Corriere della Sera - La Lettura
Dante getta l’aldiquà nella tela del ragno
Riletture La «Commedia» come una grande struttura concentrica dove ogni particella rimanda all’architettura complessiva. Guardando oltre, esalta la finita e grandiosa dimensione umana
Nel leggere o commentare la Commedia di Dante ci si sente sempre inadeguati. Ogni lettore conosce questa sensazione. Non si tratta della reverenza nei confronti del sommo poeta o verso la complessità e la magnificenza della sua opera maggiore. La Commedia, anzi, è un libro fraterno, e Dante ci chiede di stare sempre con lui, vale a dire di essere letto con un coinvolgimento e un credito non diversi da quelli che lui stesso, in quanto protagonista del viaggio, mostra nei confronti di Virgilio o di Beatrice. Proprio per questo si può dire che quel viaggio, come ben sappiamo, è suo ma anche nostro.
Il senso d’inadeguatezza ha a che vedere invece con qualcosa di più specifico, d’intrinseco alla costituzione stessa del poema. Potremmo riassumerlo così: la difficoltà, meglio ancora l’impossibilità di rendere conto in modo soddisfacente della pienezza della sua parola poetica. E con questo non intendo soltanto quell’episodio o quell’argomentazione particolare, ma la singola terzina, il singolo verso e sintagma, tante volte perfino il singolo termine. Il fatto è che nella Commedia tutto si tiene, come fosse una cattedrale che si rispecchia in ogni sua singola pietra. Eugenio Montale considerava non a caso Dante un poeta concentrico, mentre Jorge Luis Borges si dichiarava stupito non solo dalla volontà, ma dalla sua capacità di riportare sempre ogni cosa a sé stesso e alla propria storia di uomo. In fondo le due asserzioni fanno il paio l’una con l’altra, perché presuppongono comunque una reciprocità continua tra la parte e il tutto, tra singolo punto e concezione generale del poema, tra la vicenda individuale e i significati generali, tra l’esperienza che si fa passo dopo passo da parte di un io individuatissimo e l’ordine tutto della creazione.
In ogni caso il movimento a cerchi concentrici, se prendiamo per buona l’immagine di Montale, nella Commedia procede simultaneamente verso il centro e verso l’esterno. Certo ognuno può trovare l’immagine che preferisce ma è indubbio che toccando un punto si muove all’unisono l’intero sistema, proprio come se si trattasse della tela di un ragno. Viviamo in tempi di connessione permanente, ma come immaginare un organismo più totalmente e profondamente interconnesso della Commedia, lì dove a ogni passo ci si ritrova in un autentico crocevia del senso? In via teorica il commento di un verso potrebbe non concludersi mai, dal momento che nella rete del poema la singola parte porta sempre con sé l’idea del tutto. Pensiamo solo alle terzine iniziali del poema, il quale ancora non c’è, perché è tutto da farsi, eppure la sua concezione appare già pienamente dispiegata in quell’inizio, che a sua volta rende ragione dell’intera architettura a venire. Sarà anche un canto a tratti un po’ macchinoso, ma è vero che in pochi versi viene attivata perfettamente quella compresenza di significati che sarà poi distintiva dell’intero poema dantesco.
Ecco allora fin da subito il cammino individuale che è insieme quello dell’umanità tutta, uno spazio fisico concreto, determinato (la selva, il colle), che è al contempo la spazialità della dimensione interiore, e dunque quella trama di opposizioni, che il lettore della Commedia conosce benissimo, secondo cui ogni direzione e ogni movimento possiedono un preciso significato morale e spirituale: luce-buio, alto-basso, oriente-occidente, salire-scendere, trovarsi-perdersi, verità-menzogna, bene-male, salvezzaperdizione, vita-morte.
Giovanni Pascoli, che di Dante è stato un interprete spesso geniale (agli studi danteschi aveva riservato uno dei suoi leggendari tavoli di lavoro, accanto a quelli dedicati alla poesia in italiano e in latino), sosteneva che l’immagine fondamentale, l’autentica metafora generativa della Commedia sia proprio quella di una morte che non è morte, di una morte che è vita. Aveva ragione. Alla lettera Dante attraversa la morte per rinascere come uomo nuovo a una vita nuova. Ma Pascoli, allora, aveva anche ragione sul fatto che nella parola dantesca — ecco il discorso sulla sua più che singolare pienezza — questo sistema di valori risulta sempre attivo, mettendola continuamente in tensione, promuovendone al massimo grado l’energia semantica. E in effetti Dante è un poeta instancabilmente relazionale: mette insieme, raccorda, istituisce rapporti, procedendo per sintesi anziché per esclusione o sostituzione.
