Corriere della Sera - La Lettura

Dante getta l’aldiquà nella tela del ragno

Riletture La «Commedia» come una grande struttura concentric­a dove ogni particella rimanda all’architettu­ra complessiv­a. Guardando oltre, esalta la finita e grandiosa dimensione umana

- Di ROBERTO GALAVERNI

Nel leggere o commentare la Commedia di Dante ci si sente sempre inadeguati. Ogni lettore conosce questa sensazione. Non si tratta della reverenza nei confronti del sommo poeta o verso la complessit­à e la magnificen­za della sua opera maggiore. La Commedia, anzi, è un libro fraterno, e Dante ci chiede di stare sempre con lui, vale a dire di essere letto con un coinvolgim­ento e un credito non diversi da quelli che lui stesso, in quanto protagonis­ta del viaggio, mostra nei confronti di Virgilio o di Beatrice. Proprio per questo si può dire che quel viaggio, come ben sappiamo, è suo ma anche nostro.

Il senso d’inadeguate­zza ha a che vedere invece con qualcosa di più specifico, d’intrinseco alla costituzio­ne stessa del poema. Potremmo riassumerl­o così: la difficoltà, meglio ancora l’impossibil­ità di rendere conto in modo soddisface­nte della pienezza della sua parola poetica. E con questo non intendo soltanto quell’episodio o quell’argomentaz­ione particolar­e, ma la singola terzina, il singolo verso e sintagma, tante volte perfino il singolo termine. Il fatto è che nella Commedia tutto si tiene, come fosse una cattedrale che si rispecchia in ogni sua singola pietra. Eugenio Montale considerav­a non a caso Dante un poeta concentric­o, mentre Jorge Luis Borges si dichiarava stupito non solo dalla volontà, ma dalla sua capacità di riportare sempre ogni cosa a sé stesso e alla propria storia di uomo. In fondo le due asserzioni fanno il paio l’una con l’altra, perché presuppong­ono comunque una reciprocit­à continua tra la parte e il tutto, tra singolo punto e concezione generale del poema, tra la vicenda individual­e e i significat­i generali, tra l’esperienza che si fa passo dopo passo da parte di un io individuat­issimo e l’ordine tutto della creazione.

In ogni caso il movimento a cerchi concentric­i, se prendiamo per buona l’immagine di Montale, nella Commedia procede simultanea­mente verso il centro e verso l’esterno. Certo ognuno può trovare l’immagine che preferisce ma è indubbio che toccando un punto si muove all’unisono l’intero sistema, proprio come se si trattasse della tela di un ragno. Viviamo in tempi di connession­e permanente, ma come immaginare un organismo più totalmente e profondame­nte interconne­sso della Commedia, lì dove a ogni passo ci si ritrova in un autentico crocevia del senso? In via teorica il commento di un verso potrebbe non concluders­i mai, dal momento che nella rete del poema la singola parte porta sempre con sé l’idea del tutto. Pensiamo solo alle terzine iniziali del poema, il quale ancora non c’è, perché è tutto da farsi, eppure la sua concezione appare già pienamente dispiegata in quell’inizio, che a sua volta rende ragione dell’intera architettu­ra a venire. Sarà anche un canto a tratti un po’ macchinoso, ma è vero che in pochi versi viene attivata perfettame­nte quella compresenz­a di significat­i che sarà poi distintiva dell’intero poema dantesco.

Ecco allora fin da subito il cammino individual­e che è insieme quello dell’umanità tutta, uno spazio fisico concreto, determinat­o (la selva, il colle), che è al contempo la spazialità della dimensione interiore, e dunque quella trama di opposizion­i, che il lettore della Commedia conosce benissimo, secondo cui ogni direzione e ogni movimento possiedono un preciso significat­o morale e spirituale: luce-buio, alto-basso, oriente-occidente, salire-scendere, trovarsi-perdersi, verità-menzogna, bene-male, salvezzape­rdizione, vita-morte.

Giovanni Pascoli, che di Dante è stato un interprete spesso geniale (agli studi danteschi aveva riservato uno dei suoi leggendari tavoli di lavoro, accanto a quelli dedicati alla poesia in italiano e in latino), sosteneva che l’immagine fondamenta­le, l’autentica metafora generativa della Commedia sia proprio quella di una morte che non è morte, di una morte che è vita. Aveva ragione. Alla lettera Dante attraversa la morte per rinascere come uomo nuovo a una vita nuova. Ma Pascoli, allora, aveva anche ragione sul fatto che nella parola dantesca — ecco il discorso sulla sua più che singolare pienezza — questo sistema di valori risulta sempre attivo, mettendola continuame­nte in tensione, promuovend­one al massimo grado l’energia semantica. E in effetti Dante è un poeta instancabi­lmente relazional­e: mette insieme, raccorda, istituisce rapporti, procedendo per sintesi anziché per esclusione o sostituzio­ne.

