Corriere della Sera - La Lettura
Nostro signore del teatro Il secolo di Strehler
Un anno fa, durante l’inviolabile lockdown di primavera, Chiara Alessi postò su Twitter brevi capitoli di «Design in pigiama»: piccoli video girati in casa dedicati ai manufatti più gloriosi dell’era più gloriosa del design industriale italiano. Ora quei brani sono diventati «un altro» libro, «Tante care cose», uguale ma molto diverso, urgente e vitale. Una storia di «cose». Di chi le ha fatte. Di chi le ha usate. Una storia di tutti noi
Quando, nella primavera scorsa, Chiara Alessi cominciò a postare su Twitter i suoi capitoli di Design in pigiama ,si accese una luce. Si trattava di brevi video girati dentro casa col telefonino e dedicati agli oggetti più gloriosi dell’era più gloriosa del disegno industriale italiano, a volte visibili essi stessi, più spesso rappresentati in fotografia su pagine di libro e di rivista. In quei video Chiara Alessi raccontava brevemente la storia o le storie che avevano portato alla loro nascita, e quasi sempre erano storie entusiasmanti, come entusiasmante era il periodo storico coperto dalle sue brevi lezioni: il secondo dopoguerra del secolo scorso, portatore dell’ultimo grande magistero artistico italiano di rilevanza internazionale, che a sua volta ha portato al primo (e di nuovo anche l’ultimo, ahimè) momento di vera supremazia industriale italiana nel mondo.
Era una piccola luce, certo, soprattutto se paragonata alla lugubre oscurità nella quale eravamo tutti sprofondati: ma non ci fu dubbio, fin dal primo capitolo, dedicato alla Fiat 500 disegnata da Dante Giacosa, non ci fu il minimo dubbio che si trattasse per l’appunto di luce, luce pura, che lampeggiava in quel buio. D’altronde, la luce non è necessario inventarla — l’hanno già inventata da un pezzo: la luce basta portarla, o anche solo semplicemente accenderla, là dove non c’è, o dove è spenta, e perciò dove ce n’è bisogno. L’anno scorso, in primavera, in pieno lockdown, c’era un bisogno disperato di luce, e qualcuno pensò di portarla, di accenderla: la luce blu che circondava Papa Francesco nella piazza San Pietro vuota e metafisica; la lunga mareggiata di 18 minuti rilasciata in tutto il mondo da Bob Dylan con la pubblicazione di Murder Most Foul; la decisione di Espn di anticipare la messa in onda di The Last Dance prevista per l’autunno.
Questi sono stati i fari — potentissimi eppure ancora futili in confronto al paesaggio che rischiaravano; poi ci sono state le luci più piccole, meno universali, che pure trapuntavano quel buio panorama, e i 90 capitoli di Design in pigiama postati da Chiara Alessi su Twitter tra l’8 marzo e il 31 maggio dello scorso anno sono stati per l’appunto una di esse. Aveva un suo stile, quella rubrica, e un suo gusto, che risultavano contagiosi, esattamente come gli oggetti di cui si occupava; era una promessa che, ogni giorno mantenuta, riscaldava un poco i nostri giorni diacci; e c’era un equilibrio prodotto dal contrasto tra la gloria di quegli oggetti (il Design) e la casalinghitudine del contesto (il pigiama) che rappresentava la vera invenzione dell’autrice — la dinamo che portava la luce. Dopodiché, come dinanzi a qualunque vera opera, in ognuno scattava il suo proprio modo di godersela: per me era una specie di macchina del tempo che mi riportava indietro di quarant’anni alle lezioni di Indirizzi dell’architettura moderna e di Storia del design — ma alla fin fine altro non erano che lezioni di Semiologia applicata — tenute nei primi anni Ottanta all’Università di Firenze da Giovanni Klaus Koenig — che Dio l’abbia in gloria. E non è poco, per me, non è davvero poco.
Be’, io non so quanti utenti di Twitter si siano, come me, assuefatti a quella luce, l’anno scorso, e non frequentando altri social media non so dire se la rubrica fosse contemporaneamente a disposizione anche degli utenti di Instagram e di Facebook, trovando così il modo di ampliare il proprio pubblico come meritava: so che quando Chiara Alessi ha smesso di fare Design in pigiama ho dovuto fare un certo sforzo per riabituarmi a un tempo che non lo contenesse. E come tutti, ho pensato al libro. Ho pensato che quell’esperienza così volatile e legata a un periodo tragico poteva essere fissata su carta in maniera forse più ordinaria ma certo anche più fruibile e duratura. Ho pensato a questo e, come tutti, ho sbagliato.
