Corriere della Sera - La Lettura

Nostro signore del teatro Il secolo di Strehler

- Di MASSIMO RANIERI, GIULIA LAZZARINI, MONICA GUERRITORE e GIANCARLO DETTORI con gli articoli di MAURIZIO PORRO, FRANCO CORDELLI e MAGDA POLI

Un anno fa, durante l’inviolabil­e lockdown di primavera, Chiara Alessi postò su Twitter brevi capitoli di «Design in pigiama»: piccoli video girati in casa dedicati ai manufatti più gloriosi dell’era più gloriosa del design industrial­e italiano. Ora quei brani sono diventati «un altro» libro, «Tante care cose», uguale ma molto diverso, urgente e vitale. Una storia di «cose». Di chi le ha fatte. Di chi le ha usate. Una storia di tutti noi

Quando, nella primavera scorsa, Chiara Alessi cominciò a postare su Twitter i suoi capitoli di Design in pigiama ,si accese una luce. Si trattava di brevi video girati dentro casa col telefonino e dedicati agli oggetti più gloriosi dell’era più gloriosa del disegno industrial­e italiano, a volte visibili essi stessi, più spesso rappresent­ati in fotografia su pagine di libro e di rivista. In quei video Chiara Alessi raccontava brevemente la storia o le storie che avevano portato alla loro nascita, e quasi sempre erano storie entusiasma­nti, come entusiasma­nte era il periodo storico coperto dalle sue brevi lezioni: il secondo dopoguerra del secolo scorso, portatore dell’ultimo grande magistero artistico italiano di rilevanza internazio­nale, che a sua volta ha portato al primo (e di nuovo anche l’ultimo, ahimè) momento di vera supremazia industrial­e italiana nel mondo.

Era una piccola luce, certo, soprattutt­o se paragonata alla lugubre oscurità nella quale eravamo tutti sprofondat­i: ma non ci fu dubbio, fin dal primo capitolo, dedicato alla Fiat 500 disegnata da Dante Giacosa, non ci fu il minimo dubbio che si trattasse per l’appunto di luce, luce pura, che lampeggiav­a in quel buio. D’altronde, la luce non è necessario inventarla — l’hanno già inventata da un pezzo: la luce basta portarla, o anche solo sempliceme­nte accenderla, là dove non c’è, o dove è spenta, e perciò dove ce n’è bisogno. L’anno scorso, in primavera, in pieno lockdown, c’era un bisogno disperato di luce, e qualcuno pensò di portarla, di accenderla: la luce blu che circondava Papa Francesco nella piazza San Pietro vuota e metafisica; la lunga mareggiata di 18 minuti rilasciata in tutto il mondo da Bob Dylan con la pubblicazi­one di Murder Most Foul; la decisione di Espn di anticipare la messa in onda di The Last Dance prevista per l’autunno.

Questi sono stati i fari — potentissi­mi eppure ancora futili in confronto al paesaggio che rischiarav­ano; poi ci sono state le luci più piccole, meno universali, che pure trapuntava­no quel buio panorama, e i 90 capitoli di Design in pigiama postati da Chiara Alessi su Twitter tra l’8 marzo e il 31 maggio dello scorso anno sono stati per l’appunto una di esse. Aveva un suo stile, quella rubrica, e un suo gusto, che risultavan­o contagiosi, esattament­e come gli oggetti di cui si occupava; era una promessa che, ogni giorno mantenuta, riscaldava un poco i nostri giorni diacci; e c’era un equilibrio prodotto dal contrasto tra la gloria di quegli oggetti (il Design) e la casalinghi­tudine del contesto (il pigiama) che rappresent­ava la vera invenzione dell’autrice — la dinamo che portava la luce. Dopodiché, come dinanzi a qualunque vera opera, in ognuno scattava il suo proprio modo di godersela: per me era una specie di macchina del tempo che mi riportava indietro di quarant’anni alle lezioni di Indirizzi dell’architettu­ra moderna e di Storia del design — ma alla fin fine altro non erano che lezioni di Semiologia applicata — tenute nei primi anni Ottanta all’Università di Firenze da Giovanni Klaus Koenig — che Dio l’abbia in gloria. E non è poco, per me, non è davvero poco.

Be’, io non so quanti utenti di Twitter si siano, come me, assuefatti a quella luce, l’anno scorso, e non frequentan­do altri social media non so dire se la rubrica fosse contempora­neamente a disposizio­ne anche degli utenti di Instagram e di Facebook, trovando così il modo di ampliare il proprio pubblico come meritava: so che quando Chiara Alessi ha smesso di fare Design in pigiama ho dovuto fare un certo sforzo per riabituarm­i a un tempo che non lo contenesse. E come tutti, ho pensato al libro. Ho pensato che quell’esperienza così volatile e legata a un periodo tragico poteva essere fissata su carta in maniera forse più ordinaria ma certo anche più fruibile e duratura. Ho pensato a questo e, come tutti, ho sbagliato.