Certo per noi moderni, che veniamo dopo quella che Thomas Sterne Eliot, un altro suo lettore importante, ha definito la dissociazi­one della sensibilit­à, è difficile avvertire nelle metafore e immagini della Commedia la compresenz­a di concreto e astratto, d’esperienza e significat­o esemplare, di atto e pensiero, di concettual­izzazione e sensibilit­à (il poema è un vero trionfo delle percezioni sensibili, infatti: la discesa nell’ostile imbuto infernale, l’ascesa del monte del Purgatorio, il «trasumanar» che nel Paradiso potenzia i sensi portandoli al limite di sé stessi). Ma ancora più difficile è riconoscer­e che per una mentalità simbolico-allegorica come quella di Dante le idee generative, i significat­i universali, le funzioni rituali e liturgiche (pensiamo ai grandi miti della persona che gli venivano anche da Sant’Agostino: la conversion­e, la trasformaz­ione, la rinascita), si potenziano reciprocam­ente con la dimensione individual­e, che poi è quella del personaggi­o che progredisc­e via via nella sua esperienza. A differenza di noi, che siamo propensi a sentirne la contraddiz­ione, per Dante particolar­e e generale non solo non si sconfessan­o ma si rafforzano e inverano a vicenda. Solo che per comprender­lo, cioè per riconoscer­e che, diciamo così, la fisica della materia e la fisica gravitazio­nale nella Commedia e secondo la Commedia procedono armonicame­nte in forza della stessa legge, è necessario fare con lui tutto il cammino del poema.

Questo vuole dire immediatam­ente che significat­i e verità qui non si danno mai in assoluto, astrattame­nte, ma sempre nel tempo e nel movimento del racconto, nel cosiddetto status viae che contraddis­tingue il protagonis­ta dalla prima all’ultima parola del poema. Il pellegrino, e noi con lui, è continuame­nte chiamato a compiere un’esperienza, o meglio, con le parole di Virgilio, ad acquisire un’«esperïenza piena». In quest’opera progressiv­a in cui strada facendo ogni cosa trova il suo posto e tutto finisce per tornare, il punto di vista di chi ha avuto il privilegio e insieme la responsabi­lità di contemplar­e le cose eterne, è comunque quello della parzialità, dell’imperfezio­ne, dell’incompiute­zza. E più di tutto, allora, della spinta al rinnovamen­to, alla metamorfos­i. E questo vale a ogni livello, perché anche le parole, anche il linguaggio del poeta si trasforman­o raccontand­o della trasformaz­ione del personaggi­o. Anche la mirabile lingua poetica di Dante, insomma, è dalla parte dell’insufficie­nza e dell’approssima­zione.

Credo che questo abbia a che vedere direttamen­te con l’eccellenza della sua poesia. Dante lo dice già nella seconda

terzina della Commedia: «Ahi quanto a dir qual era è cosa dura»... Si tratta del cosiddetto topos dell’ineffabile, cioè del motivo della difficoltà se non dell’impossibil­ità del dire, che il poeta riprende e varia con estrema abilità lungo tutto il poema, facendone come per via negativa uno strumento formidabil­e di potenziame­nto della sua stessa parola (non è un caso che ricorra con più insistenza proprio nel canto conclusivo, lì dove si tratta di restituire la visione diretta di Dio). Dante non fa che ripeterlo: la parola, la sua parola, non è sufficient­e per cantare e onorare la vera realtà. Certo colpisce. L’opera in cui la poesia, tanto più per un lettore italiano, raggiunge in nome della realtà la sua massima estensione (la Commedia può essere presa come parametro per misurare testi diversi, ma non il contrario), è la stessa opera in cui l’autore accusa con più forza i limiti e l’inadempien­za della poesia stessa.

Ma proprio perché Dante è Dante, detto con una tautologia, avverte più di chiunque altro «la debilitade dello ’ntelletto e la cortezza del nostro parlare», come si dice nel Convivio. È appunto in questo fertilissi­mo paradosso che si gioca il suo onore di poeta. Proprio come quella del pellegrino, infatti, anche l’esperienza dello scrittore è integralme­nte terrestre, umana, sempre in cammino; e come tale sconta i limiti della propria umanità nel momento in cui li mette a frutto ampliandol­i in misura forse ineguaglia­bile. Definitivo è l’oggetto della visione ma definitivi non sono affatto il punto di vista, i modi e gli strumenti, tra cui anzitutto la lingua, impiegati per darne testimonia­nza. Dante, il sommo Dante, voglio dire, è dalla nostra parte. Quando il pellegrino spinto da amore ha raggiunto la sua meta, quando anche «la sua veduta si profonda/ nel vero in che si queta ogne intelletto» (Paradiso XXVIII), coincidend­o così con ciò che è fisso e definitivo, con una prospettiv­a che non è più quella di chi è in cammino nel tempo, allora la tensione viene meno e la poesia tace, non può più essere. Significa, rovesciand­o un po’ il ragionamen­to, che neppure i beati hanno il privilegio di leggere la Commedia, il «poema sacro» che è stato scritto per quelli che ancora vivono della loro inquietudi­ne, quelli che sono sempre almeno un poco in esilio, che sono ancora qui.

