Corriere della Sera - La Lettura
C’è Banksy sul cavallo dell’Imperatore
I contemporanei lo esaltarono, rilanciando il mito di Roma antica o cedendo alle formule della propaganda. I moderni, come Andy Warhol, lo rileggono: e infatti Kehinde Wiley lo immagina afroamericano
Ai suoi contemporanei Ingres, Géricault, Richmond, Appiani e Canova piaceva dipingerlo o scolpirlo trionfante in battaglia ad Austerlitz, mentre incorona Giuseppina, come Marte pacificatore o, all’opposto, nei momenti più cupi del dopo Waterloo, dell’abdicazione, dell’esilio di Sant’Elena. I più moderni Toulose-Lautrec, Ernst, Dalì, Warhol e Julien Moro-Lin hanno invece preferito giocare con lui come con un simbolo da rileggere, reinterpretare, attualizzare: senza però quasi mai metterlo in ridicolo forse per il rispetto che si deve alla Storia con la esse maiuscola.
La vicenda di Napoleone nell’arte appare, almeno all’inizio, sempre in bilico tra vera ispirazione e propaganda di regime. Lo dimostra bene la mostra ai Mercati di Traiano di Roma (Napoleone e il mito di Roma in programma fino al 30 maggio ma per ora sospesa causa Covid-19): curata da Claudio Parisi Presicce, Massimiliano Munzi, Nicoletta Bernacchio e Simone Pastor l’esposizione chiarisce in particolare «il rapporto che Napoleone ebbe con i modelli classici e la sua capacità di mettere in pratica un’archeologia delle immagini del potere attraverso il recupero meticoloso (ma anche a volte spregiudicato) di simboli, figure e concetti del passato come la nudità eroica, le insegne del potere, l’aquila». È l’anticomania ben testimoniata dal Napoleone che ispira l’Italia e la fa risorgere a più grandi destini , il gruppo scultoreo di Vincenzo Pacetti (1746-1820) oggi conservato nel Castello di Fontainebleau nel quale i riferimenti, le allusioni, i prestiti dalla classicità (frequentemente replicati in un buon numero di copie) servono in primo luogo a costruire la leggenda dell’Imperatore.
Gros, Bouchot, Gerard, Vernet, Meissonier, Steuben, Eastlake, Phillips: la ritrattistica (ufficiale e no) alla fine ha comunque raccontato più il personaggio che l’artista. Con qualche bella eccezione, come il busto di Napoleone «all’eroica» (18061807) in marmo bianco con piedistallo in marmo verde bronzo di Lorenzo Bartolini (1777-1850) dal Museo Civico di Prato. O il sorprendente Napoleone avvolto nel suo sogno (1909 circa) di Auguste Rodin (1840-1917), scoperto solo nel 2014 a Madison, piccola città del New Jersey, da una giovane studentessa d’arte e oggi conservato al Philadelphia Museum of Art; un busto nel quale tutti gli elementi di contemporaneità sono stati eliminati e Napoleone appare sommerso fino al collo dal blocco di marmo bianco (il cui trattamento suggerisce un mantello da imperatore romano).
Bonaparte che valica il San Bernardo (1800-1803) di Jacques-Louis David (17481825) è sicuramente una delle opere più ispirate (nonostante fosse stata concepita a scopo essenzialmente propagandistico) e più conosciute tra quelle dedicategli, nel tempo riprodotta tramite incisioni, dipinta su vasi, trasformata in puzzle o francobolli. Un grande olio su tela (260 centimetri per 230) in cinque versioni oggi conservate tra la Francia — Castello della Mailmason e reggia di Versailles (due versioni) — il castello di Charlottenburg (Berlino) e il palazzo del Belvedere di Vienna: la prima commissionata dal Re di Spagna Carlo IV «come tentativo di intesa tra il suo regno e la Repubblica francese»; l’ultima voluta direttamente dall’artista che l’avrebbe tenuta con sé fino alla morte. Nelle cinque versioni si intrecciano, con poche differenze, la romanità della statua equestre di Marco Aurelio, il Rinascimento dell’Eliodoro cacciato dal Tempio di Raffaello e la classicità seicentesca del Tito a cavallo rappresentato da Nicolas Poussin nella Distruzione del Tempio di Gerusalemme.
Proprio al Bonaparte a cavallo di David (raffigurato mentre attraversa il colle del Gran San Bernardo con l’armata che l’accompagnerà nella vittoriosa seconda campagna d’Italia) sembrano guardare con estremo interesse moderni e contemporanei. L’inafferrabile Banksy, nell’estate del 2018, ha così realizzato a Parigi in un quartiere popolare costellato di tendopoli di migranti la sua versione: con il mantello (un mantello che ricorda molto la bandiera francese) che si avvolge intorno al volto del cavaliere come se fosse un velo, denunciando così la condizione dei migranti e criticando la politica del presidente Emmanuel Macron. Stesso modello (David) anche per l’irriverente Diana Vreeland Rampant, stampa-collage a colori del 1984 di Andy Warhol (19281987), nella quale al posto dell’Imperatore compare l’«Imperatrice della moda», e per Maurizio Rapiti (1985), che per il Premio Celeste del 2013 aveva ironicamente immaginato e messo sulla tela la sua convinzione che il cavallo bianco di Napoleone in realtà fosse color legno.
Solo una decina di centimetri dividono all’apparenza l’originale di David (che non potendo contare su Napoleone come modello avrebbe utilizzato i propri figli) e la sua rilettura forse più eclatante, quella di Kehinde Wiley (1977), l’artista afroamericano autore diventato famoso per le sue «versioni» in chiave pop dei classici della ritrattistica e che a dicembre di quest’anno si cimenterà per la prima volta, in occasione della sua monografica alla National Gallery di Londra, con la grande pittura europea di paesaggio. Il suo Napoleon Leading the Army over the Alps (2005), conservato al Brooklyn Museum di New York, è emblematico di un lungo rapporto (e talvolta complicato) con la pittura dei maestri, un confronto sintetizzato nell’affermazione di Wiley che si dichiara «attratto da quella fiamma e desideroso di spegnerla». Ma l’artista vuole trascendere «la capacità del ritratto di trasmettere il potere del soggetto», evidenziando anche con il suo Napoleone «che le persone di colore — ha spiegato — sono state tenute fuori dalla storia tradizionale». Wiley, dunque, partendo da David offre un’alternativa alla storia.
Wiley mantiene la posa e la composizione dell’originale, sostituendo la figura eroica di Napoleone con quella di un giovane afroamericano di oggi che indossa una tuta mimetica e che calza delle Timberland. Sullo sperone roccioso in primo piano, accanto al nome di Annibale, compare quello del modello (Williams), quasi a voler sottolineare la forza contemporanea dell’anonimato rispetto a una celebrità vista ormai come anacronistica manifestazione del potere. Con Wiley, il cielo blu di David si trasforma poi in una «quinta» di broccato rossastro impreziosita da motivi floreali dorati, dove compaiono spermatozoi sparsi simili a gioielli. Esplicito riferimento a quella sessualità e a quella «ipermascolinità» che Wiley sembra associare all’aggressività, militare o meno, di Napoleone.