Corriere della Sera - La Lettura
Chiare, fresche e Dolci acque
L’acqua. Indispensabile per fertilizzare i campi, dissetare il bestiame, creare lavoro e benessere. Il lavoro. Indispensabile per combattere la miseria, prosperare e sentirsi uomini, persone, con una propria dignità e un proprio valore. E Danilo Dolci. Il sociologo, il poeta, il pedagogo, che in un giorno lontano degli anni Cinquanta, mai come ora vicinissimo ai nostri giorni, lega insieme tutto questo, e con gli ultimi, i poveri e i contadini, alla fine realizza il suo «sogno fatto in Sicilia»: l’acqua, la diga di Partinico sul fiume Jato, che esattamente cinquant’anni fa, nella primavera-estate del 1971, comincia a trasformare 10 mila ettari di terra assetata in una distesa verde di grano, vigneti, ulivi. E di pascoli, in cui si aggirano, liberi, cavalli, pecore, mucche, che qui crescono felici.
Com’è cambiata da allora questa parte della Sicilia occidentale, che oggi non ha nulla da invidiare né ai colli toscani né alla Pianura padana. E se ci si spinge fin sotto alle cime delle Madonie — dove si trova un’altra diga, quella di Piana degli Albanesi — non ha nulla da invidiare nemmeno alle valli alpine, anzi, rispetto a quelle ha in più il sole del Mediterraneo. La diga di Partinico, chiamata anche lago Poma, può contenere 80 milioni di metri cubi di acqua e dista circa 30 chilometri dal lago di Piana degli Albanesi, che è a 600 metri di altitudine e ha una capacità di 32 milioni di metri cubi. Questa venne costruita in due anni, dal 1921 al 1923, e quando entrò in funzione alimentò anche una centrale idroelettrica. Per la diga di Partinico ci volle un po’ più di tempo, 8 anni, ma pur sempre nulla in confronto agli interminabili lavori per le opere pubbliche attuali, le famose infrastrutture sempre declamate come necessarie all’Italia e in particolare al Mezzogiorno, ma sempre ferme, immobili come stelle fisse.
Sul tragitto fra le due dighe, ma più vicina alla prima, c’è Portella della Ginestra, il luogo della strage mafiosa del primo maggio 1947, un pianoro ideale per accogliere i contadini dei paesi vicini che reclamavano la terra dei feudi in cui lavoravano come schiavi e perfetto per l’agguato guidato da Salvatore Giuliano. Colpi di lupara, raffiche di mitra e persino granate su duemila persone inermi, tra le quali molti bambini. Ventisette feriti gravi e undici morti sul terreno, che poi diventeranno 14 poiché tre persone non ce la faranno a sopravvivere. Portella della Ginestra, con il memoriale di Ettore De Conciliis, Rocco Falciano e Giorgio Stockel, una composizione di blocchi di roccia con i nomi delle vittime incisi nella pietra, emoziona ancora oggi e fa pensare al come e al perché quella che doveva essere la prima festa dei lavoratori del dopoguerra sia stata trasformata in un bagno di sangue. Con la successiva sceneggiata di Giuliano, assassinato nel sonno dal suo compagno d’infanzia Gaspare Pisciotta, «fatto trovare ucciso» per la maggior gloria delle forze dell’ordine e dei governanti del tempo.
Questa Sicilia trovò Danilo Dolci quando, nel 1952, decise di stabilirsi a Trappeto, minuscolo comune nel Golfo di Castellammare, a metà strada fra Trapani e Palermo. Era una Sicilia che in qualche modo conosceva già, poiché suo padre Enrico, bresciano, era il capostazione di Trappeto, dove venne trasferito (da Tortona, Alessandria) prima ancora che la guerra finisse. A Trappeto, ancora ragazzo, Danilo veniva a trovare suo padre durante le vacanze estive e poi tornava al Nord, dove frequentava l’università e, a Milano, l’Accademia di Brera. Danilo — nato nel 1924 a Sesana (Trieste), che poi diventerà un comune della Slovenia — prima di stabilirsi in Sicilia aveva vissuto un’intensa esperienza a Fossoli, nel Modenese, nella comunità cattolica Nomadelfia, «la città dove la fraternità è legge», fondata da don Zeno Saltini, sacerdote e uomo come pochi, una vita spesa a salvare i bimbi abbandonati, gli ebrei durante le persecuzioni razziali, i poveri e i miserabili. Nomadelfia fu avversata da una parte della gerarchia ecclesiastica e disciolta d’autorità nel 1952 dall’ineffabile Mario Scelba, ministro dell’Interno, democristiano e siciliano di Caltagirone — titolare dello stesso dicastero durante la strage di Portella della Ginestra — e per tornare a esistere dovette attendere fino al 1962, quando intervenne direttamente papa Giovanni XXIII.
