Corriere della Sera - La Lettura
Vienna insegna Non c’è ordine senza egemonia
Geopolitica Il riassetto europeo nel 1815 fu reso possibile dalla potenza britannica
Il 5 maggio 1821 l’Europa era in ebollizione: insurrezioni erano scoppiate in Spagna, in Portogallo, a Napoli, in Sicilia, in Grecia e in Piemonte, senza parlare delle colonie spagnole in America. Otto giorni dopo la morte di Bonaparte, si chiudeva a Lubiana un vertice tra Austria, Prussia e Russia, decise a farla finita una volta per tutte con le «criminali imprese insurrezionali» di cui la Rivoluzione francese prima, e le guerre napoleoniche poi, avevano gettato i semi.
Poteva sembrare che il nuovo ordine imposto a Vienna sei anni prima fosse già sul viale del tramonto. Invece, quell’equilibro rese impossibile per quasi quarant’anni (fino alla guerra di Crimea) lo scoppio di un nuovo conflitto tra le grandi potenze, e cominciò a vacillare pericolosamente solo quando il suo presupposto prinno cipale — la stabilità al centro dell’Europa — venne meno in seguito all’unificazione tedesca.
Il Congresso di Vienna è considerato una sorta di paradigma della balance of power, cioè di un assetto politico internazionale nel quale il vincitore di un conflitto generalizzato ridistribuisce la forza delle altre potenze (alleate e rivali) in modo da equilibrarle tra di loro; in modo, cioè, che nessuna abbia la capacità di imporsi su un’altra. Non era però la prima volta che una grande guerra aveva creato le condizioni per dar vita a un «ordine mondiale» relativamente stabile e duraturo e non sarebbe stata l’ultima.
Dopo Waterloo, alcuni monarchi rimessi sul trono dalle baionette dei vincitori sognarono una restaurazione dell’Ancien Régime diventata però impossibile. Le riforme amministrative e sociali imposte dai francesi furoin molti casi irreversibili: il codice napoleonico sopravvisse all’Imperatore e, nel 1815, tutti gli Stati tedeschi abolirono la servitù della gleba, dopo che la Prussia era stata costretta a farlo nel 1807, sotto l’occupazione francese.
La carta politica dell’Europa uscì sconvolta dal Congresso di Vienna: il Sacro Romano Impero scomparve, e con esso sparirono vecchie gloriose repubbliche come Venezia e Genova, oltre alla Polonia, ai principati ecclesiastici in Renania e all’exclave pontificia di Avignone; al Piemonte fu regalata la Liguria e restituita la Savoia, per farne il contrappeso agli altri Stati italiani dipendenti dall’Austria e, al tempo stesso, per far da cuscinetto a una nuova, eventuale, invasione francese. Ma le trasformazioni più importanti,
le cui conseguenze arrivano fino ai giorni nostri, riguardarono l’Europa centrale e occidentale, e particolarmente la linea di faglia tra la Francia e il mondo tedesco.
Il grande architetto di quell’ordine nuovo era stato, agli inizi del secolo, William Pitt il Giovane, primo ministro britannico. L’imperativo degli inglesi era (e resterà) impedire a una potenza rivale di diventare egemone in Europa, mettendo in pericolo la loro supremazia sul mondo. Pitt constatava che l’«ordine mondiale» stabilito alla fine della guerra dei Trent’anni (1648), perpetuando la frammentazione del Sacro Romano Impero Germanico in centinaia di Stati e staterelli, aveva garantito alla Francia sia la possibilità di un’espansione territoriale ad est, sia l’assenza di una reale minaccia alle sue frontiere terrestri. Quella frammentazione, insomma, era per Parigi una tentazione permanente e, dunque, un rischio permanente di egemonia francese sull’Europa — un rischio che Napoleone stava in quegli anni trasformando in realtà. La soluzione consisteva nel rafforzare il mondo tedesco, in modo da disincentivare l’espansionismo francese senza però indebolire troppo la Francia, per evitare che lo stesso mondo germanico potesse a sua volta coltivare la velleità di diventare potenza egemone in Europa.
Così, alla Prussia fu annessa parte della Renania (e, ad est, parte della Pomerania e della Sassonia); l’Austria, dal canto suo, fu sloggiata dai Paesi Bassi (messi di fatto sotto la tutela di Londra), e compensata abbondantemente in Polonia, Galizia, Bucovina, Slavonia e Veneto, il più lontano possibile da Dover. Gli Stati tedeschi, da 234 che erano nel 1789, si ridussero a 40, in una nuova configurazione che permetteva di controbilanciare la Francia ad ovest e la Russia ad est, facendo al tempo stesso della Prussia il rivale germanico dell’Austria.
Quell’ordine europeo, però, fu reso possibile non tanto dai calcoli «geopolitici» di Pitt (che morì prima di vederli realizzati), quanto dalla forza egemonica della Gran Bretagna. Benché le guerre europee le fossero costate quattro volte di più che alla Francia, Londra si trovò nel 1815 a essere più ricca di quanto non lo fosse nel 1789 e, per di più, liberata dallo storico nemico continentale. Quell’ordine resse finché la Gran Bretagna fu in grado di svolgere un ruolo di «stabilizzatore egemonico», cioè fino a quando gli Stati Uniti non furono sufficientemenla te forti per contestarglielo e la Prussia abbastanza forte da abbattere la colonna portante di quell’equilibro: la frammentazione del mondo tedesco.
Gli Stati Uniti, ereditando il ruolo di prima potenza, ereditarono anche la preoccupazione di un possibile controllo egemonico dell’Europa da parte di una potenza rivale. Per questo, dopo la Seconda guerra mondiale, si ripeté uno scenario simile a quello di Vienna 130 anni prima. Anche gli Usa erano molto più ricchi nel 1945 di quanto non lo fossero nel 1939; anche gli Usa furono in grado di vincere la guerra grazie ai loro alleati, e quindi di imporre una balance of power in cui un’Urss enormemente rafforzata e un’Europa occidentale enormemente indebolita (e privata di mezza Germania) avrebbero impedito per decenni a ogni potenza di poter rivaleggiare con loro. Quell’ordine resse fino a quando Germania Ovest fu forte abbastanza da distruggerne la colonna portante — la sua divisione e la divisione del continente — e fino a quando la Cina non è diventata forte abbastanza da contestare agli Stati Uniti il ruolo di prima potenza mondiale.
L’«ordine mondiale» di cui oggi si favoleggia può nascere solo se esiste uno «stabilizzatore egemonico», cioè una potenza tanto forte da poter dettare le regole, imporre il loro rispetto, ma anche farsi carico degli oneri più gravosi per mantenerlo. È quanto hanno insegnato i due «ordini mondiali» precedenti, quello di Vienna e quello di Yalta; ed è quanto ha insegnato, dopo la Prima guerra mondiale, il «gran rifiuto» di Washington di assumersi quell’impegno: in assenza di «stabilizzatore egemonico», ci può solo essere un grande disordine mondiale.