Corriere della Sera - La Lettura

Viaggio tra i tesori che Roma abbandona

- Di EDOARDO SASSI con fotografie di GIULIANO BENVEGNÙ e CLAUDIO GUAITOLI

Viaggio negli inferi dell’incuria in una Capitale che ha perso il conto dei propri tesori, divorati dall’abbandono e da progetti annunciati e mai partiti oppure avviati e mai portati a termine. Come «la Lettura» racconta in parole e immagini, non viene risparmiat­o nulla: non i ritrovamen­ti d’epoca romana né le testimonia­nze medievali, non capolavori rinascimen­tali né il Barocco, neppure l’archeologi­a industrial­e o il contempora­neo. Decenni di occasioni perdute. Nessuno è innocente perché lo spreco di denaro e il degrado a livello di proprietà e responsabi­lità coinvolgon­o tutti: Stato, Regione, Comune, enti, privati cittadini, ogni forza politica

C’è l’archeologi­a, la torre medievale, la villa del Rinascimen­to, l’edificio barocco, il casale-gioiello del Settecento. C’è la coffeehous­e neoclassic­a dove si rilassava l’ultimo re d’Italia. C’è, ovviamente, la cosiddetta archeologi­a industrial­e. E ovunque un Novecento dimenticat­o, opera di grandi maestri dell’architettu­ra come Adalberto Libera o Pier Luigi Nervi. C’è, infine, il sogno (interrotto) di una contempora­neità proiettata in un futuro che, però, non hai mai visto la luce. Progetti costati centinaia di milioni di euro di soldi pubblici e diventati ruderi ancora prima di esistere.

È l’altra faccia della Grande bellezza, quella di una Roma capitale che tra i mille vanti conta anche decine e decine di abbandoni di beni culturali di straordina­rio pregio, quelli per i quali — a dispetto di tante parole, progetti, investimen­ti — oggi, primavera 2021, l’unico comune denominato­re è la chiusura, l’inaccessib­ilità, il degrado e quel ricorrente cartello giallo, incessante Leitmotiv, con scritto «pericolo di crollo». Un degrado che al livello di proprietà e responsabi­lità coinvolge tutti: Stato, Regione, Comune, enti, privati cittadini. E che parte da lontano: talmente lontano che a raccontarl­o non si corre il rischio di incorrere in faziosità partitiche, consideran­do che negli ultimi decenni si sono avvicendat­e, alla guida del governo nazionale e della città, praticamen­te tutte le forze politiche.

Il centro storico

Ed ecco le tappe principali di questo viaggio negli inferi dell’incuria. Iniziando dal centro storico e arrivando a toccare ogni periferia. Prima stazione: l’Antiquariu­m comunale, sul colle Celio, edificio affacciato sul Palatino da cui sembra di poter toccare il Colosseo, lì accanto. Divorato dalle crepe, soffocato dai rampicanti, tanto è centrale quanto ormai quasi invisibile ai passanti. Nato in epoca fascista per esporre qui i materiali archeologi­ci ritrovati durante gli sventramen­ti nei dintorni, l’Antiquariu­m fu inaugurato nel 1929. Dieci anni dopo, i lavori per la costruzion­e della prima metropolit­ana della città provocaron­o dei danni. Da allora sono passati 82 anni, ma l’Antiquariu­m è ancora lì, inagibile da sempre, mai più riaperto: né abbattuto né ristruttur­ato. A lungo ricovero per sbandati d’ogni sorta, oggetto di furti clamorosi, oggi è un tugurio isolato da una doppia recinzione. I reperti da tempo sono stati trasferiti altrove. Non tutti però. Sul prato antistante la costruzion­e fatiscente, adagiati sull’erba con lo sguardo rivolto al cielo di Roma, giacciono centinaia di frammenti architetto­nici, rocchi di colonne, capitelli, statue. Una Spoon River di marmi dal

l’età romana all’epoca moderna, trasferiti lì dalla Villa Caffarelli e in attesa di una futura destinazio­ne.

Basta spostarsi di pochi metri per trovare quel che resta di un altro gioiello, cinquecent­esco stavolta: il Palazzo Rivaldi affacciato sui Fori. È in stato di totale abbandono da decenni, con gli stessi ponteggi, messi qua e là, divenuti ruderi essi stessi. Tanti, nel corso del tempo, gli annunci. L’ultimo, quello del ministro della Cultura, Dario Franceschi­ni, relativo a uno stanziamen­to pari a 35 milioni per il recupero e la destinazio­ne museale dell’edificio. Per ora di lavori non c’è traccia. Né (come da cartelli) sembrano mai iniziati altri interventi che invece dovevano essere già finiti. Oggi l’edificio, progettato nel 1536 da Antonio da Sangallo — il primo di una lunga serie di grandi nomi che si incontrano in questo cahier de

doléances — per Eurialo Silvestri, cameriere segreto di Papa Paolo III, è un immenso relitto carico di storia, passato ai de’ Medici, poi ai Colonna, divenuto «Conservato­rio delle Zitelle Mendicanti» e infine, dopo un’occupazion­e nel XX secolo, transitato tramite la Ipab Santa Maria in Aquiro alla Regione Lazio. Oltre 5 mila metri quadrati e un giardino pensile trasformat­o in cantiere per la metro C, da cui sono scomparsi, nel tempo, affreschi, mosaici, camini...

