Corriere della Sera - La Lettura

La sommersa salvata dai suoi inediti

Il retroterra di una voce che visse la condizione umana come prigionia

- Di DANIELE PICCINI

Piera Oppezzo appartiene al numero dei poeti sommersi del Novecento: lei nata a Torino nel 1934, vissuta dal ’66 a Milano e scomparsa, in solitudine, nel 2009 (lo stesso anno in cui moriva Alda Merini). Il secolo che attraversò non l’ha inserita negli elenchi dei nomi da ricordare. Tuttavia un gruppo di cultori lavora per riportare qualche traccia del suo lavoro all’attenzione di nuovi lettori. È così che, dopo la ricca antologia Una lucida disperazio­ne (Interlinea, 2016), vede la luce la raccolta Esercizi d’addio. Poesie inedite 19521965. Sono testi che non sono mai usciti in volume (semmai sparsi in rivista) e che arrivano fino all’anno subito precedente al prestigios­o esordio poetico di Oppezzo, avvenuto da Einaudi nel 1966 (L’uomo qui presente).

Subito il lettore si accorge della diversità degli inediti rispetto alla raccolta einaudiana: quella è già inscritta in una poetica astratta, concettual­e, mentre gli Esercizi d’addio rivelano un retroterra che definiremm­o esistenzia­lista. C’è, è vero, un punto di contatto. Nella quarta di copertina del libro di Einaudi si parla di una «riduzione del linguaggio», di un «preciso concetto di economia verbale». Su questo terreno si muovono anche gli Esercizi, ma con maggiore sospension­e evocativa.

Esercizi d’addio è un titolo parlante: non riguarda vicende affettive, ma il continuo, occhieggia­nte motivo del congedo dalla vita. Ecco, dunque, il sottofondo esistenzia­lista: questa prima e più potente poesia di Oppezzo fronteggia il disagio di una condizione umana vissuta come prigionia, attesa, dolore della ripetizion­e. Nel primo testo della raccolta, la chiusa recita: «Pure, tu, cerchi voci morte/ ed io sogno il tuo sogno/ nell’ora già breve e disciolta». In una ferrea sottrazion­e, la poetessa lascia in evidenza pochi segni ed emblemi di una vita incerta, presa tra l’iterazione, l’obbligo e l’estinzione.

È in questo spazio minacciato e ristretto che la poesia dell’autrice cerca la sua autenticit­à, citando a più riprese il grigiore dei giorni, le stagioni fredde, la morte di questa o quella figura come evento naturale inscritto nell’ordine. Non sentimenta­le ma riflessiva, questa poesia si concentra sull’enigma dell’io, sul suo scarso e ingannevol­e consistere: «Staccati ognuno di noi da noi/ per chi morire?/ E svegliarmi,/ vedere, patire la luce...// Ho forse giurato/ a una fede?/ Ma una legge di dolore/ ci comanda./ E ormai, per sempre,/ io sono e sarò io».

C’è forse qualcosa, un lontano

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