Corriere della Sera - La Lettura
Schlöndorff ela Germania «Non sa più chi è. Meglio»
Il Bergamo Film Meeting dedica una retrospettiva al regista premio Oscar, ora ottantaduenne. Che con «la Lettura» ripercorre una carriera formidabile: grandi compagni di strada e un appassionato corpo a corpo con l’identità tedesca
Quando Volker Schlöndorff risponde al telefono a «la Lettura» è in partenza per l’Etiopia. Sta girando un documentario sull’agricoltura nei Paesi del Sahel. A 82 anni il regista tedesco non si è mai fermato. Il suo primo lungometraggio porta la data del 1966, I turbamenti del giovane Törless, realizzato in Germania dopo il ritorno da Parigi dove aveva vissuto respirando l’aria della Nouvelle Vague e dov’era stato assistente alla regia di Jean-Pierre Melville, Louis Malle e Alain Resnais. Poi l’incontro con gli altri esponenti del nuovo cinema tedesco; la Palma d’oro a Cannes nel 1979, a pari merito con Apocalypse Now, per Il tamburo di latta, vincitore anche dell’Oscar come miglior film straniero. E ancora i film americani negli anni Ottanta, l’incontro con Billy Wilder (raccontato anche nel documentario Billy, How Did You Do It?), le regie teatrali e d’opera. Il suo film più recente, Rückkehr nach Montauk , è del 2017. La 39ª edizione del Bergamo Film Meeting, online dal 24 aprile al 2 maggio, gli dedica una retrospettiva che ripercorre tutta la sua produzione. «Sono stato a Bergamo orami cinquant’anni fa. Lì girammo per qualche giorno uno dei miei primi film con Margarethe von Trotta, Fuoco di paglia. Un piccolo distributore aveva fatto il doppiaggio italiano ma ne aveva cambiato le musiche. L’abbiamo trovato anche piuttosto divertente». Parla in italiano Schlöndorff, merito di quarant’anni di soggiorni toscani.
È iniziato tutto in Francia...
«Fu l’amore del cinema a portarmi lì. Avevo 16 anni, dovevo starci per due mesi, per imparare la lingua, ma poi mi sono trovato così bene che ci sono rimasto 10 anni. Volevo imparare il francese perché in Germania il cinema era brutto, povero, stupido: i film più interessanti, a parte qualche western americano, erano quelli francesi. Era il periodo di Rififi e altri, prima della Nouvelle Vague. C’erano Cocteau e il cinema d’arte... A Parigi ho frequentato il liceo Henri IV, e accanto a me c’era questo ragazzo più giovane di un paio d’anni: Bertrand Tavernier (regista scomparso lo scorso 25 marzo, ndr). Avevamo in comune la passione per il cinema. C’incoraggiammo a vicenda. Dopo la maturità iniziammo a frequentare la Cinémathèque. Bertrand faceva interviste ai registi per piccole riviste e quando incontrò Melville mi propose come aiuto regista. Così iniziò tutto. Lui faceva l’aiuto dell’aiuto, è stato determinante per la mia carriera, il migliore impresario che abbia mai avuto. Accadde tutto molto velocemente, in poco tempo ero diventato un aiuto regista professionista».
Per il suo primo film da regista, «I turbamenti del giovane Törless», tornò in Germania.
«Furono i miei amici francesi a spingermi a tornare. Siamo già in tanti registi qui, vai in Germania per vedere che cinema fanno lì. Il cinema tedesco della fine anni Cinquanta/inizi Sessanta era fatto di cliché, personaggi e ambienti non veri. Io, in qualche modo, mi sono fatto portatore delle invenzioni della Nouvelle Vague. Ma in realtà il clima stava già cambiando. Un gruppo di giovani aveva pubblicato il Manifesto di Oberhausen contro il cinema di papà. Ho conosciuto Werner Herzog e Alexander Kluge, e poi Rainer Werner Fassbinder e Wim Wenders. Eravamo un gruppo di giovani registi che volevano fare il cinema di oggi con gente di oggi, confrontarci con la realtà, girare nelle strade, con personaggi che erano come noi, film su di noi. Questo era il Junger Deutscher Film, il nuovo cinema tedesco».
