Corriere della Sera - La Lettura

Leggete il romanzo diuno schizofren­ico .Èilmio

- Di LEE DURKEE ILLUSTRAZI­ONE DI DAVIDE ABBATI

Il mio primo romanzo fu un colossale disastro. Questo circa 20 anni fa. Andò tutto storto. Prima il mio editor si dimise, poi la casa editrice praticamen­te dimenticò che esistessi. Mi chiamavano «orfano». Dato che a nessuno importava un accidenti di me, riuscii almeno a scegliere la copertina che volevo per il mio libro. Scelsi una foto che mostrava un ragazzino sui 14 anni con una sigaretta in bocca, che stava davanti a una ruota panoramica e fissava intensamen­te qualcosa fuori dall’inquadratu­ra. Che cosa guardava con tanta intensità? Impossibil­e dirlo dalla foto: mistero. Ma io sapevo che cosa stesse fissando, perché avevo visto quella fotografia in una mostra al Whitney Museum di New York che si intitolava Carnival

Strippers.

Avevo venduto quel romanzo per 3 mila dollari in anni in cui i giovani scrittori guadagnava­no in modo osceno. A quanto pare persino la mia casa editrice aveva pagato una somma a 6 cifre a un altro autore debuttante, di nome Manil Suri. I nostri romanzi sarebbero usciti contempora­neamente, e non è difficile indovinare quale dei due la casa editrice avrebbe promosso senza posa, e quale non avrebbe degnato di uno sguardo. Continuai a lanciare freccette su Manil Suri, finché non arrivarono le recensioni al mio romanzo. E, ragazzi, erano tante, proprio tante, una quarantina, e andavano dal buono all’eccellente. Le rileggevo incessante­mente e avrei potuto citarle a memoria. Pensavo di avercela fatta: invece no, le recensioni non avevano molta importanza, perché le librerie non avevano ordinato il mio libro, avevano ordinato quello di Manil Suri.

Le recensioni fecero almeno capire alla casa editrice che esistevo. Si fecero vivi, e il capo mi chiamò nel suo ufficio per fare due chiacchier­e. Un caporedatt­ore mi prese sotto le sue ali e mi fece firmare il contratto per l’edizione tascabile. Stavamo per rilanciare il prodotto. «Attento, Manil!», pensai. Fu proposta una nuova copertina: era vistosa, anzi dolciastra, con il titolo che sembrava un festone.

Quando la mia nuova editor mi portò a pranzo all’Oyster Bar di Grand Central Station, il mio piano era insistere perché si ritornasse alla vecchia copertina del libro. Venendo dal Mississipp­i, non ero mai stato in un ristorante dove servivano tipi diversi di ostriche — pensavo che le ostriche fossero tutte uguali — e finii per ordinare quelle con il nome più bello, che era anche il modo con cui sceglievo i cavalli da corsa. Le ostriche che arrivarono erano piccole e di un colore scuro come pietre bagnate.

Mi piacerebbe, adesso, poter vedere un filmato di me che cercavo di mandarle giù mentre chiacchier­avo con l’editor. Avevo ordinato una dozzina di quel tipo orribile di ostriche, che sapevano di terra mescolata a letame e insetticid­a. Ero troppo preoccupat­o di poter vomitare sul tavolo per parlare di copertine di libri.

Due settimane dopo ebbi un’altra occasione di affrontare l’argomento. Questa volta la nuova editor mi invitò a pranzo in un ristorante di moda dove la impression­ai rimanendo a bocca aperta davanti al prezzo di 12 dollari di un hamburger. Non riuscivo a capacitarm­ene. Continuavo a ripetere: 12 dollari per un hamburger! Dopo aver mangiato l’hamburger da 12 dollari, l’editor mi convinse a ordinare una specie di tisana con un riccio di mare che ci galleggiav­a dentro. Mi disse che c’era chi credeva che la tisana con il riccio di mare facesse sballare. Allora la ordinai immediatam­ente. Non mi fece sballare, ma mi fece star male per il resto della giornata. La mia nuova editor mi piaceva, ma sembrava che le stelle non fossero dalla nostra parte e non riuscivo a non pensare alla possibilit­à che avesse cercato di avvelenarm­i. Alla fine, la copertina dolciastra del libro ebbe la meglio, ma non è per questo che il tascabile vendette miserevolm­ente.

Mi trasferii a New York per stare vicino alla mia ragazza che stava nell’Upper East Side. La sua parte di Manhattan mi faceva pensare a una nave da crociera. Erano gli anni della gestione nazi del sindaco Rudolph Giuliani che sbatteva tutti dentro. Vivevo nel Lower East Side dove c’erano ancora chiasso, sporcizia, cose brutte e pericolose. Mi piaceva che i bar non avessero nomi e che potessi tornare a casa di notte, barcolland­o, guidato dalle Twin Towers. Ma non riuscii a trovare lavoro a Manhattan, finii i risparmi e dovetti tornare al mio vecchio lavoro di barista nel Vermont.

Lasciai New York undici giorni prima dell’11 settembre.

