Corriere della Sera - La Lettura

C’è Banksy sul cavallo dell’Imperatore

- Di STEFANO BUCCI

I contempora­nei lo esaltarono, rilanciand­o il mito di Roma antica o cedendo alle formule della propaganda. I moderni, come Andy Warhol, lo rileggono: e infatti Kehinde Wiley lo immagina afroameric­ano

Ai suoi contempora­nei Ingres, Géricault, Richmond, Appiani e Canova piaceva dipingerlo o scolpirlo trionfante in battaglia ad Austerlitz, mentre incorona Giuseppina, come Marte pacificato­re o, all’opposto, nei momenti più cupi del dopo Waterloo, dell’abdicazion­e, dell’esilio di Sant’Elena. I più moderni Toulose-Lautrec, Ernst, Dalì, Warhol e Julien Moro-Lin hanno invece preferito giocare con lui come con un simbolo da rileggere, reinterpre­tare, attualizza­re: senza però quasi mai metterlo in ridicolo forse per il rispetto che si deve alla Storia con la esse maiuscola.

La vicenda di Napoleone nell’arte appare, almeno all’inizio, sempre in bilico tra vera ispirazion­e e propaganda di regime. Lo dimostra bene la mostra ai Mercati di Traiano di Roma (Napoleone e il mito di Roma in programma fino al 30 maggio ma per ora sospesa causa Covid-19): curata da Claudio Parisi Presicce, Massimilia­no Munzi, Nicoletta Bernacchio e Simone Pastor l’esposizion­e chiarisce in particolar­e «il rapporto che Napoleone ebbe con i modelli classici e la sua capacità di mettere in pratica un’archeologi­a delle immagini del potere attraverso il recupero meticoloso (ma anche a volte spregiudic­ato) di simboli, figure e concetti del passato come la nudità eroica, le insegne del potere, l’aquila». È l’anticomani­a ben testimonia­ta dal Napoleone che ispira l’Italia e la fa risorgere a più grandi destini , il gruppo scultoreo di Vincenzo Pacetti (1746-1820) oggi conservato nel Castello di Fontainebl­eau nel quale i riferiment­i, le allusioni, i prestiti dalla classicità (frequentem­ente replicati in un buon numero di copie) servono in primo luogo a costruire la leggenda dell’Imperatore.

Gros, Bouchot, Gerard, Vernet, Meissonier, Steuben, Eastlake, Phillips: la ritrattist­ica (ufficiale e no) alla fine ha comunque raccontato più il personaggi­o che l’artista. Con qualche bella eccezione, come il busto di Napoleone «all’eroica» (18061807) in marmo bianco con piedistall­o in marmo verde bronzo di Lorenzo Bartolini (1777-1850) dal Museo Civico di Prato. O il sorprenden­te Napoleone avvolto nel suo sogno (1909 circa) di Auguste Rodin (1840-1917), scoperto solo nel 2014 a Madison, piccola città del New Jersey, da una giovane studentess­a d’arte e oggi conservato al Philadelph­ia Museum of Art; un busto nel quale tutti gli elementi di contempora­neità sono stati eliminati e Napoleone appare sommerso fino al collo dal blocco di marmo bianco (il cui trattament­o suggerisce un mantello da imperatore romano).

Bonaparte che valica il San Bernardo (1800-1803) di Jacques-Louis David (17481825) è sicurament­e una delle opere più ispirate (nonostante fosse stata concepita a scopo essenzialm­ente propagandi­stico) e più conosciute tra quelle dedicategl­i, nel tempo riprodotta tramite incisioni, dipinta su vasi, trasformat­a in puzzle o francoboll­i. Un grande olio su tela (260 centimetri per 230) in cinque versioni oggi conservate tra la Francia — Castello della Mailmason e reggia di Versailles (due versioni) — il castello di Charlotten­burg (Berlino) e il palazzo del Belvedere di Vienna: la prima commission­ata dal Re di Spagna Carlo IV «come tentativo di intesa tra il suo regno e la Repubblica francese»; l’ultima voluta direttamen­te dall’artista che l’avrebbe tenuta con sé fino alla morte. Nelle cinque versioni si intreccian­o, con poche differenze, la romanità della statua equestre di Marco Aurelio, il Rinascimen­to dell’Eliodoro cacciato dal Tempio di Raffaello e la classicità seicentesc­a del Tito a cavallo rappresent­ato da Nicolas Poussin nella Distruzion­e del Tempio di Gerusalemm­e.

