Corriere della Sera - La Lettura
Viaggio tra i tesori che Roma abbandona
Viaggio negli inferi dell’incuria in una Capitale che ha perso il conto dei propri tesori, divorati dall’abbandono e da progetti annunciati e mai partiti oppure avviati e mai portati a termine. Come «la Lettura» racconta in parole e immagini, non viene risparmiato nulla: non i ritrovamenti d’epoca romana né le testimonianze medievali, non capolavori rinascimentali né il Barocco, neppure l’archeologia industriale o il contemporaneo. Decenni di occasioni perdute. Nessuno è innocente perché lo spreco di denaro e il degrado a livello di proprietà e responsabilità coinvolgono tutti: Stato, Regione, Comune, enti, privati cittadini, ogni forza politica
C’è l’archeologia, la torre medievale, la villa del Rinascimento, l’edificio barocco, il casale-gioiello del Settecento. C’è la coffeehouse neoclassica dove si rilassava l’ultimo re d’Italia. C’è, ovviamente, la cosiddetta archeologia industriale. E ovunque un Novecento dimenticato, opera di grandi maestri dell’architettura come Adalberto Libera o Pier Luigi Nervi. C’è, infine, il sogno (interrotto) di una contemporaneità proiettata in un futuro che, però, non hai mai visto la luce. Progetti costati centinaia di milioni di euro di soldi pubblici e diventati ruderi ancora prima di esistere.
È l’altra faccia della Grande bellezza, quella di una Roma capitale che tra i mille vanti conta anche decine e decine di abbandoni di beni culturali di straordinario pregio, quelli per i quali — a dispetto di tante parole, progetti, investimenti — oggi, primavera 2021, l’unico comune denominatore è la chiusura, l’inaccessibilità, il degrado e quel ricorrente cartello giallo, incessante Leitmotiv, con scritto «pericolo di crollo». Un degrado che al livello di proprietà e responsabilità coinvolge tutti: Stato, Regione, Comune, enti, privati cittadini. E che parte da lontano: talmente lontano che a raccontarlo non si corre il rischio di incorrere in faziosità partitiche, considerando che negli ultimi decenni si sono avvicendate, alla guida del governo nazionale e della città, praticamente tutte le forze politiche.
Il centro storico
Ed ecco le tappe principali di questo viaggio negli inferi dell’incuria. Iniziando dal centro storico e arrivando a toccare ogni periferia. Prima stazione: l’Antiquarium comunale, sul colle Celio, edificio affacciato sul Palatino da cui sembra di poter toccare il Colosseo, lì accanto. Divorato dalle crepe, soffocato dai rampicanti, tanto è centrale quanto ormai quasi invisibile ai passanti. Nato in epoca fascista per esporre qui i materiali archeologici ritrovati durante gli sventramenti nei dintorni, l’Antiquarium fu inaugurato nel 1929. Dieci anni dopo, i lavori per la costruzione della prima metropolitana della città provocarono dei danni. Da allora sono passati 82 anni, ma l’Antiquarium è ancora lì, inagibile da sempre, mai più riaperto: né abbattuto né ristrutturato. A lungo ricovero per sbandati d’ogni sorta, oggetto di furti clamorosi, oggi è un tugurio isolato da una doppia recinzione. I reperti da tempo sono stati trasferiti altrove. Non tutti però. Sul prato antistante la costruzione fatiscente, adagiati sull’erba con lo sguardo rivolto al cielo di Roma, giacciono centinaia di frammenti architettonici, rocchi di colonne, capitelli, statue. Una Spoon River di marmi dal
l’età romana all’epoca moderna, trasferiti lì dalla Villa Caffarelli e in attesa di una futura destinazione.