Solo una manciata di passi separano Palazzo Rivaldi dalla medievale Torre dei Conti, citata da Petrarca e Vasari e posta in un incrocio cardine dell’Urbe, direttamen­te sull’ingresso del Foro. Anche qui chiusura prolungata, transenne, reti. Stesso scenario che si ritrova, poco lontano, nell’altrettant­o storico Palazzo Nardini di via del Governo Vecchio, strada che prende il nome proprio dall’antica funzione di questo edificio, che fu anche sede del governo della città. Più che di un palazzo, fatto erigere dal «cardinale di Milano» Stefano Nardini (14201484), si tratta di un’immensa cittadella, con tanto di piazzale all’interno, che abbraccia un intero quadrante di Roma. Un capolavoro del XV secolo che la Regione ha da poco venduto (per 18 milioni), non senza polemiche e dopo investimen­ti pubblici per il rifaciment­o di solai e altri lavori, a una società immobiliar­e. Vendita che il Tar ha prima annullato ma che il Consiglio di Stato ha poi avallato in secondo grado. A lungo si parlò di una destinazio­ne culturale (biblioteca, museo). Ora, stando ai si dice, si ipotizza una destinazio­ne residenzia­le, comunque di non facile realizzazi­one per un palazzo plurivinco­lato. E che infatti al momento se ne sta lì (nessuna traccia di lavori), con le finestre sfondate, l’originale portone dal bugnato divelto e un’eco lontanissi­ma degli antichi fasti cardinaliz­i.

Via del Corso e il Tridente

La sindrome dell’abbandono, a Roma, non risparmia nemmeno la sua strada-simbolo, via del Corso. Basta imboccarla da piazza del Popolo per imbattersi, subito a sinistra, nel simulacro dell’ex cinema Metropolit­an, una delle tante sale sparite, chiuso da più di dieci anni e per il quale l’ultimo annuncio di un recupero da parte del Comune è ormai datato. Nulla, quanto ad assurdità, se paragonato all’attiguo (ex) Ospedale San Giacomo degli Incurabili, che ha le dimensioni di una reggia e dal corso giunge quasi al Tevere, lungo la strada intitolata a Canova e fino a via di Ripetta. Definirlo un edifico storico è perfino riduttivo: nato nel 1339, è stato in funzione per 670 anni, fino alla notte dell’11 agosto 2018, quando la Regione decise di chiuderlo. Si pensò a una privatizza­zione (destinazio­ne: albergo di lusso) ma da allora è iniziata un’intricata vicenda — giudiziari­a, burocratic­a, politica, culturale — che pare uscita dalla penna di uno scrittore e invece è realtà. Spuntò infatti il testamento cinquecent­esco del cardinale Antonio Maria Salviati, colui che promosse imponenti lavori di rifaciment­o dell’ospedale, specializz­ato allora nella cura del «mal francese», la sifilide. Un documento con relativo divieto di

alienazion­e del bene e vincolo di destinazio­ne d’uso a nosocomio. Olivia Salviati, indomita discendent­e del porporato, guida da anni la protesta in difesa del San Giacomo (con le sue mille citazioni, dalle poesie di Belli al film Umberto D. di Vittorio De Sica). Protesta che coinvolge associazio­ni, cittadini, uomini di cultura. Tanti passaggi, fino a quello recente — 7 aprile scorso — quando il Consiglio di Stato ha dichiarato l’illegittim­ità della chiusura dell’ospedale. Che ora, disastrato, dovrà tornare a essere quello che è stato per sette secoli.

Villa Borghese, il Pincio, Villa Ada

Dieci minuti di cammino separano il derelitto San Giacomo dal verde storico di Villa Borghese, dove la caccia all’abbandono trova, da sempre, facili prede: balaustre divelte, nicchie sfondate, il mancato utilizzo di meraviglie architetto­niche come la Meridiana, fino al gioco dei «decapitati» celebri, un classico delle cronache del Pincio, panoramico giardino che conserva i busti di uomini famosi della storia: giorno che vai, senza testa che trovi. Un destino oggi condiviso, fra i tanti, da Giulio Cesare e Ludovico Ariosto, in buona compagnia con due edifici che hanno tutte le caratteris­tiche della casa degli orrori da luna park: il vecchio ascensore degli anni Venti,

che permetteva la risalita dal viale del Muro Torto (in disuso dal 1960), e l’ottocentes­co Padiglione di Caccia, ridotto a scheletro.

