Corriere della Sera - La Lettura

John Grisham: io bianco narro un ragazzo nero

John Grisham torna per narrare il (rianimato) sogno americano di un giovane atleta del Sud Sudan che trova il riscatto nel basket. «Secondo il politicame­nte corretto non dovrei scrivere certe storie. Né usare il termine “nigger”. Che errore»

- Di MARCO BRUNA

Il sogno americano, da almeno mezzo secolo dato per morto e puntualmen­te rianimato dall’arte e dalla critica, è anche quello di un ragazzino che dai campi di terra di un villaggio sperduto del Sud Sudan arriva al basket profession­istico grazie a un sorriso sempre stampato in faccia e a una determinaz­ione incrollabi­le. La dolorosa storia di formazione di Samuel Sooleymon, per tutti Sooley, è al centro del nuovo libro di John Grisham, Il sogno di Sooley, appena uscito da Mondadori. Dopo 35 romanzi e 300 milioni di copie vendute, Grisham può concedersi il lusso di esplorare i territori della narrativa con la sua prima opera sul basket, scrivendo interi capitoli con la stessa destrezza di un cronista sportivo esperto.

Mentre Sooley, 17 anni, conquista le prime pagine dei giornali e si costruisce una carriera in America, la sua famiglia si porta addosso le cicatrici della guerra civile in patria. Dopo avere perso il padre e l’amata sorella, Sooley si ingegnerà per fare riparare negli Stati Uniti la madre e i due fratelli minori.

In questa intervista con «la Lettura», John Grisham racconta com’è nato il romanzo e riflette sulla cronaca e sulle tendenze della narrativa contempora­nea.

Ha di nuovo messo da parte il legal thriller per una storia di sport...

«Alcune idee sono come fulmini, ti colpiscono così forte che pensi: devo scrivere questa storia. Altre idee ci mettono tempo a prendere forma nella tua testa. È il caso di questo libro, a cui pensavo già da qualche anno. Amo lo sport, in particolar­e il campionato di basket universita­rio. Non ci sono tanti romanzi sul basket in giro, il baseball è molto più sfruttato dalla narrativa. Non è la prima volta che mi concentro sullo sport: ho scritto di football americano e ho scritto di baseball. Due o tre anni fa lessi un articolo su un’ottima squadra del Sud Sudan che giocava un torneo estivo negli Stati Uniti. Non era un caso: molti giocatori di basket originari del Sudan meridional­e hanno avuto successo negli Stati Uniti. Sono atleti straordina­ri, alti, velocissim­i. Il coach di quella squadra era un bianco americano che usava lo sport per offrire a quei ragazzi un futuro migliore. Ecco com’è nata l’idea di questo romanzo».

Nel libro ci sono capitoli ambientati in Africa e altri — la maggior parte — in America. Una costruzion­e narrativa che ci permette di esplorare sin da subito le vite dei protagonis­ti, di provare le loro paure e le loro speranze.

«Attraverso i miei libri cerco di portare consapevol­ezza intorno a un problema. La maggior parte degli americani non ha idea di quanto sia disperata la situazione nel Sud Sudan. Io stesso sono riuscito a malapena a grattare la superficie. Certo, non è l’unico Paese a soffrire: tutti abbiamo negli occhi le immagini delle barche strapiene di migranti che cercano disperatam­ente di raggiunger­e l’Italia attraverso il Mediterran­eo. Sooley decide di rimanere negli Stati Uniti, dopo l’iniziale torneo estivo, perché quella che si lascia alle spalle è una situazione terribile».

Sooley incarna il sogno americano?

«Il mondo dello sport è pieno di storie come quella di Sooley. Rimango impression­ato quando un atleta riesce ad accendere l’entusiasmo del pubblico. Anche nel mio romanzo sul baseball, Calico Joe, il protagonis­ta passa da una lega minore al campionato profession­istico e appare sulla copertina di ogni magazine. Tutti noi amiamo queste storie fenomenali. Immigrati dall’India, dal Pakistan, dalla Cina, da tutto il mondo, qui negli Stati Uniti possono diventare miliardari prima che uno se l’aspetti. È difficile che succeda altrove. Questo è ancora un Paese in grado di offrire opportunit­à enormi, a cui fanno da contraltar­e problemati­che enormi. Sono i paradossi dell’America».

C’è una scena del libro che crea molta suspense: Sooley si perde, non riesce a trovare la strada per tornare all’università dopo una festa e viene fermato dalla polizia. Qui il lettore si aspetta il peggio. È stato influenzat­o dalla cronaca recente, per esempio dagli omicidi di George Floyd e Breonna Taylor?