Basta spostarsi di pochi metri per trovare quel che resta di un altro gioiello, cinquecentesco stavolta: il Palazzo Rivaldi affacciato sui Fori. È in stato di totale abbandono da decenni, con gli stessi ponteggi, messi qua e là, divenuti ruderi essi stessi. Tanti, nel corso del tempo, gli annunci. L’ultimo, quello del ministro della Cultura, Dario Franceschini, relativo a uno stanziamento pari a 35 milioni per il recupero e la destinazione museale dell’edificio. Per ora di lavori non c’è traccia. Né (come da cartelli) sembrano mai iniziati altri interventi che invece dovevano essere già finiti. Oggi l’edificio, progettato nel 1536 da Antonio da Sangallo — il primo di una lunga serie di grandi nomi che si incontrano in questo cahier de
doléances — per Eurialo Silvestri, cameriere segreto di Papa Paolo III, è un immenso relitto carico di storia, passato ai de’ Medici, poi ai Colonna, divenuto «Conservatorio delle Zitelle Mendicanti» e infine, dopo un’occupazione nel XX secolo, transitato tramite la Ipab Santa Maria in Aquiro alla Regione Lazio. Oltre 5 mila metri quadrati e un giardino pensile trasformato in cantiere per la metro C, da cui sono scomparsi, nel tempo, affreschi, mosaici, camini...
Solo una manciata di passi separano Palazzo Rivaldi dalla medievale Torre dei Conti, citata da Petrarca e Vasari e posta in un incrocio cardine dell’Urbe, direttamente sull’ingresso del Foro. Anche qui chiusura prolungata, transenne, reti. Stesso scenario che si ritrova, poco lontano, nell’altrettanto storico Palazzo Nardini di via del Governo Vecchio, strada che prende il nome proprio dall’antica funzione di questo edificio, che fu anche sede del governo della città. Più che di un palazzo, fatto erigere dal «cardinale di Milano» Stefano Nardini (14201484), si tratta di un’immensa cittadella, con tanto di piazzale all’interno, che abbraccia un intero quadrante di Roma. Un capolavoro del XV secolo che la Regione ha da poco venduto (per 18 milioni), non senza polemiche e dopo investimenti pubblici per il rifacimento di solai e altri lavori, a una società immobiliare. Vendita che il Tar ha prima annullato ma che il Consiglio di Stato ha poi avallato in secondo grado. A lungo si parlò di una destinazione culturale (biblioteca, museo). Ora, stando ai si dice, si ipotizza una destinazione residenziale, comunque di non facile realizzazione per un palazzo plurivincolato. E che infatti al momento se ne sta lì (nessuna traccia di lavori), con le finestre sfondate, l’originale portone dal bugnato divelto e un’eco lontanissima degli antichi fasti cardinalizi.
Via del Corso e il Tridente
La sindrome dell’abbandono, a Roma, non risparmia nemmeno la sua strada-simbolo, via del Corso. Basta imboccarla da piazza del Popolo per imbattersi, subito a sinistra, nel simulacro dell’ex cinema Metropolitan, una delle tante sale sparite, chiuso da più di dieci anni e per il quale l’ultimo annuncio di un recupero da parte del Comune è ormai datato. Nulla, quanto ad assurdità, se paragonato all’attiguo (ex) Ospedale San Giacomo degli Incurabili, che ha le dimensioni di una reggia e dal corso giunge quasi al Tevere, lungo la strada intitolata a Canova e fino a via di Ripetta. Definirlo un edifico storico è perfino riduttivo: nato nel 1339, è stato in funzione per 670 anni, fino alla notte dell’11 agosto 2018, quando la Regione decise di chiuderlo. Si pensò a una privatizzazione (destinazione: albergo di lusso) ma da allora è iniziata un’intricata vicenda — giudiziaria, burocratica, politica, culturale — che pare uscita dalla penna di uno scrittore e invece è realtà. Spuntò infatti il testamento cinquecentesco del cardinale Antonio Maria Salviati, colui che promosse imponenti lavori di rifacimento dell’ospedale, specializzato allora nella cura del «mal francese», la sifilide. Un documento con relativo divieto di
alienazione del bene e vincolo di destinazione d’uso a nosocomio. Olivia Salviati, indomita discendente del porporato, guida da anni la protesta in difesa del San Giacomo (con le sue mille citazioni, dalle poesie di Belli al film Umberto D. di Vittorio De Sica). Protesta che coinvolge associazioni, cittadini, uomini di cultura. Tanti passaggi, fino a quello recente — 7 aprile scorso — quando il Consiglio di Stato ha dichiarato l’illegittimità della chiusura dell’ospedale. Che ora, disastrato, dovrà tornare a essere quello che è stato per sette secoli.