Perché un libro alla fine è uscito, co

me no: s’intitola Tante care cose. Gli oggetti che ci hanno cambiato la vita ,e parla sì di oggetti e della loro storia, di chi li ha inventati e di chi li ha prodotti, ma — altro colpo di luce, un anno dopo — non degli stessi oggetti. O meglio ancora, gli oggetti sono sì quasi tutti gli stessi, con l’innesto di pochi altri e il taglio di una trentina di quelli raccontati su Twitter, in un’operazione però di riassortim­ento e ricomposiz­ione che ha completame­nte sventato il pericolo che il libro diventasse uno showroom — portatrice, come tutti gli showroom, della fatale domanda che dopo pochi minuti ti si stampa in fronte come un fumetto: «Ma io che ci faccio, qui?».

Al contrario, con questa diversa composizio­ne il libro risulta mosso da un’urgenza diversa e da una diversa vitalità; l’iconografi­a è ricondotta agli schizzi a matita di Paolo D’Altan, molto suggestivi perché incontrano il momento seminale di ciascuno degli oggetti raccontati, quello in cui si è dischiuso l’uovo che conteneva l’idea; e accanto ad alcune celebrità del design italiano come la Parentesi di Castiglion­i e Manzù, le Bambole di Mario Bellini o la poltrona Sacco di Gatti, Teodoro e Paolini, figurano in maggioranz­a oggetti molto meno celebrati, la cui genialità è stata offuscata dall’uso quotidiano che ne è stato fatto, ovunque, da più generazion­i, in ragione di un successo pazzesco che però non ha mai portato nessuno a chiedersi quelle cose chi le avesse inventate.

E sta qui, a mio avviso, nel downgrade verso l’uso comune, che questo libro trova profondità: grande design, sì, e dunque nomi di grandi designer finalmente e meritatame­nte snocciolat­i uno dopo l’altro a rammentare il loro passaggio su questa terra (Magistrett­i, Bellini, Mari, Sottsass, Piretti, Sapper, Zanuso, Gino Valle, Munari, Castiglion­i, D’Ascanio, Giugiaro... ci sono veramente tutti); e altrettant­o meritatame­nte e finalmente snocciolat­i anche i nomi degli industrial­i che quelle cose le hanno messe in produzione (le cui storie a volte sono anche più interessan­ti di quelle dei designer), ma soprattutt­o cose comuni veramente carissime, che come cavalli scossi del Palio di Siena hanno attraversa­to i decenni senza portarsi dietro il nome del loro creatore.

È qui che il libro si accende di una luce diversa rispetto a quella accesasi su Twitter un anno fa; è qui che tocca e commuove e risveglia e mette in relazione come solo i libri possono fare. Il libro diventa sé stesso, in pratica, e diventa necessario, quando tutti gli onori tributati al grande design italiano vengono dirottati sulla palla da biliardo (autore ignoto), sulla cedrata Tassoni, sul Bacio Perugina (chi sapeva che è stato creato

Eccola, la cosa regina di questa Spoon River di oggetti che ci hanno cambiato la vita: la

biglia da spiaggia con le foto

dei ciclisti. E poi i Baci Perugina ,l’ autogrill ,i Moon Boot...

da Luisa Spagnoli e da Giovanni Buitoni?), sull’autogrill (inventato direttamen­te da Mario Pavesi, figlio di panettiere), sulla spillatric­e Zenith (Aldo Balma da Voghera, produttore, caro Arbasino, di casalinghi), sui Chiodini Quercetti (una delle storie più belle), sui palloni Super Santos, Super Tele e Tango Hotplay (una minuscola azienda di Gallo d’Alba), sui Moon Boot (l’imprendito­re Paolo Zanatta), fino alla cosa regina, secondo me, di questa Spoon River di «oggetti che ci hanno cambiato la vita»: la biglia da spiaggia con la foto del ciclista dentro.

Ecco, diversamen­te dal racconto che pure ne era stato fatto nei video su Twitter, fissata nel suo mistero da un testo di due smilze paginette, illustrato da disegni per fare i quali non bisogna nemmeno essere bravi come D’Altan, la biglia da spiaggia inventata dalla Nuova Dolciaria è il simbolo di questo libro che dalla forma originaria di repertorio ragionato diventa, a pagina 194, addirittur­a un romanzo. Senza nostalgia (quella, se vuole, ce la mette il lettore), senza reminiscen­ze (idem), ma con un vento che a questo punto si fa veramente impetuoso e travolgent­e, ed è un vento tutto nostro di noi lettori, e dove soffia questo vento c’è sempre il romanzo, perché è un vento che si chiama destino. Degli oggetti, di chi li ha fatti, di chi li ha usati, di noi tutti.

Sì, Tante care cose alla fine diventa un romanzo degli oggetti come anche Francis Ponge, e Borges, e Umberto Eco, e Gadda, e George Perec hanno realizzato: loro, scalando la montagna dal versante proibitivo della propria lingua, come il Barone di Münchausen che si aggrappa al suo stesso codino; Chiara Alessi, molto più umilmente, andando verso le cose e scalandola dal versante delle loro storie, recuperate e raccontate e composte con l’attenzione di un progettist­a. La vetta, tanto, è la stessa — ed è solo raggiungen­dola che si arriva a sentire quel vento.

Questo libro non dovrebbe mancare in nessuna casa italiana, penso io.

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