Certo per noi moderni, che veniamo dopo quella che Thomas Sterne Eliot, un altro suo lettore importante, ha definito la dissociazione della sensibilità, è difficile avvertire nelle metafore e immagini della Commedia la compresenza di concreto e astratto, d’esperienza e significato esemplare, di atto e pensiero, di concettualizzazione e sensibilità (il poema è un vero trionfo delle percezioni sensibili, infatti: la discesa nell’ostile imbuto infernale, l’ascesa del monte del Purgatorio, il «trasumanar» che nel Paradiso potenzia i sensi portandoli al limite di sé stessi). Ma ancora più difficile è riconoscere che per una mentalità simbolico-allegorica come quella di Dante le idee generative, i significati universali, le funzioni rituali e liturgiche (pensiamo ai grandi miti della persona che gli venivano anche da Sant’Agostino: la conversione, la trasformazione, la rinascita), si potenziano reciprocamente con la dimensione individuale, che poi è quella del personaggio che progredisce via via nella sua esperienza. A differenza di noi, che siamo propensi a sentirne la contraddizione, per Dante particolare e generale non solo non si sconfessano ma si rafforzano e inverano a vicenda. Solo che per comprenderlo, cioè per riconoscere che, diciamo così, la fisica della materia e la fisica gravitazionale nella Commedia e secondo la Commedia procedono armonicamente in forza della stessa legge, è necessario fare con lui tutto il cammino del poema.
Questo vuole dire immediatamente che significati e verità qui non si danno mai in assoluto, astrattamente, ma sempre nel tempo e nel movimento del racconto, nel cosiddetto status viae che contraddistingue il protagonista dalla prima all’ultima parola del poema. Il pellegrino, e noi con lui, è continuamente chiamato a compiere un’esperienza, o meglio, con le parole di Virgilio, ad acquisire un’«esperïenza piena». In quest’opera progressiva in cui strada facendo ogni cosa trova il suo posto e tutto finisce per tornare, il punto di vista di chi ha avuto il privilegio e insieme la responsabilità di contemplare le cose eterne, è comunque quello della parzialità, dell’imperfezione, dell’incompiutezza. E più di tutto, allora, della spinta al rinnovamento, alla metamorfosi. E questo vale a ogni livello, perché anche le parole, anche il linguaggio del poeta si trasformano raccontando della trasformazione del personaggio. Anche la mirabile lingua poetica di Dante, insomma, è dalla parte dell’insufficienza e dell’approssimazione.
Credo che questo abbia a che vedere direttamente con l’eccellenza della sua poesia. Dante lo dice già nella seconda
terzina della Commedia: «Ahi quanto a dir qual era è cosa dura»... Si tratta del cosiddetto topos dell’ineffabile, cioè del motivo della difficoltà se non dell’impossibilità del dire, che il poeta riprende e varia con estrema abilità lungo tutto il poema, facendone come per via negativa uno strumento formidabile di potenziamento della sua stessa parola (non è un caso che ricorra con più insistenza proprio nel canto conclusivo, lì dove si tratta di restituire la visione diretta di Dio). Dante non fa che ripeterlo: la parola, la sua parola, non è sufficiente per cantare e onorare la vera realtà. Certo colpisce. L’opera in cui la poesia, tanto più per un lettore italiano, raggiunge in nome della realtà la sua massima estensione (la Commedia può essere presa come parametro per misurare testi diversi, ma non il contrario), è la stessa opera in cui l’autore accusa con più forza i limiti e l’inadempienza della poesia stessa.
Ma proprio perché Dante è Dante, detto con una tautologia, avverte più di chiunque altro «la debilitade dello ’ntelletto e la cortezza del nostro parlare», come si dice nel Convivio. È appunto in questo fertilissimo paradosso che si gioca il suo onore di poeta. Proprio come quella del pellegrino, infatti, anche l’esperienza dello scrittore è integralmente terrestre, umana, sempre in cammino; e come tale sconta i limiti della propria umanità nel momento in cui li mette a frutto ampliandoli in misura forse ineguagliabile. Definitivo è l’oggetto della visione ma definitivi non sono affatto il punto di vista, i modi e gli strumenti, tra cui anzitutto la lingua, impiegati per darne testimonianza. Dante, il sommo Dante, voglio dire, è dalla nostra parte. Quando il pellegrino spinto da amore ha raggiunto la sua meta, quando anche «la sua veduta si profonda/ nel vero in che si queta ogne intelletto» (Paradiso XXVIII), coincidendo così con ciò che è fisso e definitivo, con una prospettiva che non è più quella di chi è in cammino nel tempo, allora la tensione viene meno e la poesia tace, non può più essere. Significa, rovesciando un po’ il ragionamento, che neppure i beati hanno il privilegio di leggere la Commedia, il «poema sacro» che è stato scritto per quelli che ancora vivono della loro inquietudine, quelli che sono sempre almeno un poco in esilio, che sono ancora qui.