Villa Borghese, il Pincio, Villa Ada
Dieci minuti di cammino separano il derelitto San Giacomo dal verde storico di Villa Borghese, dove la caccia all’abbandono trova, da sempre, facili prede: balaustre divelte, nicchie sfondate, il mancato utilizzo di meraviglie architettoniche come la Meridiana, fino al gioco dei «decapitati» celebri, un classico delle cronache del Pincio, panoramico giardino che conserva i busti di uomini famosi della storia: giorno che vai, senza testa che trovi. Un destino oggi condiviso, fra i tanti, da Giulio Cesare e Ludovico Ariosto, in buona compagnia con due edifici che hanno tutte le caratteristiche della casa degli orrori da luna park: il vecchio ascensore degli anni Venti,
che permetteva la risalita dal viale del Muro Torto (in disuso dal 1960), e l’ottocentesco Padiglione di Caccia, ridotto a scheletro.
Se Villa Borghese non ride, Villa Ada, ex Savoia — altro immenso parco storico della città (quasi 200 ettari) — piange l’inarrestabile declino di molti suoi edifici, tra cui le ex Scuderie Reali e il delizioso Tempio di Flora. Delle prime, per le quali negli anni si sono sprecati i progetti — da Museo del giocattolo a Casa della moda — e che hanno l’aria di star per crollare da un momento all’altro, restano quasi solo le teste equine scolpite all’ingresso e un malandato stemma della Casa reale. Anche il secondo, delizia neoclassica dove fino ai tempi di Vittorio Emanuele III si serviva il tè e si ricevevano gli ospiti, nonostante alcuni lavori condotti in occasione del Giubileo del 2000, cade a pezzi: è diventato terra di nessuno con inevitabile corredo di crepe, sfondamenti, writing.
Nel Tempio di Flora si serviva il tè per i Savoia ma tutto cade a pezzi nonostante i lavori per il Giubileo. E «Beirut»? Sta all’Eur
Verano e Termini
Al destino di un’incuria prolungata non sfugge nemmeno il cimitero monumentale di Roma, il Verano. Una tomba, in particolare, fra le tante, può essere presa a simbolo: quella del cardinale Alessandro Franchi, Segretario di Stato vaticano, uno tra i più importanti esponenti della Chiesa del XIX secolo. Morto nel 1878, poco dopo la fine del Regno pontificio, fu sepolto nel «giova
ne» cimitero, in quella che per posizione e fasto architettonico è certamente una delle tombe più importanti: oggi irriconoscibile, pericolante, soffocata dai rampicanti, con le finiture scultoree (di Emilio Dies) erose dal tempo e vecchi ponteggi di un restauro mai iniziato mangiati dalla ruggine e ormai confusi con la natura.
Sono tanti, ancora, gli esemplari di pregio della città in rovina lungo l’asse che dal centro, attraversandolo, porta a nord: c’è la Casa del Passeggero di fronte alla Stazione Termini, costruita negli anni Venti del Novecento dall’architetto Oriolo Frezzotti, in stile déco, con eleganti sculture all’ingresso. Serviva, in un mondo ormai sparito, per i viaggiatori di passaggio offrendo servizi di doccia, bagni, aree di ristoro e persino di dattilografia. Si vede anche in tanti film, vanta numerose citazioni letterarie ed è abbandonata dal 1967, proprietà dell’Istituto Romano San Michele, Istituzione Pubblica di Assistenza e Beneficenza (Ipab) dall’immenso patrimonio.