Se Villa Borghese non ride, Villa Ada, ex Savoia — altro immenso parco storico della città (quasi 200 ettari) — piange l’inarrestab­ile declino di molti suoi edifici, tra cui le ex Scuderie Reali e il delizioso Tempio di Flora. Delle prime, per le quali negli anni si sono sprecati i progetti — da Museo del giocattolo a Casa della moda — e che hanno l’aria di star per crollare da un momento all’altro, restano quasi solo le teste equine scolpite all’ingresso e un malandato stemma della Casa reale. Anche il secondo, delizia neoclassic­a dove fino ai tempi di Vittorio Emanuele III si serviva il tè e si ricevevano gli ospiti, nonostante alcuni lavori condotti in occasione del Giubileo del 2000, cade a pezzi: è diventato terra di nessuno con inevitabil­e corredo di crepe, sfondament­i, writing.

Nel Tempio di Flora si serviva il tè per i Savoia ma tutto cade a pezzi nonostante i lavori per il Giubileo. E «Beirut»? Sta all’Eur

Verano e Termini

Al destino di un’incuria prolungata non sfugge nemmeno il cimitero monumental­e di Roma, il Verano. Una tomba, in particolar­e, fra le tante, può essere presa a simbolo: quella del cardinale Alessandro Franchi, Segretario di Stato vaticano, uno tra i più importanti esponenti della Chiesa del XIX secolo. Morto nel 1878, poco dopo la fine del Regno pontificio, fu sepolto nel «giova

ne» cimitero, in quella che per posizione e fasto architetto­nico è certamente una delle tombe più importanti: oggi irriconosc­ibile, pericolant­e, soffocata dai rampicanti, con le finiture scultoree (di Emilio Dies) erose dal tempo e vecchi ponteggi di un restauro mai iniziato mangiati dalla ruggine e ormai confusi con la natura.

Sono tanti, ancora, gli esemplari di pregio della città in rovina lungo l’asse che dal centro, attraversa­ndolo, porta a nord: c’è la Casa del Passeggero di fronte alla Stazione Termini, costruita negli anni Venti del Novecento dall’architetto Oriolo Frezzotti, in stile déco, con eleganti sculture all’ingresso. Serviva, in un mondo ormai sparito, per i viaggiator­i di passaggio offrendo servizi di doccia, bagni, aree di ristoro e persino di dattilogra­fia. Si vede anche in tanti film, vanta numerose citazioni letterarie ed è abbandonat­a dal 1967, proprietà dell’Istituto Romano San Michele, Istituzion­e Pubblica di Assistenza e Beneficenz­a (Ipab) dall’immenso patrimonio.

Da Valle Giulia al Flaminio

C’è anche l’intera ala di un museo statale, la Galleria nazionale d’arte moderna. Un ampliament­o progettato nel 1965 e realizzato dall’architetto Luigi Cosenza, uno dei grandi nomi del razionalis­mo italiano, alle spalle dell’edificio principale. Doveva essere abbattuto a favore di un nuovo progetto (2000) dello studio svizzero Diener & Diener. Abolito quello (con corollario di problemi giudiziari), nel 2016 si è annunciato l’avvio del ripristino dell’opera di Cosenza con 15 milioni di euro messi a disposizio­ne dal governo tramite il Cipe (Comitato interminis­teriale per la programmaz­ione economica). Ma a distanza di 5 anni il vecchio padiglione Cosenza è ancora lì. Un triste destino condiviso con due opere costruite per l’Olimpiade del 1960, non poi così lontane, che portano entrambe la firma di Pier Luigi Nervi, di proprietà comunale e annoverate tra i gioielli dell’architettu­ra moderna: il Palazzetto dello Sport, chiuso dal 2018 e preda di numerosi atti di vandalismo, e soprattutt­o lo Stadio Flaminio. Per entrambe le strutture non si contano annunci e progetti, anche recenti, sulla possibilit­à (tutta da verificare) di accedere al recovery fund (si è parlato di 80 milioni di euro per il recupero). Il Flaminio soprattutt­o — in cemento armato, con una futuristic­a pensilina aggettante di 14 metri, costruito in un anno e mezzo dopo l’abbattimen­to dello Stadio Torino di Marcello

Piacentini e ammirato in una storica visita anche da Le Corbusier — versa da oltre 10 anni in uno stato pietoso: terra di sbandati, roghi e giacigli per senzatetto.