Dante e i limiti, dunque. Credo che la lettura della Commedia ci guadagni dal riconoscimento che per questo scrittore, tanto più dal punto di vista della creazione poetica, valgono le stesse condizioni che sussistono per tutti gli altri poeti. Se la poesia comporta la capacità di riattivare in qualche misura il rapporto tra la lin
gua e la messa a fuoco della vita (un poeta è tale proprio perché ha trovato il modo per farlo; vale a dire il suo modo), facendo così di un possibile pregiudizio una vera esperienza, allora la reazione creativa all’origine della Commedia è esattamente della stessa natura di quella che genera ogni altra poesia che si rispetti. Certo, quelli di Dante sono una reazione o un incendio più grandi, capaci magari di sprigionare un’energia incredibilmente maggiore. Nessun dubbio al riguardo. Ma forse vale la pena sottolinearne prima e più la comune appartenenza alla dimensione terrestre e alla specie umana, con le opportunità e i vincoli che questa comporta, che la grandezza e l’eccezionalità, che di quella comune appartenenza costituiscono semmai il coronamento.
Pensiamo solo al rapporto di un poeta con la lingua. Al riguardo Eliot sosteneva che «il grande padrone di una lingua dovrebbe essere il suo grande servitore». Se si riporta questa affermazione a Dante, fa sicuramente effetto. Sembra innegabile, infatti, che questo strepitoso inventore del «nostro sermone», come lo chiama nel XXVIII dell’Inferno, sia insieme e indistintamente al suo completo servizio. Di fatto, come distinguere lungo la catena delle terzine il poeta che inventa la lingua da quello che ne intercetta e ne porta ad attuazione le possibilità profonde, il codice riposto, il Dna? I due aspetti, in sostanza, ne fanno uno solo, e quanto più si insisterà sulla grandezza dell’uno — il poeta che governa o il poeta che si lascia governare — tanto più si dovrà insistere sulla grandezza dell’altro.
Questo vale sempre in Dante, in cui si ritrovano le stesse dicotomie e le stesse situazioni di reversibilità che la creazione poetica porta sempre con sé: forma-vita, uomo adulto-puer, veglia-sogno (Dante è a tutti gli effetti un poeta della ragione e della conoscenza, ma la Commedia è pur sempre una visione), intelletto e sensi, attività e passività, e avanti così. Si tratta in sostanza di fondamentali attributi antropologici, che in Dante e nella Commedia vengono tutti attivati ed esposti in uno stato di tensione straordinariamente intensificato, stupefacente persino. Ma la sua eccellenza, per tornare al punto, è in tutto e per tutto umana, terrena, antropologica appunto. La grandezza di Dante non sta nel parlare la lingua degli angeli, quanto nel non farci troppo rimpiangere di non poterla ancora ascoltare.
Harold Bloom, il noto critico statunitense, aveva sottotitolato il suo libro su William Shakespeare L’invenzione dell’uomo. Secondo Bloom, in sostanza, il genio di Shakespeare non avrebbe affatto colto ed espresso al meglio la nostra immagine dell’uomo ma l’avrebbe inventata di sana pianta. Ci sarebbero senz’altro buone ragioni per dirlo anche di Dante, tanto più guardando al personaggio protagonista del poema. Tuttavia, più che evidenziare il genio come qualcosa di eccedente perché va al di là, è forse possibile pensare che sia tale proprio perché rimane al di qua, attualizzando qualcosa che appartiene alla specie, a tutti, anche se poi è molto difficile da raggiungere o anche solo da contemplare. Qualcosa che è un retaggio e insieme un orizzonte, un inizio e insieme una meta. Del resto anche Dante, personaggio e poeta, ha conquistato il diritto di raccontare la sua storia attraverso la storia stessa.
Si comprende bene, allora, cosa intendesse Gianfranco Contini in uno dei suoi passaggi più ispirati: «L’impressione genuina del postero, incontrandosi con Dante, non è d’imbattersi in un tenace e ben conservato sopravvissuto, ma di raggiungere qualcuno arrivato prima di lui». Dante, cioè appunto il nostro retaggio, è anche lì che ci aspetta, cioè appunto il nostro orizzonte. E a me piace credere che questo presupposto sempre da raggiungere lungo il cammino della vita, arduo e mirabile insieme, sia l’essere all’altezza della propria umanità, il che significa anche all’altezza dei propri limiti e della propria imperfezione. È per la stessa umanità che la fa eccellere che la poesia della Commedia, pur nella sua pienezza non comune, si riconosce comunque incapace, come Dante scrive nel ventottesimo dell’Inferno, di dire «a pieno».