Da Valle Giulia al Flaminio
C’è anche l’intera ala di un museo statale, la Galleria nazionale d’arte moderna. Un ampliamento progettato nel 1965 e realizzato dall’architetto Luigi Cosenza, uno dei grandi nomi del razionalismo italiano, alle spalle dell’edificio principale. Doveva essere abbattuto a favore di un nuovo progetto (2000) dello studio svizzero Diener & Diener. Abolito quello (con corollario di problemi giudiziari), nel 2016 si è annunciato l’avvio del ripristino dell’opera di Cosenza con 15 milioni di euro messi a disposizione dal governo tramite il Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica). Ma a distanza di 5 anni il vecchio padiglione Cosenza è ancora lì. Un triste destino condiviso con due opere costruite per l’Olimpiade del 1960, non poi così lontane, che portano entrambe la firma di Pier Luigi Nervi, di proprietà comunale e annoverate tra i gioielli dell’architettura moderna: il Palazzetto dello Sport, chiuso dal 2018 e preda di numerosi atti di vandalismo, e soprattutto lo Stadio Flaminio. Per entrambe le strutture non si contano annunci e progetti, anche recenti, sulla possibilità (tutta da verificare) di accedere al recovery fund (si è parlato di 80 milioni di euro per il recupero). Il Flaminio soprattutto — in cemento armato, con una futuristica pensilina aggettante di 14 metri, costruito in un anno e mezzo dopo l’abbattimento dello Stadio Torino di Marcello
Piacentini e ammirato in una storica visita anche da Le Corbusier — versa da oltre 10 anni in uno stato pietoso: terra di sbandati, roghi e giacigli per senzatetto.
Testaccio e Ostiense
Per uno stadio messo male, un altro che non c’è, non esiste: al suo posto una voragine che nei giorni di pioggia si trasforma in acquitrino. Nel 2011 avrebbero dovuto concludersi i lavori per un parcheggio interrato, mai nemmeno iniziati. Si tratta del Campo Testaccio, primo stadio della Roma calcio dal 1929 al 1940, abbattuto e in attesa di riutilizzo da sempre, un luogo simbolico per la memoria sportiva dei cittadini, ora al centro di un annunciato progetto di riqualificazione — l’ennesimo — rimesso a un imprecisato futuro: «Lo storico Campo Testaccio tornerà a risplendere» (Virginia Raggi, sindaca di Roma, 1° aprile 2021). Ma tutto il vecchio rione Testaccio — area a vocazione archeo-industriale fin dai tempi della Roma pontificia — è comunque disseminato di abbandoni senza tempo. A partire dal suo complesso simbolo, l’ex Mattatoio progettato da Gioacchino Ersoch fra il 1888 e il 1891, solo in minima parte recuperato. L’edificio all’ingresso del complesso ad esempio — l’antico «Frigorifero» terminato nel 1914, uno dei primi realizzati a Roma in calcestruzzo armato — è ridotto a una larva. Anche il grande gazometro, parte dello skyline della città con i suoi 89 metri di altezza, langue nonostante mille ipotesi di riqualificazione, povero scheletro rugginoso. Stesso destino per l’attigua ex fabbrica Mira Lanza, sulla sponda destra del Tevere, complesso di edifici costruito dalla fine del XIX secolo, chiuso dalla metà degli anni Cinquanta, in larga parte abbandonato e inutilizzato, sovrastato da crolli, cumuli di immondizie alti come torri e occupato da insediamenti abusivi di rom.
Un disastro che assume proporzioni colossali — in un’area vastissima, 8 ettari, che arriva a lambire due diversi quartieri, Testaccio-Ostiense e Garbatella — negli Ex Mercati Generali, in funzione dal 1909 al 2002. Il «cratere», come lo hanno ribattezzato i romani, fu oggetto nel 2003 di un ambizioso progetto mai realizzato, una «Città dei giovani» affidata alla mano dell’architetto Rem Koolhaas che però poco dopo se la darà a gambe con una dichiarazione, filtrata dal suo studio e mai smentita, tanto lapidaria quanto esemplificativa: «Caos, corruzione». Qualche lavoro sulla facciata nel frattempo si è fatto ma il resto ancora oggi — dopo vent’anni di
stop & go, proclami, appalti, inchieste giudiziarie, varianti e cambi di delibere, l’ultima nel 2017, dopo quattro giunte coinvolte, da Veltroni a Raggi, e lo scioglimento di un Municipio — evoca uno scenario di guerra, con le macerie dei padiglioni invasi da una natura che ha ormai preso il sopravvento. Non solo erbacce, perfino un lago piovano dove sguazzano anatre e folaghe.