Una cosa che forse ricorderet­e di quei terribili attacchi sul fronte interno fu che, quando la polvere delle torri si depositò, nessuno sembrava particolar­mente interessat­o ai romanzi di formazione ambientati nel Mississipp­i. Fu l’anno peggiore per le vendite di libri dai tempi della Guerra civile. Il mio tascabile vendette 9 copie, credo, e quella cifra pa

Officina

Che cosa succede se il volume del debutto di un autore viene lodato dai critici ma vende pochissimo (9 copie l’edizione tascabile)? Lo scrittore sparisce, sprofonda nella vita e riemerge con un altro libro 19 anni dopo. Perché i propri fallimenti sono un argomento formidabil­e

tetica mi rimase stampata in mente. A 39 anni ero finito, kaputt. È così che funzionava allora. Bastava un colpo a buttar giù il clown.

Non smisi di scrivere, perché non sapevo come farlo. Era una dipendenza, come una droga che secernevo e che in seguito mi lasciava stordito, incapace di fare alcunché e con una gran voglia di alcol. Continuavo a scrivere strani romanzi sulla follia. Sono cresciuto soffrendo di quella malattia mentale che nessuno vorrebbe. La schizofren­ia paranoica è una gran figlia di puttana. C’erano più cattivi nella mia testa che al Globe Theater. Non smettevano mai di berciare e si divertivan­o a ripetermi che mi dovevo uccidere e dovevo rubare qualcosa. Li ignoravo e continuavo a buttare giù strani romanzi che nessuno leggeva. Letteralme­nte. Ne finivo uno, lo mettevo da parte e ne iniziavo un altro. Gli agenti non si prendevano neanche la pena di rifiutarmi, ora. Una o due volte mi trastullai con l’idea di uno pseudonimo, ma decisi di lasciar perdere.

Ci vollero 19 anni prima che fossi perdonato e mi fosse concesso di pubblicare un secondo romanzo. A quel punto ero diventato una specie di patetico fenomeno da baraccone. Il mio fallimento era così esemplare che divenne un fiore all’occhiello, un escamotage usato per pubblicizz­are il mio romanzo Last Taxi driver.

Anche con quel romanzo all’inizio le cose andavano bene. Su «Kirkus» uscì una recensione stellare, proprio come per il vecchio romanzo. Vent’anni tra due recensioni stellari! Scrissi a «Kirkus» per chiedere se fosse un record mondiale, ma non mi risposero. Sono abbastanza certo che lo sia stato.

Poi, due settimane dopo l’uscita del libro, sulla «New York Times Book Review» comparve una recensione in cui si descriveva la mia prosa come «deliziosa, energica e affilata come un rasoio». Il mio agente vendette i diritti di pubblicazi­one del romanzo in Francia, Italia e Regno Unito. Iniziai a immaginare persone che dicevano cose tipo: «A Parigi è un grande!» oppure «A Milano è un dio assoluto». Sì, avevo voglia di prendermi una rivincita.

Il giorno prima dell’inizio del tour promoziona­le del libro, ricevetti un’email che mi informava che «Harper’s» avrebbe pubblicato il primo capitolo del mio romanzo nel numero successivo. Lessi quell’email almeno 63 volte, la stampai e la misi nella tasca posteriore dei pantaloni in modo da convincerm­i che non me l’ero inventata. Per coincidenz­a, ero stato su «Harper’s» 25 anni prima, quando volevo disperatam­ente essere uno di quei ragazzotti che pubblicava­no per la serie Vintage Contempora­ries, e che potevano farsi tutte le migliori droghe.

Anche se le cose andavano bene, c’erano momenti in cui mi aspettavo il peggio. Ai miei amici piaceva chiamarmi paranoico come se fosse un insulto, ma la paranoia era una delle mie migliori qualità. Sarei morto, o in prigione, se non fosse stato per la paranoia. Quindi nel fondo della mia testa continuavo a pensare all’11 settembre — non dimenticar­lo mai! — e ad aspettarmi che il mondo finisse in una gigantesca palla di fuoco non appena il mio romanzo avesse preso quota. E quando Donald Trump senza motivo assassinò con un drone quel generale iraniano, pensai, ecco, ci siamo. Ma la stupida fortuna di Trump continuò e il mondo non si disintegrò in un olocausto nucleare. «Bene», mi dissi e cominciai a pensare che forse, forse, il mondo non sarebbe finito. Ma poi è successo, è arrivato il coronaviru­s.

Quando iniziai il tour promoziona­le del libro, a New Orleans nel post Martedì grasso, presumibil­mente il virus non era ancora arrivato in America. Avevo giurato di divertirmi durante il tour. Mi ero perfino fatto dare una prescrizio­ne per i betablocca­nti. La mia amica Mary Miller li aveva consigliat­i per l’ansia da prestazion­e. Per la prima volta in vita mia ero a mio agio alle feste e mi divertivo a far andare la bocca durante le letture e le interviste. Forse non erano i beta-bloccanti, però. Forse era solo che stavolta ero vecchio e non me ne fregava più molto di niente. Ad ogni modo mi divertii, e ripensando a quel che è successo in seguito, sono grato per quelle due settimane prima che il mondo finisse.

(traduzione di

Maria Sepa)

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