Corriere della Sera - La Lettura
Cardini: fu sconfitto perché restò sospeso tra due epoche Ferrero: incarnò le aspirazioni della borghesia in ascesa
FRANCO CARDINI — Non parlerei di fallimento, ma di insuccesso. Bonaparte non raggiunge gli scopi che si è prefisso, anzi si può dire non li abbia nemmeno stabiliti, perché è uno di quei condottieri che vogliono tutto, che non si pongono limiti nella loro avventurosa scalata al cielo. In lui c’è una componente titanica e per questo non si può dire che abbia fallito nel raggiungere obiettivi specifici. Viene battuto militarmente, ma sarebbe improprio definirlo un perdente. Alla fine a sconfiggerlo è la sua incertezza. In che senso?
FRANCO CARDINI — Rimane come sospeso tra l’Ancien Régime e l’epoca contemporanea. Non lo definirei un artefice della modernità, della quale semmai è un figlio. Napoleone apre la nostra era. Ma continua a guardare indietro. Pesa su di lui il retaggio della Corsica, dove è nato: un’isola in cui contano «il fratello e il coltello», i legami famigliari e un atavico codice d’onore. Infatti Bonaparte è attaccatissimo ai parenti stretti, anche se spesso li biasima. Ha un certo rispetto per la religione e per la Chiesa cattolica, benché le guardi con distacco. Però crede nell’eguaglianza, non certo da teorico della democrazia, ma da militare che misura gli uomini in base al valore in battaglia e colloca potenzialmente nello zaino di ogni soldato il bastone da maresciallo. In questo senso è il padre della contemporaneità meritocratica, ma allora fa pensare la sua scelta di sposare in seconde nozze la principessa Maria Luisa d’Asburgo.
ERNESTO FERRERO — La contraddizione esiste. Bonaparte arriva a calcarsi sulla testa la corona imperiale, restaura una parvenza di spettacolarità monarchica, restituisce all’aristocrazia una funzione di controllo sociale. Tuttavia resta un borghese: il suo genio, al di là delle virtù militari, consiste nella costruzione e nella gestione di una nuova complessità. Vedo in quella vicenda una lotta tra due visioni del mondo che va anche al di là della persona di Napoleone e investe tutto l’Ottocento, fino a quando la borghesia emergente non riesce a soppiantare l’Ancien Régime.
Parliamo del rapporto tra Bonaparte e l’Italia.
FRANCO CARDINI — Il Regno d’Italia napoleonico comprendeva solo una limitata fetta centro-settentrionale della penisola, mentre una parte molto consistente, Roma inclusa, era annessa all’Impero francese e il Regno di Napoli rimaneva uno Stato a parte. L’Imperatore non aveva intenzione di creare un’Italia unita come quella che sarebbe sorta dal Risorgimento, anche se il ricordo della sua figura fu uno dei fattori che spronarono i patrioti. In sostanza il suo pensiero non era lontano da quello del principe austriaco Klemens von Metternich, secondo cui l’Italia era solo «un’espressione geografica». Forse Bonaparte avrebbe parlato di «un’espressione storico-geografica». Ma non molto di più. Aveva ragione Carlo Cattaneo: a chi rimproverava Bonaparte di non avere assecondato i patrioti italiani, rispondeva che era un’accusa fuorviante, perché l’Imperatore non aveva mai nascosto l’intento di privilegiare Parigi.
ERNESTO FERRERO — L’arrivo dei francesi in Italia, nel 1796, accende una ventata di entusiasmo e di illusioni. Ma Napoleone ha le idee chiare: la penisola invasa deve essere subordinata alla Francia. Poi nell’esilio di Sant’Elena Napoleone sosterrà che l’unità d’Italia era prematura, richiedeva una lunga preparazione per la quale non c’era tempo. Era stato molto abile a strumentalizzare i patrioti del nostro Paese, coinvolgendoli nello smantellamento delle vecchie strutture, ma non concedendo niente alle loro aspirazioni di libertà. Tuttavia in epoca napoleonica gli Stati italiani godono di un sistema amministrativo, giuridico e finanziario che giova al loro ammodernamento. Più in generale i nostri connazionali sotto il dominio francese intraprendono una specie di educazione politica: si rendono conto che il ripiegamento individualista protrae e accentua la decadenza italiana, quindi bisogna occuparsi seriamente degli affari pubblici con un’assidua attenzione allo scena
rio europeo. Si avvia nei ceti colti una riflessione sulla politica, che darà i suoi frutti nell’Ottocento. Napoleone e la Chiesa cattolica. Che ne pensate?