Eur e Portuense
La metafora della guerra, procedendo in direzione sudovest, ritorna a «Beirut»: ancora un soprannome, con il quale gli abitanti della Capitale hanno ribattezzato l’eterno cantiere delle (ex) Torri del ministero delle Finanze all’Eur, realizzate dall’architetto Cesare Ligini nel 1960. Alte 60 metri, simbolo di una Roma che si avviava a vivere il suo boom economico, furono «stamponate» dal loro caratteristico rivestimento in curtain wall e ridotte a scheletro. Da allora una ridda infinita di ipotesi di demolizione, progetti naufragati, tra cambi di proprietà e destinazione d’uso, immancabili inchieste giudiziarie e perfino un morto, nel 2015, una donna schiacciata dal crollo di un cancello. Nello stesso anno tramonta l’idea di trasformarle in quartier generale della Tim. Prima ancora (era sindaco Walter Veltroni), dovevano diventare una futuribile «Casa di vetro» con serre e residenze private, firmata Renzo Piano. L’ultimo annuncio, 2019, è dell’attuale proprietario del complesso, Cassa depositi e prestiti, che in 3 anni (ne sono passati più di 2) ha garantito la realizzazione di nuovi edifici direzionali green. «Beirut» per ora è ancora lì.
E lì, decrepita, se ne sta la magnifica Villa York, seicentesca magione che prende il nome dal cardinale Enrico di York, membro della famiglia reale Stuart, proprietario dal 1804. Una residenza immersa nell’agro intatto di un parco regionale, la Valle dei Casali, con monumentale scalea, ninfeo (o quel che ne resta) e lo sguardo che abbraccia l’orizzonte in lontananza fino alla cupola di San Pietro. Progettata da Pietro Paolo Drei e Carlo Rainaldi sulla sommità di un colle, depredata nel corso del tempo di arredi, camini, decorazioni, la villa faceva parte dell’«eredità» Federconsorzi, uno dei grandi crac finanziari del dopoguerra, archiviato nel 1991 con
un buco di migliaia di miliardi di lire. Per anni si è invocato l’esproprio pubblico (finanziato con 3 milioni e mezzo di euro ma «definanziato» nel 2009 dalla giunta di Gianni Alemanno). Quattro anni fa (2017) Villa York è stata venduta a un gruppo asiatico, senza che lo Stato esercitasse il diritto di prelazione da più parti auspicato. Oggi è sempre un rudere, senza traccia di un benché minimo intervento di recupero.
Tor Vergata e Tor di Valle
Il lungo viaggio che attraversa «secoli abbandonati» non risparmia nemmeno il futuro. Il caso più clamoroso è quello della cosiddetta «Vela» progettata nell’area di Tor Vergata dall’archistar spagnola Santiago Calatrava. L’opera pubblica fu pensata come «Città dello Sport» all’epoca della giunta Veltroni, progettata nel 2005 e con inizio cantiere nel 2007. Doveva essere pronta due anni dopo per i Mondiali di nuoto (che invece si fecero nel «vecchio» Foro Italico), con piscine, alloggi e altre strutture dedicate. I lavori, iniziati, non furono mai portati a termine, a fronte di una cifra spesa intorno ai 300 milioni, quintuplicata rispetto alle stime iniziali. Ancora oggi nel cantiere dell’immenso «cetaceo» bianco di ferro e cemento — alto 75 metri e visibile da quasi tutta la città
— oltre a siringhe e scritte vandaliche si trovano cavi d’acciaio penzolanti, secchi di vernice e altri materiali abbandonati dal 2009, scenario ideale per alcune riprese di serial come Suburra. Una cattedrale innalzata allo spreco, in una periferia irraggiungibile se non con mezzi privati, per cui ancora in questi giorni si ipotizza di tutto. Per farne cosa? Una «Città della conoscenza» (ma
green), il nuovo stadio della Roma, un (pare) imminente hub per vaccinazioni anti Covid. Il tutto con il miraggio, non si sa ancora quanto concreto, degli stanziamenti del Recovery fund, per un completamento che di milioni, stando alle stime, ne richiederebbe almeno altri 300. Per adesso l’ultima Legge di Bilancio ne ha previsti 25 per «la definizione dei contenziosi in essere con gli affidatari del progetto e dei lavori», più altri 3 milioni l’anno, fino al 2023, assegnati all’Agenzia del Demanio (cui è stata trasferita la proprietà dell’area) «ai fini della manutenzione, ordinaria e straordinaria, delle opere realizzate e della messa in sicurezza dell’area, in vista del recupero funzionale delle opere». Appunto, in vista.