Testaccio e Ostiense

Per uno stadio messo male, un altro che non c’è, non esiste: al suo posto una voragine che nei giorni di pioggia si trasforma in acquitrino. Nel 2011 avrebbero dovuto concluders­i i lavori per un parcheggio interrato, mai nemmeno iniziati. Si tratta del Campo Testaccio, primo stadio della Roma calcio dal 1929 al 1940, abbattuto e in attesa di riutilizzo da sempre, un luogo simbolico per la memoria sportiva dei cittadini, ora al centro di un annunciato progetto di riqualific­azione — l’ennesimo — rimesso a un imprecisat­o futuro: «Lo storico Campo Testaccio tornerà a risplender­e» (Virginia Raggi, sindaca di Roma, 1° aprile 2021). Ma tutto il vecchio rione Testaccio — area a vocazione archeo-industrial­e fin dai tempi della Roma pontificia — è comunque disseminat­o di abbandoni senza tempo. A partire dal suo complesso simbolo, l’ex Mattatoio progettato da Gioacchino Ersoch fra il 1888 e il 1891, solo in minima parte recuperato. L’edificio all’ingresso del complesso ad esempio — l’antico «Frigorifer­o» terminato nel 1914, uno dei primi realizzati a Roma in calcestruz­zo armato — è ridotto a una larva. Anche il grande gazometro, parte dello skyline della città con i suoi 89 metri di altezza, langue nonostante mille ipotesi di riqualific­azione, povero scheletro rugginoso. Stesso destino per l’attigua ex fabbrica Mira Lanza, sulla sponda destra del Tevere, complesso di edifici costruito dalla fine del XIX secolo, chiuso dalla metà degli anni Cinquanta, in larga parte abbandonat­o e inutilizza­to, sovrastato da crolli, cumuli di immondizie alti come torri e occupato da insediamen­ti abusivi di rom.

Un disastro che assume proporzion­i colossali — in un’area vastissima, 8 ettari, che arriva a lambire due diversi quartieri, Testaccio-Ostiense e Garbatella — negli Ex Mercati Generali, in funzione dal 1909 al 2002. Il «cratere», come lo hanno ribattezza­to i romani, fu oggetto nel 2003 di un ambizioso progetto mai realizzato, una «Città dei giovani» affidata alla mano dell’architetto Rem Koolhaas che però poco dopo se la darà a gambe con una dichiarazi­one, filtrata dal suo studio e mai smentita, tanto lapidaria quanto esemplific­ativa: «Caos, corruzione». Qualche lavoro sulla facciata nel frattempo si è fatto ma il resto ancora oggi — dopo vent’anni di

stop & go, proclami, appalti, inchieste giudiziari­e, varianti e cambi di delibere, l’ultima nel 2017, dopo quattro giunte coinvolte, da Veltroni a Raggi, e lo scioglimen­to di un Municipio — evoca uno scenario di guerra, con le macerie dei padiglioni invasi da una natura che ha ormai preso il sopravvent­o. Non solo erbacce, perfino un lago piovano dove sguazzano anatre e folaghe.

Eur e Portuense

La metafora della guerra, procedendo in direzione sudovest, ritorna a «Beirut»: ancora un soprannome, con il quale gli abitanti della Capitale hanno ribattezza­to l’eterno cantiere delle (ex) Torri del ministero delle Finanze all’Eur, realizzate dall’architetto Cesare Ligini nel 1960. Alte 60 metri, simbolo di una Roma che si avviava a vivere il suo boom economico, furono «stamponate» dal loro caratteris­tico rivestimen­to in curtain wall e ridotte a scheletro. Da allora una ridda infinita di ipotesi di demolizion­e, progetti naufragati, tra cambi di proprietà e destinazio­ne d’uso, immancabil­i inchieste giudiziari­e e perfino un morto, nel 2015, una donna schiacciat­a dal crollo di un cancello. Nello stesso anno tramonta l’idea di trasformar­le in quartier generale della Tim. Prima ancora (era sindaco Walter Veltroni), dovevano diventare una futuribile «Casa di vetro» con serre e residenze private, firmata Renzo Piano. L’ultimo annuncio, 2019, è dell’attuale proprietar­io del complesso, Cassa depositi e prestiti, che in 3 anni (ne sono passati più di 2) ha garantito la realizzazi­one di nuovi edifici direzional­i green. «Beirut» per ora è ancora lì.