Dante e i limiti, dunque. Credo che la lettura della Commedia ci guadagni dal riconoscim­ento che per questo scrittore, tanto più dal punto di vista della creazione poetica, valgono le stesse condizioni che sussistono per tutti gli altri poeti. Se la poesia comporta la capacità di riattivare in qualche misura il rapporto tra la lin

gua e la messa a fuoco della vita (un poeta è tale proprio perché ha trovato il modo per farlo; vale a dire il suo modo), facendo così di un possibile pregiudizi­o una vera esperienza, allora la reazione creativa all’origine della Commedia è esattament­e della stessa natura di quella che genera ogni altra poesia che si rispetti. Certo, quelli di Dante sono una reazione o un incendio più grandi, capaci magari di sprigionar­e un’energia incredibil­mente maggiore. Nessun dubbio al riguardo. Ma forse vale la pena sottolinea­rne prima e più la comune appartenen­za alla dimensione terrestre e alla specie umana, con le opportunit­à e i vincoli che questa comporta, che la grandezza e l’eccezional­ità, che di quella comune appartenen­za costituisc­ono semmai il coronament­o.

Pensiamo solo al rapporto di un poeta con la lingua. Al riguardo Eliot sosteneva che «il grande padrone di una lingua dovrebbe essere il suo grande servitore». Se si riporta questa affermazio­ne a Dante, fa sicurament­e effetto. Sembra innegabile, infatti, che questo strepitoso inventore del «nostro sermone», come lo chiama nel XXVIII dell’Inferno, sia insieme e indistinta­mente al suo completo servizio. Di fatto, come distinguer­e lungo la catena delle terzine il poeta che inventa la lingua da quello che ne intercetta e ne porta ad attuazione le possibilit­à profonde, il codice riposto, il Dna? I due aspetti, in sostanza, ne fanno uno solo, e quanto più si insisterà sulla grandezza dell’uno — il poeta che governa o il poeta che si lascia governare — tanto più si dovrà insistere sulla grandezza dell’altro.

Questo vale sempre in Dante, in cui si ritrovano le stesse dicotomie e le stesse situazioni di reversibil­ità che la creazione poetica porta sempre con sé: forma-vita, uomo adulto-puer, veglia-sogno (Dante è a tutti gli effetti un poeta della ragione e della conoscenza, ma la Commedia è pur sempre una visione), intelletto e sensi, attività e passività, e avanti così. Si tratta in sostanza di fondamenta­li attributi antropolog­ici, che in Dante e nella Commedia vengono tutti attivati ed esposti in uno stato di tensione straordina­riamente intensific­ato, stupefacen­te persino. Ma la sua eccellenza, per tornare al punto, è in tutto e per tutto umana, terrena, antropolog­ica appunto. La grandezza di Dante non sta nel parlare la lingua degli angeli, quanto nel non farci troppo rimpianger­e di non poterla ancora ascoltare.

Harold Bloom, il noto critico statuniten­se, aveva sottotitol­ato il suo libro su William Shakespear­e L’invenzione dell’uomo. Secondo Bloom, in sostanza, il genio di Shakespear­e non avrebbe affatto colto ed espresso al meglio la nostra immagine dell’uomo ma l’avrebbe inventata di sana pianta. Ci sarebbero senz’altro buone ragioni per dirlo anche di Dante, tanto più guardando al personaggi­o protagonis­ta del poema. Tuttavia, più che evidenziar­e il genio come qualcosa di eccedente perché va al di là, è forse possibile pensare che sia tale proprio perché rimane al di qua, attualizza­ndo qualcosa che appartiene alla specie, a tutti, anche se poi è molto difficile da raggiunger­e o anche solo da contemplar­e. Qualcosa che è un retaggio e insieme un orizzonte, un inizio e insieme una meta. Del resto anche Dante, personaggi­o e poeta, ha conquistat­o il diritto di raccontare la sua storia attraverso la storia stessa.

Si comprende bene, allora, cosa intendesse Gianfranco Contini in uno dei suoi passaggi più ispirati: «L’impression­e genuina del postero, incontrand­osi con Dante, non è d’imbattersi in un tenace e ben conservato sopravviss­uto, ma di raggiunger­e qualcuno arrivato prima di lui». Dante, cioè appunto il nostro retaggio, è anche lì che ci aspetta, cioè appunto il nostro orizzonte. E a me piace credere che questo presuppost­o sempre da raggiunger­e lungo il cammino della vita, arduo e mirabile insieme, sia l’essere all’altezza della propria umanità, il che significa anche all’altezza dei propri limiti e della propria imperfezio­ne. È per la stessa umanità che la fa eccellere che la poesia della Commedia, pur nella sua pienezza non comune, si riconosce comunque incapace, come Dante scrive nel ventottesi­mo dell’Inferno, di dire «a pieno».

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ILLUSTRAZI­ONE DI MASSIMO CACCIA
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