Altro simbolo di un tempo sospeso nel nulla — dove pare impossibile andare avanti, a meno di investimenti ingenti sia pubblici sia privati, ma anche tornare indietro, con abbattimenti e smaltimenti altrettanto costosi e resi difficoltosi da regimi vincolistici — è l’Ippodromo di Tor di Valle, lì dove fino a qualche mese si diceva sarebbe sorto il nuovo stadio della Roma, entità ormai quasi mitologica — chimera, fenice o cavallo alato — che ogni tanto spunta fuori nelle agende ma che ancora non si sa bene né dove né quando né se si farà. Costruito nel 1960 per l’Olimpiade, dismesso nel 2013, l’Ippodromo, tra i più grandi d’Europa, è inserito in un contesto naturalistico protetto (420 mila metri, su un’ansa del Tevere). Ed è vincolato come bene culturale, in particolare per quella pensilina aggettante considerata il più grande paraboloide iperbolico al mondo, opera dell’architetto Julio Lafuente. Un ex bellissimo edificio totalmente abbandonato, oggetto di una querelle giudiziaria infinita che ha visto anche l’arresto, nel 2018, del costruttore proprietario dei terreni, Luca Parnasi, ora libero e sotto processo per corruzione, in attesa di sentenza.
Dall’Appia a San Giovanni
I cartelli gialli «pericolo di crollo», come un ritornello costante, si ritrovano protagonisti sul perimetro del semi-sconosciuto (anche alla pubblicistica scientifica) edificio settecentesco immerso nel Parco dell’Appia Antica, uno dei contesti storico-archeologico-paesaggistici più suggestivi al mondo. Si tratta dei Bagni dell’Acqua Santa, stesso nome di uno dei più antichi circoli sportivi della Capitale, dedicato al golf, che bisogna attraversare per scoprire l’ancora oggi bellissimo caseggiato, con an
Il disastro continua in periferia e oltre, con il Triangolo Barberini, Villa Catena e le leggende sinistre dell’orfanotrofio alla Marcigliana
nessa chiesetta, sciaguratamente ridotto a simulacro cadente. Un’antica struttura termale, ora di proprietà privata (Fondazione Gerini), commissionata da Giovanni Angelo Braschi, al soglio Papa Pio VI, ristrutturata nel corso del XIX secolo e sottoposta a vincolo.
Lungo l’asse che da via Appia riporta verso la Basilica di San Giovanni e il centro città, altri due «relitti d’autore» meritano una menzione. Si tratta, in entrambi i casi, di stabili di proprietà del Campidoglio, inaccessibili e in uno stato di incuria perenne (che però non esclude il solito profluvio di progetti a scadenza, eternamente disattesi). I due edifici coevi — il vecchio cinema Airone di via Lidia e il garage multipiano con attiguo mercato coperto su via Magna Grecia — sono opera, rispettivamente, di due progettisti tra i più importanti del XX secolo: l’architetto Adalberto Libera e l’ingegnere Riccardo Morandi, lo stesso del ponte di Genova crollato nel 2018.