Danilo Dolci però decise che non poteva aspettare e nel 1952 fondò a Trappeto la comunità Borgo di Dio, che molto deve al «modello» di Nomadelfia, ma che non si definiva cattolica, bensì ispirata a un cristianesimo sociale e aperto al contributo di chiunque volesse rendersi utile. Dolci arriva tra la gente di Partinico e diventa uno di loro, condivide miseria e sofferenze di adulti e bambini, parla, ascolta, capisce che c’è una profonda malattia da guarire se una intera popolazione riceve in regalo dallo Stato una decina di migliaia di anni di carcere e appena qualche centinaio di ore di istruzione, e poi finisce «naturalmente» sulla strada obbligata del «banditismo», e racconta tutto in un libro, Banditi a Partinico (Laterza, poi riproposto da Sellerio), magnifica inchiesta sociale su una Sicilia, un’Italia, sconosciuta. Norberto Bobbio ne scrive la prefazione e coglie la novità
che caratterizza l’impegno di Dolci e la fiducia che riscuote: «La gente semplice vuol vedere come razzola colui che predica — spiega Bobbio — e la via presa da Danilo Dolci è stata la via del non accettar la distinzione tra il predicare e l’agire, ma del far risaltare la buona predica dalla buona azione, e del non lasciare ad altri la cura di provvedere, ma di cominciare a pagar di persona».
Una delle prime cose concrete che fa Dolci — a dispetto delle accuse di utopismo, e spesso della irrisione che gli tocca subire, Dolci era concretissimo — è organizzare i braccianti di Partinico nella riparazione di una trazzera malmessa, una via di campagna alle porte del paese, che impedisce ai contadini di raggiungere agevolmente i campi in cui vanno a lavorare. È il famoso «sciopero alla rovescia», manifestazione non violenta con il lavoro gratuito di gente assetata di lavoro, che nel 1956 «il sistema» gli fece pagare (assieme agli altri partecipanti) con l’arresto, la galera preventiva per due mesi, un pubblico dibattimento in manette e infine con una condanna a un mese e 20 giorni per il reato d’«invasione di terreni», più 14 mila lire di multa, 6 mila d’ammenda e le spese processuali. Tutti gli atti di quella vicenda assurda e incredibile, comprese le appassionate arringhe dei difensori, tra i quali Piero Calamandrei, sono raccolti in un libro, Processo all’articolo 4 (Sellerio), che tutti gli studenti, in particolare quelli di Giurisprudenza, dovrebbero leggere. In quel processo farsa, a finire sotto accusa fu, appunto, l’articolo 4 della Costituzione, che definisce il lavoro non solo come «diritto», ma anche come «dovere» di ogni cittadino.
Dolci subì la condanna quasi con indifferenza. Aveva da pensare alla diga, all’acqua per i campi. Ma la commentò in modo profetico: «Se attenti non preveniamo, tra poco rivedremo il confino politico, l’esilio e, ancora un po’ più in là, si riaccenderebbero i roghi per coloro che vogliono profondamente la verità, per gli “eretici”, assistenti i prefetti con la candela in mano». Poi, ecco la diga sul fiume Jato, la sua grande vittoria, gestita da un «consorzio democratico» di 800 contadini, diventati nel frattempo piccoli proprietari grazie alla Riforma agraria. Quanta differenza con un’altra, grande e utile diga, costruita 40 chilometri più a sud a metà degli anni Ottanta, il lago Garcia, a Contessa Entellina. Come quella voluta da Dolci a Partinico, la diga Garcia ha una capienza di 80 milioni di metri cubi di acqua. Ma è costata sangue — una guerra di mafia che ha fatto un centinaio di vittime — e una diga di soldi, i profitti miliardari realizzati tra speculazioni sui terreni e fondi pubblici della Cassa per il Mezzogiorno. Un business sporco che costò la vita al giornalista Mario Francese, al quale oggi la diga è intitolata, assassinato davanti a casa sua da Leoluca Bagarella, cognato di Totò Riina, il 26 gennaio 1979.
Ma prima della diga, per Dolci, c’era stata la trazzera. Fu lì che tutto cominciò. E in quella trazzera, «la Lettura» è tornata con uno dei sette figli di Danilo Dolci, Cielo, e con Pino Lombardo, entrambi impegnati da sempre accanto a Danilo (morto nel 1997) con il «Centro per lo Sviluppo Creativo Danilo Dolci». Quella trazzera è diventata una strada di Partinico e si chiama Via Sciopero alla rovescia. Al civico 8, c’è anche una scuola, l’Istituto comprensivo «Ninni Cassarà», intitolato al commissario di polizia trucidato a colpi di kalashnikov dalla mafia il 6 agosto 1985 insieme con l’agente Roberto Antiochia. «La strada e la scuola, insieme, sono trent’anni di storia. Per questo — dice Pino Lombardo — bisogna evitare che Borgo di Dio, di cui l’associazione è proprietaria, venga abbandonato a sé stesso». Il rischio c’è, la struttura, mille metri quadrati di locali — auditorium, alloggi, cucina, sala mensa e sala riunioni — su due ettari di ulivi, eucalipti, aloe e fichi d’India, da qualche anno versa in stato di abbandono, e Cielo Dolci ne soffre: «I semi sono germogliati — dice — ma la pianta adesso rischia di morire». Ecco, sarebbe bello, utile e necessario che quel mondo della cultura che affiancò Danilo Dolci nelle sue battaglie torni a farsi vivo per salvare Borgo di Dio e la sua storia.
Tra la primavera e l’estate di mezzo secolo fa, nel 1971, in Sicilia entrò in funzione la grande diga di Partinico, voluta dallo scrittore e filantropo:
Danilo Dolci aveva puntato tutto sul riscatto dei contadini di quelle terre e aveva fondato nel 1952, a Trappeto, la comunità di Borgo di Dio.
«La Lettura» ha raccolto l’appello del figlio e di chi lavorò con lui: non abbandonate i suoi luoghi