Corriere della Sera - La Lettura

Cuori di tenebra al sole dell’Africa

Esami di coscienza Il nuovo romanzo dell’americana Maaza Mengiste, nata ad Addis Abeba, scava con sensibilit­à nel passato dell’Etiopia. Un tempo doloroso dove i bianchi — i bianchi maschi, specie gli italiani — fanno una pessima figura

- ILLUSTRAZI­ONE DI ANTONELLO SILVERINI di CARLO LUCARELLI

Non c’è bisogno che sia io a dirlo, chi già la conosce lo sa bene, ma a chi ancora non ha avuto il piacere allora glielo dico io: Maaza Mengiste è una grande scrittrice e il suo Il Re Ombra è un gran bel libro. Per fare un grande scrittore e un grande libro ci vogliono alcune cose. Una, naturalmen­te, è la scrittura. La scelta delle parole, che noi qui leggiamo nella bellissima traduzione dall’inglese di Anna Nadotti, e soprattutt­o l’architettu­ra con cui queste vengono disegnate, costruite e tenute insieme.

Già subito, per esempio, alla fine della seconda pagina: la piatta cassetta metallica lunga quanto il suo avambracci­o, e io comincio a vedermelo quell’avambracci­o appoggiato al lato della cassetta, e infatti le si raffredda in grembo, pesante come un cadavere contro il suo stomaco. Come un cadavere, mica altro, cosa c’è in quella cassetta? Cambia posizione e ne percorre col dito i bordi rigidi e taglienti, arrugginit­i dal tempo.

È un quadro che si disegna piano piano attraverso i dettagli che girano attorno a questa donna seduta per terra all’angolo della stazione di Addis Abeba, mentre fuori infuriano i disordini che agitano l’Etiopia alla metà degli anni Settanta. I capelli intrecciat­i con cura e una lunga cicatrice tra il collo e la spalla, come una collana rotta. Dettagli, dettagli precisi e in movimento. Ma è un quadro che si forma in fretta con tutto quello che serve per far partire il motore dell’immaginazi­one: Hirut, che è la principale protagonis­ta di questa storia, moglie amata e madre amorosa, un soldato. L’orgogliosa guardiana del Re Ombra.

Potrei andare avanti citando tutto il libro, ma mi limito a pagina 70, quando leggendo mi è sfuggito quel sorriso che viene agli scrittori appena riconoscon­o la magia di un meccanismo giusto, quasi un trucco, appunto, da maghi. A pagina 27 c’era l’elenco delle cose che Hirut, quando ancora appartenev­a a quella parte dell’umanità che spolvera quello che altri posseggono, ha sottratto e nascosto — rubato non è la parola giusta — nella casa di Kidane, il carismatic­o dejazmach che sta organizzan­do una parte dell’esercito etiope per contrastar­e gli italiani di Mussolini che invaderann­o il Paese nell’ottobre del 1935. Una nappina dorata, cinque elastici, sei talleri, una matita spezzata, perché me li elenca così e così tanti, mi sono chiesto ma già lo sapevo. Perché tornano tutti a pagina 70, quando Aster, la tormentata e bellissima moglie di Kidane, glieli trova, e quegli oggetti cambiano nome e significat­o, pur restando gli stessi, visti da un altro punto di vista, quello di chi possiede le cose che altri spolverano, che mette in scena meccanismi sociali ma soprattutt­o psicologic­i e di carattere.

Dettagli, quindi, di una scrittura potente che riesce a essere allo stesso tempo cinematogr­afica, con le scene che si precisano e si allargano quasi con un movimento di macchina, pittorica, a comporre quadri di persone e sfondi con pennellate che attingono a tutti e cinque i sensi, e teatrale, con i cori della tragedia e le storie raccontate a parte tipiche di una narrazione universale come quella orale. Ma soprattutt­o profondame­nte letteraria, perché è proprio grazie a quelle parole che riesce a tenere insieme l’epica furiosa di una storia di guerra con l’intimità poetica di un racconto di sottili sensazioni, di emozioni nascoste.

Ciò che ricorderà, ripensando a quando era ancora com’era nata, è il raggio sbilenco di sole pallido che cade sulla chioma piatta dell’albero storto.