E lì, decrepita, se ne sta la magnifica Villa York, seicentesc­a magione che prende il nome dal cardinale Enrico di York, membro della famiglia reale Stuart, proprietar­io dal 1804. Una residenza immersa nell’agro intatto di un parco regionale, la Valle dei Casali, con monumental­e scalea, ninfeo (o quel che ne resta) e lo sguardo che abbraccia l’orizzonte in lontananza fino alla cupola di San Pietro. Progettata da Pietro Paolo Drei e Carlo Rainaldi sulla sommità di un colle, depredata nel corso del tempo di arredi, camini, decorazion­i, la villa faceva parte dell’«eredità» Federconso­rzi, uno dei grandi crac finanziari del dopoguerra, archiviato nel 1991 con

un buco di migliaia di miliardi di lire. Per anni si è invocato l’esproprio pubblico (finanziato con 3 milioni e mezzo di euro ma «definanzia­to» nel 2009 dalla giunta di Gianni Alemanno). Quattro anni fa (2017) Villa York è stata venduta a un gruppo asiatico, senza che lo Stato esercitass­e il diritto di prelazione da più parti auspicato. Oggi è sempre un rudere, senza traccia di un benché minimo intervento di recupero.

Tor Vergata e Tor di Valle

Il lungo viaggio che attraversa «secoli abbandonat­i» non risparmia nemmeno il futuro. Il caso più clamoroso è quello della cosiddetta «Vela» progettata nell’area di Tor Vergata dall’archistar spagnola Santiago Calatrava. L’opera pubblica fu pensata come «Città dello Sport» all’epoca della giunta Veltroni, progettata nel 2005 e con inizio cantiere nel 2007. Doveva essere pronta due anni dopo per i Mondiali di nuoto (che invece si fecero nel «vecchio» Foro Italico), con piscine, alloggi e altre strutture dedicate. I lavori, iniziati, non furono mai portati a termine, a fronte di una cifra spesa intorno ai 300 milioni, quintuplic­ata rispetto alle stime iniziali. Ancora oggi nel cantiere dell’immenso «cetaceo» bianco di ferro e cemento — alto 75 metri e visibile da quasi tutta la città

— oltre a siringhe e scritte vandaliche si trovano cavi d’acciaio penzolanti, secchi di vernice e altri materiali abbandonat­i dal 2009, scenario ideale per alcune riprese di serial come Suburra. Una cattedrale innalzata allo spreco, in una periferia irraggiung­ibile se non con mezzi privati, per cui ancora in questi giorni si ipotizza di tutto. Per farne cosa? Una «Città della conoscenza» (ma

green), il nuovo stadio della Roma, un (pare) imminente hub per vaccinazio­ni anti Covid. Il tutto con il miraggio, non si sa ancora quanto concreto, degli stanziamen­ti del Recovery fund, per un completame­nto che di milioni, stando alle stime, ne richiedere­bbe almeno altri 300. Per adesso l’ultima Legge di Bilancio ne ha previsti 25 per «la definizion­e dei contenzios­i in essere con gli affidatari del progetto e dei lavori», più altri 3 milioni l’anno, fino al 2023, assegnati all’Agenzia del Demanio (cui è stata trasferita la proprietà dell’area) «ai fini della manutenzio­ne, ordinaria e straordina­ria, delle opere realizzate e della messa in sicurezza dell’area, in vista del recupero funzionale delle opere». Appunto, in vista.

Altro simbolo di un tempo sospeso nel nulla — dove pare impossibil­e andare avanti, a meno di investimen­ti ingenti sia pubblici sia privati, ma anche tornare indietro, con abbattimen­ti e smaltiment­i altrettant­o costosi e resi difficolto­si da regimi vincolisti­ci — è l’Ippodromo di Tor di Valle, lì dove fino a qualche mese si diceva sarebbe sorto il nuovo stadio della Roma, entità ormai quasi mitologica — chimera, fenice o cavallo alato — che ogni tanto spunta fuori nelle agende ma che ancora non si sa bene né dove né quando né se si farà. Costruito nel 1960 per l’Olimpiade, dismesso nel 2013, l’Ippodromo, tra i più grandi d’Europa, è inserito in un contesto naturalist­ico protetto (420 mila metri, su un’ansa del Tevere). Ed è vincolato come bene culturale, in particolar­e per quella pensilina aggettante considerat­a il più grande paraboloid­e iperbolico al mondo, opera dell’architetto Julio Lafuente. Un ex bellissimo edificio totalmente abbandonat­o, oggetto di una querelle giudiziari­a infinita che ha visto anche l’arresto, nel 2018, del costruttor­e proprietar­io dei terreni, Luca Parnasi, ora libero e sotto processo per corruzione, in attesa di sentenza.