Realizzato nel cortile di un vasto complesso condominiale, in un’epoca, primi anni Cinquanta, in cui il «cinematografo» era un’attrattiva di massa, l’Airone dovrebbe conservare al suo interno (inaccessibile) anche un imponente affresco di Giuseppe Capogrossi, artista di grido al tempo appena convertito all’astrattismo, annoverato tra i maestri del Novecento. Delle condizioni dell’affresco nulla si sa. Quel che oggi si può vedere, da fuori, è quanto resta dell’allora avveniristica cupola in cemento, corrosa dal tempo, sotto la quale — ricordo ancora vivo tra gli abitanti più anziani del quartiere — ci si radunava anche per assistere alle trasmissioni della neonata tv, in un’epoca pre-boom in cui gli apparecchi nelle case erano appannaggio di pochi privilegiati. E non se la passano meglio le dinamiche forme del gioiello morandiano, vilipeso in ogni curva della sua doppia rampa a spirale, osannate dagli storici dell’architettura e che tanto evocano un giocattolo d’altri tempi.
Fuori città
Un elenco completo dei grandi abbandoni di Roma risulta impossibile: cinema, complessi industriali, palazzi storici, antichi complessi grandi come quartieri (tipo quello dedicato ad Angelo Mai, nel rione Monti). Occorrerebbe lo spazio di un’enciclopedia. Vale però la pena spingere lo sguardo appena fuori città, in una sorta di effetto «onda lunga» che coinvolge tanti altri stabili, d’ogni tipo e di diversa importanza: dal misterioso ex orfanotrofio femminile alla Marcigliana, generatore di sinistre leggende e di ignota proprietà (dove però, se ci si avvicina, un ceffo aizza cani all’indirizzo del visitatore), alla Casa Sperimentale di Fregene, nota anche come Casa Albero, onirico progetto fine anni Sessanta dell’architetto Giuseppe Perugini (di proprietà degli eredi): una sorta di astronave immersa nella pineta, una villa iconica, un po’ folle, cubica e coloratissima (un tempo), attualmente irriconoscibile. Come irriconoscibile è il bel Cementificio Cerrano, in stile liberty, a Santa Marinella, abbandonato dal 1942, sottoposto a vincolo dei Beni culturali e proprietà del gruppo Salini-Impregilo-Ghella.
Due, però, i capolavori degni di figurare in ogni storia dell’arte: la rinascimentale Villa Catena a Poli, residenza di papi e cardinali, citata anche dal poeta Annibal Caro («...una catena da starci volentieri attaccato»), fu fatta edificare nel Cinquecento dal duca Torquato Conti, avo di Papa Innocenzo XIII. Ora è proprietà di una società di costruttori. Ma prima del penoso degrado, fino al 1976 quest’immensa reggia principesca con casini e giochi d’acqua, immersa in 90 ettari di verde, fu la fastosa residenza della coppia Dino De Laurentiis-Silvana Mangano. Il produttore, che l’acquistò dai Torlonia, la utilizzò per molti set cinematografici. L’attrice se ne innamorò facendola ristrutturare dal celebre arredatore Renzo Mongiardino.
L’altra meraviglia, non lontana, è il cosiddetto Triangolo Barberini, a Palestrina, insieme di edifici che prende il nome dal nobile casato i cui discendenti ancora posseggono il bene. Si tratta di unicum architettonico attribuito all’architetto Giovanni Battista Contini, allievo di Bernini. Il corpo principale, in particolare, è una geniale rappresentazione dell’illusionismo barocco, una costruzione (pericolante come le altre intorno) composta da corpi trilateri, losanghe ed esagoni sovrapposti, con effetto rotazione se gli si gira intorno. Geometrie di cui si intuisce ancora la magnificenza anche all’interno, tra lacerti di mosaici, brandelli di pavimenti originali, perfino affreschi e un’ape scolpita, simbolo araldico della potente famiglia e del suo papa, Urbano VIII. Tutto distrutto, fatiscente. Tutto alla mercé di vandali, sbandati e immancabili writer. Sic transit gloria mundi.