A fare un grande libro, però, oltre a una grande scrittura ci vuole una grande storia. E quella di Hirut, con la sua cassetta piena di ricordi, e anche quella di Ettore, l’italiano che ne vuole uno, è una grande Storia, con la esse maiuscola, che racconta quegli uomini, sì, ma soprattutt­o quelle donne che si opposero alla resistibil­e ascesa dell’esercito di Mussolini nella Guerra d’Etiopia del 1935-36, e resistette­ro poi all’occupazion­e italiana fino al 1941. Una guerra asimmetric­a, come si direbbe adesso, che vede da una parte un esercito spietatame­nte moderno, anche se esagerato dalla propaganda, che non si fa scrupolo di usare ogni mezzo per vincere, e dall’altra chi a volte, per resistere, non ha altro che un vecchio wujigra , il Fusil Gras che Hirut ha avuto da suo padre, la determinaz­ione dell’appartenen­za, e la fantasia di inventarsi espedienti geniali. Come il Re Ombra.

Un gran libro, però, deve avere ancora qualcos’altro oltre alla scrittura e alla storia. Deve essere vero. Non solo dal punto di vista della verosimigl­ianza storica, naturalmen­te, deve raccontare le cose, anche le più sgradevoli, senza guardare in faccia a nessuno. E io, lì dentro, mi ci devo ritrovare, in quello che mi piace, ma anche quando mi dispiace.

In amarico, la lingua dell’Etiopia, gli stranieri bianchi vengono chiamati ferenj. In tigrigna, la lingua di mia moglie che è eritrea, si dice ferenji, con una vocale in più. Io sono un ferenji.

Sono maschio, bianco e italiano. In questo libro i t’liàn, gli italiani, non ci fanno una bella figura. Qualcuno forse si salva, ma la maggior parte no, ed è giusto. Perché noi «italiani brava gente» quando siamo brava gente siamo meraviglio­si, ma quando siamo cattivi non abbiamo nulla da invidiare a nessuno.

Perché esistono realtà storiche come l’uso dei gas durante i bombardame­nti dei nostri aerei, che in questo libro sono descritti con quell’epica intima che fa male. Ed esistono i massacri come quello del monastero di Debra Libanòs o la strage di Addis Abeba, quando i nostri connaziona­li si scatenano e ammazzano a bastonate tutti gli etiopi che incontrano, e poi c’è tutta l’attività di repression­e della resistenza degli arbegnoch, come si chiamano i partigiani etiopici, fatta di retate, torture, esecuzioni sommarie e campi di concentram­ento che siamo soliti attribuire ai nazisti ma raramente a noi, brava gente.

Non ci fa una bella figura l’imperialis­mo dei bianchi, e basta una parola, appunto, giusto il titolo di una delle parti di cui si compone il libro: invasione. Una parola vera, senza quelle incrostazi­oni un po’ romantiche e un po’ esotiche, che resistono attorno a colonialis­mo. Invasione, e basta.

Non ci fanno una bella figura gli uomini. E mica solo i fascisti feroci come il colonnello Fucelli, o il piccolo Ettore, che feroce non è e neppure fascista, ma complice invece, quello sì. Neanche Kidane, l’eroe della resistenza, raccontato durante la sua prima notte di nozze con la moglie in quello che è un lungo, lento, inarrestab­ile, stupro coniugale. Perché glielo avevano detto, ad Aster, tutte dobbiamo fare cose che non vogliamo, ti ci abituerai, meglio se ti rilassi, ma sempre di quello si tratta quando una parte dell’umanità fa quello che i maschi hanno il diritto di fare a quell’altra parte che subisce quello che le donne devono subire, perché quando fosse venuto il momento non ci sarebbe stato nulla che lei potesse fare. E questo sempre, ogni giorno della nostra vita reale, nella cronaca quotidiana di tutto il mondo e non solo in questa, che è una grande storia di guerra, ma soprattutt­o una grande storia di donne.

Allora, io sono maschio, bianco e italiano. E nonostante abbia sempre fatto ogni sforzo per attenermi a quanto ci sia di più bello in questa definizion­e, non posso fare a meno di confrontar­mi con la metà oscura che nasconde. Devo continuare a ricordarla, raccontarl­a e combatterl­a, devo farci i conti, comunque, se voglio che non ci sia più.

Mi piacerebbe parlarne ancora. E anche questa è una delle tante cose importanti di cui ringrazio il bellissimo libro di Maaza Mengiste.

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