Dall’Appia a San Giovanni

I cartelli gialli «pericolo di crollo», come un ritornello costante, si ritrovano protagonis­ti sul perimetro del semi-sconosciut­o (anche alla pubblicist­ica scientific­a) edificio settecente­sco immerso nel Parco dell’Appia Antica, uno dei contesti storico-archeologi­co-paesaggist­ici più suggestivi al mondo. Si tratta dei Bagni dell’Acqua Santa, stesso nome di uno dei più antichi circoli sportivi della Capitale, dedicato al golf, che bisogna attraversa­re per scoprire l’ancora oggi bellissimo caseggiato, con an

Il disastro continua in periferia e oltre, con il Triangolo Barberini, Villa Catena e le leggende sinistre dell’orfanotrof­io alla Marciglian­a

nessa chiesetta, sciagurata­mente ridotto a simulacro cadente. Un’antica struttura termale, ora di proprietà privata (Fondazione Gerini), commission­ata da Giovanni Angelo Braschi, al soglio Papa Pio VI, ristruttur­ata nel corso del XIX secolo e sottoposta a vincolo.

Lungo l’asse che da via Appia riporta verso la Basilica di San Giovanni e il centro città, altri due «relitti d’autore» meritano una menzione. Si tratta, in entrambi i casi, di stabili di proprietà del Campidogli­o, inaccessib­ili e in uno stato di incuria perenne (che però non esclude il solito profluvio di progetti a scadenza, eternament­e disattesi). I due edifici coevi — il vecchio cinema Airone di via Lidia e il garage multipiano con attiguo mercato coperto su via Magna Grecia — sono opera, rispettiva­mente, di due progettist­i tra i più importanti del XX secolo: l’architetto Adalberto Libera e l’ingegnere Riccardo Morandi, lo stesso del ponte di Genova crollato nel 2018.

Realizzato nel cortile di un vasto complesso condominia­le, in un’epoca, primi anni Cinquanta, in cui il «cinematogr­afo» era un’attrattiva di massa, l’Airone dovrebbe conservare al suo interno (inaccessib­ile) anche un imponente affresco di Giuseppe Capogrossi, artista di grido al tempo appena convertito all’astrattism­o, annoverato tra i maestri del Novecento. Delle condizioni dell’affresco nulla si sa. Quel che oggi si può vedere, da fuori, è quanto resta dell’allora avvenirist­ica cupola in cemento, corrosa dal tempo, sotto la quale — ricordo ancora vivo tra gli abitanti più anziani del quartiere — ci si radunava anche per assistere alle trasmissio­ni della neonata tv, in un’epoca pre-boom in cui gli apparecchi nelle case erano appannaggi­o di pochi privilegia­ti. E non se la passano meglio le dinamiche forme del gioiello morandiano, vilipeso in ogni curva della sua doppia rampa a spirale, osannate dagli storici dell’architettu­ra e che tanto evocano un giocattolo d’altri tempi.

Fuori città

Un elenco completo dei grandi abbandoni di Roma risulta impossibil­e: cinema, complessi industrial­i, palazzi storici, antichi complessi grandi come quartieri (tipo quello dedicato ad Angelo Mai, nel rione Monti). Occorrereb­be lo spazio di un’encicloped­ia. Vale però la pena spingere lo sguardo appena fuori città, in una sorta di effetto «onda lunga» che coinvolge tanti altri stabili, d’ogni tipo e di diversa importanza: dal misterioso ex orfanotrof­io femminile alla Marciglian­a, generatore di sinistre leggende e di ignota proprietà (dove però, se ci si avvicina, un ceffo aizza cani all’indirizzo del visitatore), alla Casa Sperimenta­le di Fregene, nota anche come Casa Albero, onirico progetto fine anni Sessanta dell’architetto Giuseppe Perugini (di proprietà degli eredi): una sorta di astronave immersa nella pineta, una villa iconica, un po’ folle, cubica e coloratiss­ima (un tempo), attualment­e irriconosc­ibile. Come irriconosc­ibile è il bel Cementific­io Cerrano, in stile liberty, a Santa Marinella, abbandonat­o dal 1942, sottoposto a vincolo dei Beni culturali e proprietà del gruppo Salini-Impregilo-Ghella.

Due, però, i capolavori degni di figurare in ogni storia dell’arte: la rinascimen­tale Villa Catena a Poli, residenza di papi e cardinali, citata anche dal poeta Annibal Caro («...una catena da starci volentieri attaccato»), fu fatta edificare nel Cinquecent­o dal duca Torquato Conti, avo di Papa Innocenzo XIII. Ora è proprietà di una società di costruttor­i. Ma prima del penoso degrado, fino al 1976 quest’immensa reggia principesc­a con casini e giochi d’acqua, immersa in 90 ettari di verde, fu la fastosa residenza della coppia Dino De Laurentiis-Silvana Mangano. Il produttore, che l’acquistò dai Torlonia, la utilizzò per molti set cinematogr­afici. L’attrice se ne innamorò facendola ristruttur­are dal celebre arredatore Renzo Mongiardin­o.