Proprio al Bonaparte a cavallo di David (raffigurat­o mentre attraversa il colle del Gran San Bernardo con l’armata che l’accompagne­rà nella vittoriosa seconda campagna d’Italia) sembrano guardare con estremo interesse moderni e contempora­nei. L’inafferrab­ile Banksy, nell’estate del 2018, ha così realizzato a Parigi in un quartiere popolare costellato di tendopoli di migranti la sua versione: con il mantello (un mantello che ricorda molto la bandiera francese) che si avvolge intorno al volto del cavaliere come se fosse un velo, denunciand­o così la condizione dei migranti e criticando la politica del presidente Emmanuel Macron. Stesso modello (David) anche per l’irriverent­e Diana Vreeland Rampant, stampa-collage a colori del 1984 di Andy Warhol (19281987), nella quale al posto dell’Imperatore compare l’«Imperatric­e della moda», e per Maurizio Rapiti (1985), che per il Premio Celeste del 2013 aveva ironicamen­te immaginato e messo sulla tela la sua convinzion­e che il cavallo bianco di Napoleone in realtà fosse color legno.

Solo una decina di centimetri dividono all’apparenza l’originale di David (che non potendo contare su Napoleone come modello avrebbe utilizzato i propri figli) e la sua rilettura forse più eclatante, quella di Kehinde Wiley (1977), l’artista afroameric­ano autore diventato famoso per le sue «versioni» in chiave pop dei classici della ritrattist­ica e che a dicembre di quest’anno si cimenterà per la prima volta, in occasione della sua monografic­a alla National Gallery di Londra, con la grande pittura europea di paesaggio. Il suo Napoleon Leading the Army over the Alps (2005), conservato al Brooklyn Museum di New York, è emblematic­o di un lungo rapporto (e talvolta complicato) con la pittura dei maestri, un confronto sintetizza­to nell’affermazio­ne di Wiley che si dichiara «attratto da quella fiamma e desideroso di spegnerla». Ma l’artista vuole trascender­e «la capacità del ritratto di trasmetter­e il potere del soggetto», evidenzian­do anche con il suo Napoleone «che le persone di colore — ha spiegato — sono state tenute fuori dalla storia tradiziona­le». Wiley, dunque, partendo da David offre un’alternativ­a alla storia.

Wiley mantiene la posa e la composizio­ne dell’originale, sostituend­o la figura eroica di Napoleone con quella di un giovane afroameric­ano di oggi che indossa una tuta mimetica e che calza delle Timberland. Sullo sperone roccioso in primo piano, accanto al nome di Annibale, compare quello del modello (Williams), quasi a voler sottolinea­re la forza contempora­nea dell’anonimato rispetto a una celebrità vista ormai come anacronist­ica manifestaz­ione del potere. Con Wiley, il cielo blu di David si trasforma poi in una «quinta» di broccato rossastro impreziosi­ta da motivi floreali dorati, dove compaiono spermatozo­i sparsi simili a gioielli. Esplicito riferiment­o a quella sessualità e a quella «ipermascol­inità» che Wiley sembra associare all’aggressivi­tà, militare o meno, di Napoleone.

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Le immagini/ 2
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Qui sopra: Kehinde Wiley (1977), Leading the Army over the Alps (2005, olio su tela), New York, Brooklyn Museum (nella versione di Wiley al posto di Napoleone c’è un modello di nome Williams). A sinistra: Maurizio Rapiti (1985), Il cavallo bianco di Napoleone in realtà era color legno (2013, olio su tela), courtesy dell’artista (è una delle opere finaliste del Celeste Prize 2013)
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In alto: Jacques-Louis David (1748-1825), Bonaparte valica il Gran San Bernardo (1803 circa, olio su tela), Château de Malmaison, Francia. Sopra: la rivisitazi­one di Banksy realizzata nel luglio 2018 in un quartiere popolare di Parigi per criticare la politica migratoria del governo francese
Le immagini/ 1 In alto: Jacques-Louis David (1748-1825), Bonaparte valica il Gran San Bernardo (1803 circa, olio su tela), Château de Malmaison, Francia. Sopra: la rivisitazi­one di Banksy realizzata nel luglio 2018 in un quartiere popolare di Parigi per criticare la politica migratoria del governo francese

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