La sua carriera è costellata di collaborazioni. Il sodalizio con Margarethe von Trotta, con cui ha scritto film come «Fuoco di paglia» (1972), «Il caso di Katharina Blum» (1975, codiretto), «Colpo di grazia» (1976). I film collettivi con Kluge e Fassbinder. Le sceneggiature con Jean-Claude Carrière. Ha sempre vissuto la natura collettiva del cinema.
«Sono impaziente, sempre in movimento. Non potevo fare lo scrittore. La sensazione che la vita trascorra là fuori
mentre io sono seduto a scrivere è sempre stata troppo frustrante. Invece il cinema fa per me: ogni film è come una spedizione fatta in gruppo. Fin dall’inizio. Un gruppo in cui mi sono sempre trovato bene e che alla fine è un gruppo limitato: attorno alla macchina da presa ci stanno 4, 5 o 6 persone. La collaborazione per me è fondamentale e inizia dalla sceneggiatura. Non posso lavorare da solo».
Ha vissuto gli anni d’oro della Cinémathèque française, dei dibattiti e dei confronti tra cinefili. Ci sono oggi luoghi di quel tipo?
«Per fare il cinema bisogna essere molto fortunati e io mi sono trovato nel luogo giusto al momento giusto. Nella Parigi di allora il cinema era una religione che attirava molti giovani. Ora no. Si vedono tantissimi film ma non nei cinema. Su qualsiasi supporto, spezzati in più parti. La nozione di film come un oggetto unico che comincia e finisce quasi non esiste più. L’immersione è totale ma manca una conoscenza del linguaggio. La Nouvelle Vague o registi come Antonioni hanno cambiato il linguaggio del cinema di allora, le sue regole, la sintassi. Oggi non ci sono regole. Lo vedo nelle scuole di cinema, quello che esisteva prima di vent’anni fa sembra non interessare. È un vicolo cieco. Vale anche per le serie tv: non hanno inizio né fine, tutto scorre. Una perdita enorme anche per gli spettatori».
Come vede il destino delle sale?
«Ci saranno sempre e si continuerà a riunirsi, ogni tanto, per vivere un’esperienza comune di visione. Ma avverrà sempre meno, anche dopo l’emergenza Covid. I “vecchi” spettatori si sono disabituati e molti giovani non hanno mai preso l’abitudine. Sono felice di aver vissuto quelli che forse sono i cinquant’anni più belli del cinema. Detto questo, non sono totalmente pessimista. Il cinema è stato un fattore di comunicazione enorme e continua a esserlo. A distanza, nella solitudine, i giovani discutono. Ma ora le vie sono diverse: istantanee e digitali».
Molti suoi film sono tratti da opere letterarie: «I turbamenti del giovane Törless» da Robert Musil, «Il caso Katharina Blum» da Heinrich Böll, «Il tamburo di latta» da Günter Grass, «Colpo di grazia» da Marguerite Yourcenar, «Il racconto dell’ancella» da Margaret Atwood…
«All’inizio non è stato intenzionale. Nel romanzo di Musil si parlava di un collegio, un universo che conoscevo bene. Poi mi sono reso conto lavoravo meglio quando partivo da un romanzo rispetto a costruire una sceneggiatura da zero: non ho questo dono, sono un semplice regista. E poi la lettura è il mio elisir. Ho combinato le mie passioni, il cinema e la letteratura, e ne ho fatto il mio mestiere».
Ha affrontato grandissimi autori, come Proust in «Un amore di Swann».
