrare gli amici e non vedo mia madre che vive in Florida da più di un anno. È dura, ma avrebbe potuto essere peggio». Ha una figlia, 4 anni: cosa teme del futuro?

«Il cambiament­o climatico. Desidero tanto che il mondo che lei erediterà assomigli a quello in cui sono cresciuto. Temo che non sarà così».

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Rendering 3d di Marco Maggioni - CdS

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