Perché un libro alla fine è uscito, co
me no: s’intitola Tante care cose. Gli oggetti che ci hanno cambiato la vita ,e parla sì di oggetti e della loro storia, di chi li ha inventati e di chi li ha prodotti, ma — altro colpo di luce, un anno dopo — non degli stessi oggetti. O meglio ancora, gli oggetti sono sì quasi tutti gli stessi, con l’innesto di pochi altri e il taglio di una trentina di quelli raccontati su Twitter, in un’operazione però di riassortimento e ricomposizione che ha completamente sventato il pericolo che il libro diventasse uno showroom — portatrice, come tutti gli showroom, della fatale domanda che dopo pochi minuti ti si stampa in fronte come un fumetto: «Ma io che ci faccio, qui?».
Al contrario, con questa diversa composizione il libro risulta mosso da un’urgenza diversa e da una diversa vitalità; l’iconografia è ricondotta agli schizzi a matita di Paolo D’Altan, molto suggestivi perché incontrano il momento seminale di ciascuno degli oggetti raccontati, quello in cui si è dischiuso l’uovo che conteneva l’idea; e accanto ad alcune celebrità del design italiano come la Parentesi di Castiglioni e Manzù, le Bambole di Mario Bellini o la poltrona Sacco di Gatti, Teodoro e Paolini, figurano in maggioranza oggetti molto meno celebrati, la cui genialità è stata offuscata dall’uso quotidiano che ne è stato fatto, ovunque, da più generazioni, in ragione di un successo pazzesco che però non ha mai portato nessuno a chiedersi quelle cose chi le avesse inventate.
E sta qui, a mio avviso, nel downgrade verso l’uso comune, che questo libro trova profondità: grande design, sì, e dunque nomi di grandi designer finalmente e meritatamente snocciolati uno dopo l’altro a rammentare il loro passaggio su questa terra (Magistretti, Bellini, Mari, Sottsass, Piretti, Sapper, Zanuso, Gino Valle, Munari, Castiglioni, D’Ascanio, Giugiaro... ci sono veramente tutti); e altrettanto meritatamente e finalmente snocciolati anche i nomi degli industriali che quelle cose le hanno messe in produzione (le cui storie a volte sono anche più interessanti di quelle dei designer), ma soprattutto cose comuni veramente carissime, che come cavalli scossi del Palio di Siena hanno attraversato i decenni senza portarsi dietro il nome del loro creatore.
È qui che il libro si accende di una luce diversa rispetto a quella accesasi su Twitter un anno fa; è qui che tocca e commuove e risveglia e mette in relazione come solo i libri possono fare. Il libro diventa sé stesso, in pratica, e diventa necessario, quando tutti gli onori tributati al grande design italiano vengono dirottati sulla palla da biliardo (autore ignoto), sulla cedrata Tassoni, sul Bacio Perugina (chi sapeva che è stato creato
Eccola, la cosa regina di questa Spoon River di oggetti che ci hanno cambiato la vita: la
biglia da spiaggia con le foto
dei ciclisti. E poi i Baci Perugina ,l’ autogrill ,i Moon Boot...
da Luisa Spagnoli e da Giovanni Buitoni?), sull’autogrill (inventato direttamente da Mario Pavesi, figlio di panettiere), sulla spillatrice Zenith (Aldo Balma da Voghera, produttore, caro Arbasino, di casalinghi), sui Chiodini Quercetti (una delle storie più belle), sui palloni Super Santos, Super Tele e Tango Hotplay (una minuscola azienda di Gallo d’Alba), sui Moon Boot (l’imprenditore Paolo Zanatta), fino alla cosa regina, secondo me, di questa Spoon River di «oggetti che ci hanno cambiato la vita»: la biglia da spiaggia con la foto del ciclista dentro.
Ecco, diversamente dal racconto che pure ne era stato fatto nei video su Twitter, fissata nel suo mistero da un testo di due smilze paginette, illustrato da disegni per fare i quali non bisogna nemmeno essere bravi come D’Altan, la biglia da spiaggia inventata dalla Nuova Dolciaria è il simbolo di questo libro che dalla forma originaria di repertorio ragionato diventa, a pagina 194, addirittura un romanzo. Senza nostalgia (quella, se vuole, ce la mette il lettore), senza reminiscenze (idem), ma con un vento che a questo punto si fa veramente impetuoso e travolgente, ed è un vento tutto nostro di noi lettori, e dove soffia questo vento c’è sempre il romanzo, perché è un vento che si chiama destino. Degli oggetti, di chi li ha fatti, di chi li ha usati, di noi tutti.
Sì, Tante care cose alla fine diventa un romanzo degli oggetti come anche Francis Ponge, e Borges, e Umberto Eco, e Gadda, e George Perec hanno realizzato: loro, scalando la montagna dal versante proibitivo della propria lingua, come il Barone di Münchausen che si aggrappa al suo stesso codino; Chiara Alessi, molto più umilmente, andando verso le cose e scalandola dal versante delle loro storie, recuperate e raccontate e composte con l’attenzione di un progettista. La vetta, tanto, è la stessa — ed è solo raggiungendola che si arriva a sentire quel vento.
Questo libro non dovrebbe mancare in nessuna casa italiana, penso io.