FRANCO CARDINI — La Francia, in un periodo rivoluzionario febbrile di pochi anni, aveva vissuto uno stravolgimento feroce dei suoi rapporti con la Chiesa, sviluppando, più che un anticlericalismo, un anticattolicesimo agguerrito. Napoleone capisce che è importante sfruttare il ritorno del popolo alla fede, che riemerge non appena la morsa repressiva si allenta, perché sa che la Chiesa è depositaria di un tesoro spirituale utile alla legittimazione del potere. La sua idea geniale di proclamarsi imperatore non di uno Stato, ma di un popolo, i francesi, ha bisogno anche di quell’apporto, nonostante il rischio di un conflitto con il Papa.
A quali modelli si richiama?
FRANCO CARDINI — Senza dubbio a Carlo Magno. Ma anche allo zar di Russia, che conserva una forte preminenza sulla Chiesa ortodossa. L’auto-incoronazione di Napoleone ha un profondo significato simbolico. Viene effettuata nella basilica di Notre-Dame, alla presenza del papa Pio VII, tenuto però ostentatamente in una posizione subordinata da gran cappellano di corte. Siamo nel dicembre 1804, non così distanti dalle decapitazioni dei prelati e dall’incendio delle chiese: la stessa cattedrale di Parigi era stata devastata. L’atto di Napoleone ha un evidente sapore di recupero del passato, che combina vecchio e nuovo. Possiamo definirlo un restauratore?
FRANCO CARDINI — Direi piuttosto che afferma una sua concezione originale. Non accetta alcun dialogo su un piano di parità con il papato, tipico invece del Sacro Romano Impero. Inoltre dichiara che la sovranità viene dal basso, dal popolo francese, anche se in sostanza nasce dall’esercito. Il modello della Roma antica è ben presente a Napoleone. E colpisce che un innovatore radicale come lui cerchi di metabolizzare tanti elementi della tradizione. Coglieva nel segno Alessandro Manzoni quando presentava Bonaparte come una sorta di arbitro tra due secoli, il XVIII e il XIX, in lotta tra loro.
ERNESTO FERRERO — Secondo me in fatto di religione Napoleone resta coerente alla freddezza e al cinismo della sua visione, di quello che ho chiamato il suo «sistema operativo». Vede nella credenza in Dio un eccellente fattore di stabilità e di ordine sociale, che serve a rafforzare e sorvegliare la moralità pubblica. Togliete la fede al popolo, sostiene, e moltiplicherete i ladri di strada. Quindi si tratta di controllare i controllori, cioè la Chiesa. Napoleone sottrae il clero alle offese rivoluzionarie e gli restituisce una funzione nazionale, ma lo sottopone a una severa vigilanza. Il Concordato che firma con Pio VII nel 1801 fotografa la situazione di estrema debolezza della Chiesa. Nel 1806 l’Imperatore si arroga il diritto di nominare un terzo dei cardinali, poi impone allo Stato pontificio il suo codice civile. Nel 1809 fa addirittura arrestare e deportare il Papa. Non ha alcun rispetto per la fede? ERNESTO FERRERO — Vuole costantemente utilizzarla a proprio vantaggio. Un’impostazione che raggiunge il culmine durante la campagna d’Egitto, quando Napoleone ha la faccia tosta di presentarsi come un buon musulmano. Dichiara che i francesi sono amici del sultano turco, rivendicando il merito di avere spodestato il Papa. Gli egiziani ovviamente non gli credono. E lui stesso a Sant’Elena riderà di questa messinscena. Sempre nell’esilio arriverà al punto di tracciare un parallelo fra le vicende di Cristo, eroe spirituale, e le sue imprese di capo civile e militare. Per lui Gesù è un collega, paragona la passione del Golgota al suo «martirio» di Sant’Elena. Da grandissimo maestro della comunicazione, sino all’ultimo utilizza ogni elemento per costruire il suo mito.
FRANCO CARDINI — Va aggiunto che il comportamento di Bonaparte in Siria verso i prigionieri turchi è un crimine di guerra tra i più atroci. Anche dal punto di vista della più spietata Realpolitik se ne poteva fare a meno: massacrare i nemici che si erano arresi a Giaffa fu puro terrorismo. Il fatto è che in tutte le scelte di Bonaparte troviamo il richiamo allo «stato di eccezione» così come sarebbe stato teorizzato dal giurista tedesco Carl Schmitt. Per Napoleone le circostanze straordinarie si governano con metodi dispotici e, se necessario, brutali. Solo che il dispotismo, come i colpi di Stato, funziona se è duro, rapido e segreto. Se la dittatura si prolunga e chi la esercita non riesce a mascherarla, alla fine il regime non regge. D’altronde un despota tende di rado a moderarsi. Tutto il contrario, come dimostra Napoleone.