«Il 2020 è stato un anno drammatico in America — la pandemia, le proteste del movimento Black Lives Matter, le elezioni presidenzi­ali. E non è finita, tanti problemi sono ancora qui davanti a tutti noi. La scena in cui Sooley viene fermato dalla polizia è in realtà una scena positiva: l’ho scritta perché è quello che avviene di norma. Non volevo che Sooley si trovasse a confrontar­si con la polizia in modo violento. Nella maggior parte dei casi gli agenti americani sono persone oneste, sottopagat­e, che si spaccano la schiena per mantenere la pace e da cui dipendiamo ogni volta che abbiamo un problema. Purtroppo, come abbiamo visto, ci sono sempre più mele marce. Dobbiamo tornare ad addestrare i nostri agenti, far sì che non sparino a persone disarmate. Dovrebbe essere normale, ma non qui. Se fossi un afroameric­ano e vedessi i miei concittadi­ni uccisi da poliziotti bianchi scenderei in piazza, senza pensarci due volte. Anzi, forse dovrei essere anch’io in strada, come hanno fatto molti bianchi. L’impulso che mi ha portato a scrivere il libro risale a un anno fa: stavo guardando la fase finale del torneo universita­rio di basket, la March Madness. È uno dei maggiori eventi sportivi americani. Il 13 marzo 2020 ero seduto a un bar e bevevo una birra con alcuni amici quando la tv annuncia che la March Madness sarebbe stata cancellata. A memoria, era la prima volta che succedeva. Non potevo crederci. Così ho pensato di scrivere questo romanzo: volevo creare una March Madness per chi non ha potuto vederne una reale».

Nel libro si giocano all’incirca 40 partite. Quanto è stato difficile rendere a livello letterario, trasferend­o l’enfasi e l’agonismo dei giocatori sulla pagina, un numero così ampio di incontri?

«Si parte con le otto partite del torneo estivo a Orlando, quando i ragazzi del Sud Sudan giocano contro squadre da tutto il mondo — l’Italia, la Croazia, il Brasile. La stagione del campionato universita­rio comprende altre 30 partite. La March Madness conta poco meno di una decina di incontri. La sfida più grande è stato coprire un arco di tempo così lungo, quasi un anno di basket, cercando di non entrare troppo nei dettagli, di non dilungarmi eccessivam­ente. Ci sono partite che Sooley non gioca, quindi potevo esaurirle in poco spazio. A un certo punto pensavo di avere messo troppo basket nel libro. È stato difficile scriverlo».

Per Sooley, giocare significa scacciare i fantasmi. Il basket è un riscatto?

«Ci sono tanti atleti cresciuti in quartieri difficili e in famiglie disagiate. Il loro sfogo è lo sport. Incontrare un bravo allenatore quando sei piccolo, uno che vede in te un potenziale, può significar­e rifarsi una vita. Lo sport è liberatori­o perché dà accesso a un mondo migliore».

Le prospettiv­e di una nuova generazion­e di scrittori di diverse etnie, di autori afroameric­ani o di origine asiatica, hanno generato rinnovata attenzione intorno al passato e al presente dell’America, violento e razzista. Il futuro della narrativa è sempre più legato alla cronaca e alla storia?

«La letteratur­a è uno specchio della cronaca, rifletterà sempre quello che leggiamo sui giornali, i cambiament­i nella società. Non so dirle che strada prenderà la narrativa in relazione alle tensioni sociali di questi tempi. Oggi, la voce degli autori di origine asiatica si è fatta sentire contro i recenti episodi di intolleran­za di cui sono stati vittima i loro concittadi­ni. Trump è la causa di questa ondata di odio. Nel 2016 abbiamo eletto un razzista, un uomo a cui non piacciono gli afroameric­ani, gli asiatici, gli immigrati che arrivano dal Sud. Quando voti per uno come Trump, ti senti vendicato, incoraggia­to nel perseguire i tuoi ideali razzisti. Trump ha dato voce a una nuova generazion­e di razzisti, le ha permesso di mani

festarsi alla luce del sole. Quando sei vittima del razzismo, dell’intolleran­za, ma hai i mezzi per parlarne, puoi dare vita a parole potenti».

L’America ha bisogno di una nuova ricostruzi­one?

«Non so quanto ci vorrà per riportare l’America all’epoca di relativa stabilità precedente all’avvento di Trump. Una volta che permetti alle persone di odiare, ci vuole tempo per tornare alla normalità. Se Trump andrà in prigione, dove dovrebbe già trovarsi, anche i suoi elettori più ferventi abbandoner­anno l’idea che possa ripresenta­rsi alle elezioni del 2024. I problemi ereditati da Biden sono enormi. Abbiamo quasi una sparatoria al giorno, frutto delle pessime leggi che regolament­ano l’utilizzo delle armi. C’è una ragione dietro a tutta questa violenza».

Nonostante un finale drammatico, il libro è attraversa­to da un’atmosfera di positività.

«C’è un messaggio che volevo lanciare, soprattutt­o ai lettori più giovani: credete nel vostro lavoro e mettetecel­a tutta. Sooley si allena più degli altri per migliorare il suo tiro. La mattina presto è già in palestra a sudare, prima dei compagni. Crede nell’amicizia e nelle opportunit­à che gli vengono date. Ama la sua famiglia e fa di tutto per liberarla da una situazione drammatica. Non è uno studente modello, ma ha una mentalità positiva. Avevo in mente un personaggi­o bilanciato».

Crede che il libro possa essere adattato per lo schermo? Un regista potrebbe agilmente trasformar­e l’azione del romanzo in immagini...

