Corriere della Sera - La Lettura
Lui e Annibale maestri di tattica ma mediocri nella strategia
Paralleli Perché il Corso e il Cartaginese si somigliano come generali e statisti
Annibale si colloca, ha detto lo storico francese Jérôme Carcopino, «tra i condottieri dalla curiosità infinita e dall’universale cultura... Somiglia a quei capi vittoriosi come Cesare, Federico II o Bonaparte che hanno saputo trasformarsi in uomini di Stato». Più che a Cesare e ad Alessandro, il Punico somiglia forse proprio a Bonaparte; al quale lo accomuna la capacità di imporsi ai nemici per l’evidente superiorità tattica, potendo essere piegato, lui come Napoleone, solo con il logoramento destinato a contenerlo; ed è stato, persino più del Corso, odiato non senza motivo dai vincitori.
Diversa è l’origine. Per Napoleone, figlio di una Corsica appena annessa alla Francia, la vocazione nasce nel segno di letture infantili, il cursus (collegio e accademia per ufficiali subalterni...) si correda di qualche manuale tecnico (i trattati sull’artiglieria, Pierre-Joseph Bourcet...), si rafforza nell’esperienza sul campo, si esalta nel genio. Annibale è di famiglia antica, vanta una vasta mole di letture, non solo in campo militare, ma sale ai vertici del comando, pur tenuto dal padre, dal livello più basso, da valletto di truppa, «allievo di voi tutti prima che comandante».
Sono, entrambi, inarrivabili maestri di tattica. Il Cartaginese perfeziona la manovra avvolgente alla macedone mantenendo l’azione delle cavallerie sui lati, ma sostituisce nel mezzo — ricorrendo all’immagine della «morra cinese» — la carta al sasso; e, schierando invece del blocco massiccio della falange, inadatta alle sue truppe, un centro di combattenti singoli, che arretra senza spezzarsi e contribuisce ad avvolgere il nemico, crea a Canne un capolavoro senza tempo. Per sottrargli l’iniziativa acquisita passando le Alpi occorreranno oltre due anni. Accolta da Scipione e applicata alle legioni, la sua riforma tattica condurrà le armate di Roma a secoli di vittorie.
Bonaparte recepisce i mutamenti dell’età sua: la coscrizione obbligatoria, l’accresciuto rilievo dell’artiglieria, l’esigenza di una catena di comando che tragga i vertici dai ranghi della truppa, ignorando le futili barriere di nascita
frapposte dall’aristocrazia. Come Annibale «Barca» (la Folgore), anch’egli privilegia la rapidità negli spostamenti e la capacità di separare le formazioni nemiche, come nella campagna del 1796 o in quella, leggendaria, del 1805. Come Annibale subisce anch’egli uno o più temporeggiatori, il principe Kutuzov ad esempio, inascoltato alla vigilia di Austerlitz, decisivo all’indomani di Borodino. Anche se si mette in luce nell’assedio di Tolone, Bonaparte è, come Annibale, un modesto espugnatore di fortezze (fallisce a San Giovanni d’Acri e impiega a prendere Mantova quasi gli stessi mesi persi dal Cartaginese a Sagunto...) perché predilige una guerra di battaglie campali, ognuna delle quali decisiva in potenza; come Annibale, che per due anni profitta della vocazione dei Romani allo scontro diretto e non pensa forse mai davvero ad attaccare la città eterna.
Grandi tattici, sono strateghi mediocri, incapaci di cogliere le ragioni che rendono imbattibili i loro nemici. Se Bonaparte non comprende forse mai le dimensioni di un potere navale che renderà invalicabile per lui il canale della Manica, ed è impaziente verso la diplomazia che potrebbe puntellarne il dominio europeo (celebre un tempestoso dialogo con Metternich...), Annibale è legato all’idea di un Blitzkrieg come quello di Alessandro e solo tardi conscio della dimensione civile che fa di Roma, compendio di aristocrazie e popoli, una potenza assai superiore a Cartagine, persino malgrado lui.
Se si escludono i fratelli e forse Maharbale, soprattutto per lo strampalato consiglio di attaccare Roma coi suoi Numidi, gli uomini che attorniano il Cartaginese sono poco più che ombre fugaci sulla scena, animata, secondo Polibio, da un solo, immenso protagonista. Persino a Zama il tranello che tende al suo unico allievo Scipione, sacrificando elefanti e cavallerie per sgombrare il campo ad una battaglia tra fanti, la sola che possa sperare di vincere, è un capolavoro, frustrato non dall’abilità del romano, ma dall’eroica, disperata resistenza delle legioni cannensi. Meglio conosciamo, grazie anche all’ampia memorialistica coeva, i marescialli napoleonici; che a Waterloo, scontro per molti versi simile a Zama, risultano determinanti, ma in senso negativo: Ney, Soult e soprattutto Grouchy, mentre Davout è lontano, a Parigi.
Uomini di Stato notevoli — Annibale agronomo, economista, riformatore anche se forse pronto ad un golpe nella Cartagine del dopoguerra, Bonaparte organizzatore alle radici della Francia moderna, promotore del Codice civile — furono duri e talvolta spietati (Annibale, secondo le fonti, fino a una crudeltà raffinata, anche se mai senza motivo...); e conobbero il sorgere di una leggenda nera alimentata dai vincitori, che per il Punico sconfina, con l’Eneide o Valerio Massimo, nella stregoneria. Grandi sconfitti, sono stati però riabilitati entrambi, Napoleone fin dal 5 maggio, Annibale quando un imperatore originario della sua terra, Settimio Severo, ne monumenta il sepolcro al lato opposto del mondo di allora, sulla sponda orientale del Bosforo.