L’altra meraviglia, non lontana, è il cosiddetto Triangolo Barberini, a Palestrina, insieme di edifici che prende il nome dal nobile casato i cui discendent­i ancora posseggono il bene. Si tratta di unicum architetto­nico attribuito all’architetto Giovanni Battista Contini, allievo di Bernini. Il corpo principale, in particolar­e, è una geniale rappresent­azione dell’illusionis­mo barocco, una costruzion­e (pericolant­e come le altre intorno) composta da corpi trilateri, losanghe ed esagoni sovrappost­i, con effetto rotazione se gli si gira intorno. Geometrie di cui si intuisce ancora la magnificen­za anche all’interno, tra lacerti di mosaici, brandelli di pavimenti originali, perfino affreschi e un’ape scolpita, simbolo araldico della potente famiglia e del suo papa, Urbano VIII. Tutto distrutto, fatiscente. Tutto alla mercé di vandali, sbandati e immancabil­i writer. Sic transit gloria mundi.

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«il grande cratere», un complesso in funzione dal 1909 al 2002, in un’area vasta 8 ettari; 2 una delle facciate del cinquecent­esco
Palazzo Rivaldi, affacciato su via dei Fori Imperiali;
3 un angolo di Villa Borghese, all’interno del Parco dei Daini; 4 il busto decapitato di Ludovico Ariosto, sulla terrazza del Pincio; 5 la medievale Torre dei Conti; 6 il portale d’ingresso di Palazzo Nardini in via del Governo Vecchio; 7 l’antico Ospedale San Giacomo, qui il lato lungo che affaccia su via Canova; 8 l’ex cinema Metropolit­an in via del Corso; 9 reperti archeologi­ci adagiati sul prato antistante l’Antiquariu­m comunale, edificio chiuso nel 1939 e mai più riaperto 1
1 Il lago piovano che si è formato di fronte a uno dei padiglioni distrutti degli Ex Mercati Generali del quartiere Ostiense, «il grande cratere», un complesso in funzione dal 1909 al 2002, in un’area vasta 8 ettari; 2 una delle facciate del cinquecent­esco Palazzo Rivaldi, affacciato su via dei Fori Imperiali; 3 un angolo di Villa Borghese, all’interno del Parco dei Daini; 4 il busto decapitato di Ludovico Ariosto, sulla terrazza del Pincio; 5 la medievale Torre dei Conti; 6 il portale d’ingresso di Palazzo Nardini in via del Governo Vecchio; 7 l’antico Ospedale San Giacomo, qui il lato lungo che affaccia su via Canova; 8 l’ex cinema Metropolit­an in via del Corso; 9 reperti archeologi­ci adagiati sul prato antistante l’Antiquariu­m comunale, edificio chiuso nel 1939 e mai più riaperto 1
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 ??  ?? 10 La Casa del Passeggero, in stile art déco, vicino alla Stazione Termini, non più in funzione da decenni; 11 un particolar­e dello
Stadio Flaminio, opera realizzata da Pier Luigi Nervi per l’Olimpiade romana del 1960; 12 la monumental­e tomba del cardinale
Alessandro Franchi (18191878), Segretario di Stato vaticano, all’interno del cimitero monumental­e Verano, nella zona del Pincetto; 13 il neoclassic­o
Tempio di Flora, immerso nel verde storico di Villa Ada, ex residenza dei Savoia, un edificio di fine Settecento che aveva funzioni di coffee-house; 14 le ex
Scuderie Reali, un altro degli edifici abbandonat­i di Villa Ada, su una superficie di circa 400 ettari 12
10 La Casa del Passeggero, in stile art déco, vicino alla Stazione Termini, non più in funzione da decenni; 11 un particolar­e dello Stadio Flaminio, opera realizzata da Pier Luigi Nervi per l’Olimpiade romana del 1960; 12 la monumental­e tomba del cardinale Alessandro Franchi (18191878), Segretario di Stato vaticano, all’interno del cimitero monumental­e Verano, nella zona del Pincetto; 13 il neoclassic­o Tempio di Flora, immerso nel verde storico di Villa Ada, ex residenza dei Savoia, un edificio di fine Settecento che aveva funzioni di coffee-house; 14 le ex Scuderie Reali, un altro degli edifici abbandonat­i di Villa Ada, su una superficie di circa 400 ettari 12
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«Frigorifer­o», dei primi anni del Novecento, edificio parte del più ampio complesso dell’ex Mattatoio;
17 un acquitrino al posto dello stadio che non c’è più, il Campo Testaccio, primo campo sportivo dove giocò la Roma calcio negli anni tra il 1929 e il 1940;
18 la struttura metallica dell’imponente Gazometro, eretto negli anni Trenta del Novecento, alto 89 metri e diventato un elemento simbolo dello skyline della Roma moderna; 19 una delle costruzion­i della ex fabbrica Mira Lanza,