ERNESTO FERRERO — Sia sul piano interno sia in guerra, Bonaparte opera senza scrupoli. Segue la logica per cui bisogna colpire duramente chi si oppone per intimidire gli altri. Non avviene solo in Siria: anche in Italia, durante la prima campagna militare, la repressione contro i ribelli è assai violenta, con un evidente intento ammonitorio. A Giaffa Napoleone non sa come gestire i turchi che si sono arresi, quindi decide di sopprimerli. A chi gli rimprovera quel gesto crudele, risponde che non poteva rischiare di perdere l’intero corpo di spedizione per trascinarsi la palla al piede dei prigionieri. Bonaparte è un uomo che si è sempre negato alle emozioni e ai sentimenti. È convinto che un politico non debba né amare né odiare, ma valutare tutto attraverso il freddo calcolo operativo della propria ragione.
Un allievo di Machiavelli? ERNESTO FERRERO — Direi il maggiore, forse il suo unico vero discepolo. Il messaggio del Principe è che al momento opportuno bisogna sapersi sporcare le mani. Napoleone non esita a farlo se lo ritiene necessario.
FRANCO CARDINI — A Machiavelli lo accomuna anche una visione negativa della natura umana e dei propri simili, anzi forse si sente così superiore che non li considera fino in fondo tali. Già da bambino era scontroso, non faceva facilmente amicizia con i coetanei.
ERNESTO FERRERO — È vero, Napoleone aveva una concezione pessimista degli esseri umani, probabilmente sviluppata prima in Corsica e poi nel collegio militare di Brienne, dove aveva sofferto perché i compagni provenienti dall’alta aristocrazia si facevano beffe di lui. Amava dire che nulla poteva sorprenderlo in negativo, perché del suo prossimo pensava sempre tutto il male possibile. Che dire delle attuali polemiche su Bonaparte misogino e schiavista?
FRANCO CARDINI — Io credo che Bonaparte abbia presenti gli ideali umanitari della nuova era, ma nello stesso tempo scelga di subordinarli alle esigenze utilitaristiche. Non penso che in fatto di schiavitù tenga in gran conto i valori egualitari illuministi e cristiani. Si pone problemi di ordine pubblico e di efficienza produttiva. Se avesse ritenuto che l’abolizione della schiavitù fosse vantaggiosa, forse l’avrebbe mantenuta, ma è troppo buon amministratore per non rendersi conto che ne sarebbero derivate conseguenze difficili da governare. Non credo quindi gli sia pesata la decisione del 1802, come non ritengo che gli pesi sancire la superiorità dell’uomo sulla donna nel suo codice civile, entrato in vigore nel 1804, che elimina in gran parte gli aspetti solidaristici della società dell’Ancien Régime. La vecchia legislazione della monarchia, per quanto d’impronta patriarcale, guardava ai legami comunitari, mentre il codice napoleonico sancisce i rapporti borghesi su base individualistica. In un contesto del genere bisogna decidere con precisione chi comanda tra moglie e marito. E Bonaparte non ha dubbi: la stabilità dei vincoli e dei patrimoni impone la supremazia del maschio.
ERNESTO FERRERO — Il colonialismo francese era spietato, e il possedimento caraibico di Saint-Domingue (poi divenuto Haiti) era molto redditizio, tanto da rappresentare un terzo delle importazioni di Parigi nel settore dei beni di largo consumo. L’abolizione della schiavitù decisa nel 1794 era entrata in vigore qui e nell’isola della Guadalupa, ma non nella Martinica, che era stata occupata dagli inglesi. Quando la pace di Amiens con la Gran Bretagna sancisce il ritorno di quel territorio alla Francia, nel 1802, si pone il problema di uniformare la situazione. Napoleone decide il ripristino della schiavitù sotto la spinta del partito dei proprietari coloniali creoli, di cui faceva parte anche la prima moglie Giuseppina di Beauharnais, nata nella Martinica. Il fattore primario che porta a restaurare la schiavitù sono i profitti economici. Quanto alle donne, Napoleone le ha sempre considerate lo svago del guerriero, una presenza molto gradevole che deve restare nella disponibilità del maschio. Arriva a dire che in Occidente la condizione femminile è troppo permissiva e bisogna imparare dagli orientali. Al di là di questi eccessi, il codice civile impone alla donna sottomissione e minorità. La moglie deve obbedire al marito e seguirlo, non può prendere impegni senza il consenso del coniuge, non ha difesa dalle violenze domestiche. Le stesse libertà concesse alle maggiorenni nubili sono solo teoriche, perché non hanno la possibilità di esercitare un mestiere. È una situazione che a noi oggi appare giustamente intollerabile, ma è in linea con la mentalità dell’epoca, contro la quale Napoleone non aveva alcuna intenzione di andare.