«Truffaut diceva che i migliori film si fanno a partire da roman de gare, romanzetti che si leggono in treno, da buttare dopo la lettura. Ma io rifuggo dai romanzi di cui si dice che si vede già il film. Ho bisogno della sfida, di partire da un romanzo in cui il film non si vede, considerato impossibile da adattare perché troppo intellettuale. Per questo mi sono confrontato con Musil, Proust, Yourcenar, Günter Grass... dietro a questi film stava la sfida, provare a vedere che oggetto sarei riuscito a realizzare. Sono come gli scalatori che di una montagna scelgono la parete nord, la più dura».
Si confrontano linguaggi diversi?
«Esatto. Non si può trovare un equivalente cinematografico al linguaggio di Proust o Grass. Bisogna deviare, inventare. Capire come raccontare la stessa storia con mezzi diversi ottenendo, si spera, lo stesso effetto: non sempre riesce. Con Il tamburo di latta ho temuto fino alla fi-ne di non riuscire a creare un oggetto di un’altra forma artistica ma che sarebbe stato simile al libro. Solo durante il lavoro, a poco a poco, scopriamo come fare. Parlo al plurale perché è proprio questione di cooperazione: la scrittura con Carrière, la fotografia di Igor Luther».
Gli attori...
«Il cinema è l’arte degli attori, dei loro volti. Se non avessimo trovato il bambino giusto il film del Tamburo di latta non sarebbe esistito. Perché il pubblico vede l’attore. Da ragazzino credevo che L’uomo
del West fosse di Gary Cooper, non avevo idea che ci fossero una sceneggiatura e un regista. Gli spettatori hanno una relazione emotiva diretta con gli attori: l’arte del regista sta nel trovarli e dirigerli in modo che possano comunicare con il pubblico. È ciò che ha reso Visconti, Fellini, Antonioni, Rossellini grandi registi: l’incarnazione del cinema. Per ciascuno dei miei film io vedo un volto: per Törless è Mathieu Carrière; per il Tamburo è David Bennent; per Il caso Katharina Blum
Angela Winkler; per Colpo di grazia e
Fuoco di paglia Margarethe von Trotta; Dustin Hoffman per Morte di un commesso viaggiatore... Mi ha fatto piacere che per il poster del festival di Bergamo sia stato scelto il volto di Anita Pallenberg, protagonista del mio secondo film
(Vivi ma non uccidere) che non era un granché, ma lei era grandiosa».
Nei suoi film ha raccontato la Germania, il nazismo, la Seconda guerra mondiale. Un impegno sociale?
«Gli amici francesi mi avevano di fatto affidato una missione: raccontare la Germania. Per parlare del presente bisognava parlare del passato. E visto che sono nato nel 1939, non avevo altra scelta che parlare della guerra, del nazismo. Su di noi era caduta la colpa per un qualcosa che non avevamo fatto ma che pesava ugualmente, perché era parte della cultura di cui ancora facevamo parte, un’eredità con cui dovevamo confrontarci. Più della metà dei miei film ha a che fare, più o meno direttamente, con il nazismo... non potevo fare diversamente. È una questione di coscienza sociale e politica».
Della Germania di oggi che cosa racconterebbe?
«È difficile parlarne, perché ha perso un po’ la sua identità. In un certo senso è positivo. Ma i tedeschi oggi, di fatto, non sanno chi sono. Quella tedesca di oggi è una società più materiale. Tutto ruota attorno al lavoro. Sono schiavi di sé stessi».
Il cinema può raccontare la pandemia di Covid-19, il momento storico che stiamo vivendo?
«Il cinema non è il mezzo per parlare nell’immediato. Un film richiede molto tempo per essere realizzato. Credo che i ragazzi soffrano molto di più degli adulti, per le scuole chiuse, il tanto tempo in casa: chissà come cambierà la loro attitudine alla vita. Un film immediato su un fenomeno come questo è difficile... ma forse vale la pena di provare a farlo».