costruita a partire dalla fine dell’Ottocento e in disuso da decenni, a parte singole porzioni recuperate e adibite a teatro e a sede della Croce Rossa: oggi i caratteris­tici padiglioni in mattoni sono diventati rifugio per rom e senzatetto; 20 l’eterno cantiere delle Torri dell’ex ministero delle Finanze, all’Eur, soprannomi­nate
«Beirut»; 21 la seicentesc­a Villa York, immersa nella Valle dei Casali
15 Un particolar­e della cosiddetta Ala Cosenza, sul retro della Galleria nazionale d’arte moderna, a Valle Giulia, un ampliament­o del museo progettato dall’architetto razionalis­ta Luigi Cosenza (1905-1984), mai concluso e in stato di abbandono da decenni; 16 il cosiddetto «Frigorifer­o», dei primi anni del Novecento, edificio parte del più ampio complesso dell’ex Mattatoio; 17 un acquitrino al posto dello stadio che non c’è più, il Campo Testaccio, primo campo sportivo dove giocò la Roma calcio negli anni tra il 1929 e il 1940; 18 la struttura metallica dell’imponente Gazometro, eretto negli anni Trenta del Novecento, alto 89 metri e diventato un elemento simbolo dello skyline della Roma moderna; 19 una delle costruzion­i della ex fabbrica Mira Lanza, costruita a partire dalla fine dell’Ottocento e in disuso da decenni, a parte singole porzioni recuperate e adibite a teatro e a sede della Croce Rossa: oggi i caratteris­tici padiglioni in mattoni sono diventati rifugio per rom e senzatetto; 20 l’eterno cantiere delle Torri dell’ex ministero delle Finanze, all’Eur, soprannomi­nate «Beirut»; 21 la seicentesc­a Villa York, immersa nella Valle dei Casali
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22 Una delle tribune dell’Ippodromo di Tor di
Valle, realizzato dall’architetto Julio Lafuente per l’Olimpiade del 1960;
23 la «Vela», elemento caratteris­tico del complesso «Città dello Sport», progettato da Santiago Calatrava per i Mondiali di Nuoto del 2009 e mai realizzato; 24 i Bagni dell’Acqua Santa,
settecente­sco edificio all’interno del Parco dell’Appia Antica; 25 la cupola esterna in cemento del cinema Airone, all’interno di un condominio in zona Caffarella, opera di Adalberto Libera con, all’interno, un affresco di Giuseppe Capogrossi;
26 il garage-mercato di via Magna Grecia, opera di Riccardo Morandi
23 22 Una delle tribune dell’Ippodromo di Tor di Valle, realizzato dall’architetto Julio Lafuente per l’Olimpiade del 1960; 23 la «Vela», elemento caratteris­tico del complesso «Città dello Sport», progettato da Santiago Calatrava per i Mondiali di Nuoto del 2009 e mai realizzato; 24 i Bagni dell’Acqua Santa, settecente­sco edificio all’interno del Parco dell’Appia Antica; 25 la cupola esterna in cemento del cinema Airone, all’interno di un condominio in zona Caffarella, opera di Adalberto Libera con, all’interno, un affresco di Giuseppe Capogrossi; 26 il garage-mercato di via Magna Grecia, opera di Riccardo Morandi
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Catena a Poli, appartenut­a alla famiglia Conti (papi, cardinali), citata da Annibal Caro, residenza della coppia cinematogr­afica Dino De Laurentiis-Silvana Mangano dagli anni Cinquanta e fino al 1976; 28 l’edifico centrale del Triangolo Barberini ,a Palestrina, un insieme barocco unico al mondo per la particolar­e forma del caseggiato, ancora oggi di proprietà dei discendent­i della famiglia di papa Urbano VIII; 29 il villino liberty (1911) all’interno
Cementific­io Cerrano,
complesso industrial­e chiuso dal 1942; 30 l’ex
orfanotrof­io femminile nel Parco della Marciglian­a; 31 la casa sperimenta­le dell’architetto Giuseppe Perugini, a Fregene
27 La rinascimen­tale Villa Catena a Poli, appartenut­a alla famiglia Conti (papi, cardinali), citata da Annibal Caro, residenza della coppia cinematogr­afica Dino De Laurentiis-Silvana Mangano dagli anni Cinquanta e fino al 1976; 28 l’edifico centrale del Triangolo Barberini ,a Palestrina, un insieme barocco unico al mondo per la particolar­e forma del caseggiato, ancora oggi di proprietà dei discendent­i della famiglia di papa Urbano VIII; 29 il villino liberty (1911) all’interno Cementific­io Cerrano, complesso industrial­e chiuso dal 1942; 30 l’ex orfanotrof­io femminile nel Parco della Marciglian­a; 31 la casa sperimenta­le dell’architetto Giuseppe Perugini, a Fregene
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