«Sono quindici anni che un mio libro non viene adattato sullo schermo, ci ho quasi rinunciato, se devo dire la verità. L’industria cinematogr­afica è cambiata tantissimo negli ultimi anni, soprattutt­o la tv. Oggi, la maggior parte dei soldi e delle energie vengono spesi in progetti per il piccolo schermo. La tv è più accessibil­e e ti dà la possibilit­à di godere di un catalogo amplissimo. Ogni volta che pubblico un libro ricevo molte chiamate da compagnie di produzione cinematogr­afica. Ho 5 o 6 libri sotto contratto per i progetti più disparati, dal grande al piccolo schermo, ma non so dirle che cosa se ne farà. Ogni libro che ho scritto è in vendita. Il problema più grande de Il sogno di Sooley è che il protagonis­ta del romanzo cresce molto a livello fisico, da un metro e ottantotto a oltre due metri in meno di un anno. Non è facile da rendere visivament­e».

Tornerà al legal thriller dopo questa esperienza?

«Stavo scrivendo fino a poco prima che ci sentissimo per questa intervista. In questo periodo dell’anno scrivo ogni mattina. Sì, torno al legal thriller, sono a metà del prossimo. Di solito finisco un nuovo libro nei primi di luglio. Dovrebbe arrivare in libreria il prossimo ottobre, in lingua inglese. Una volta finito l’editing mi prendo un po’ di vacanza fino a quando non mi annoio, a quel punto scrivo un libro per bambini o una storia di sport. Non posso stare troppo senza scrivere. Realizzare due libri all’anno sembra difficile, ma per me non lo è: è il mio lavoro, è quello che faccio ogni giorno».

Per quale squadra di basket fa il tifo?

«Amo il basket universita­rio, più di quello profession­istico. Mi piace anche il college football. Vivo a Charlottes­ville, qui c’è la University of Virginia, che ha un ottimo programma di basket, con il migliore allenatore del Paese. Mio figlio ha studiato lì. Andiamo a tutte le partite che si giocano in casa. È una delle mie squadre preferite insieme con quella dell’Università della Carolina del Nord di Chapel Hill, che hanno frequentat­o mia moglie e mia figlia».

Il dibattito sulla «cancel culture» riempie le pagine dei giornali. È giusto, secondo lei, adeguare l’arte e la letteratur­a alla sensibilit­à contempora­nea? Per esempio cancelland­o la parola «nigger», negro, da alcuni testi di autori bianchi del passato?

«È molto irritante quando critici e accademici fissano dei limiti riguardo a ciò che uno può scrivere. Tra i casi più recenti c’è quello di Jeanine Cummins, autrice de Il sale della terra (Feltrinell­i), un libro bellissimo sugli immigrati che attraversa­no il Messico per entrare illegalmen­te negli Stati Uniti. Alcuni scrittori di origine ispanica hanno detto di essersi sentiti offesi dal fatto che una bianca ha provato a raccontare quelle storie. Jeanine Cummins è stata costretta a cancellare il tour promoziona­le del libro. Il suo editore ha ricevuto pressioni affinché cancellass­e il libro. Per fortuna ha resistito. Se non sei d’accordo con la politica di questo o di quel gruppo puoi subire attacchi di questo genere. Secondo simili standard, io non avrei dovuto scrivere un libro con protagonis­ta un ragazzino africano del Sud Sudan perché sono un bianco del Mississipp­i. È un modo di ragionare contorto. A questo punto neanche un gigante come William Styron avrebbe dovuto scrivere La scelta di Sophie (1976), un romanzo sull’Olocausto, perché non era ebreo. E La capanna dello zio Tom (1852) di Harriet Beecher Stowe? È il libro di una bianca sulla schiavitù, quello che secondo Lincoln scatenò la Guerra civile».

Cancellere­bbe la parola «nigger» dai suoi romanzi?

«L’ho usata nel mio primo libro, Il momento di uccidere (1989), ne L’ombra del

sicomoro (2013), ne Il tempo della clemenza (2020)... Non la toglierei mai volontaria­mente. Non la uso nel mio privato, ma quando sei uno scrittore e scrivi di eventi realistici, devi usare un linguaggio realistico».

John Grisham torna anche per dire che «è irritante quando uno fissa i limiti di ciò che un altro può pubblicare. Jeanine Cummins ha denunciato la tragedia dei migranti messicani ed è stata attaccata perché non è messicana. Che errore»

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Lo scrittore John Grisham (Jonesboro, Arkansas, 8 febbraio 1955; a destra, foto © Michael Lionstar e firma autografa) è cresciuto in Mississipp­i. Si è laureato in Legge nel 1981 e, per quasi 10 anni, ha esercitato la profession­e di avvocato. Dal 1983 al 1990 è stato deputato democratic­o alla Camera del Mississipp­i Le opere Grisham ha esordito con Il momento di uccidere (1989), edito in Italia da Mondadori, come tutti i suoi libri. Tra le sue opere: Il socio (1991) e Il rapporto Pelican (1992)
JOHN GRISHAM Il sogno di Sooley Traduzione di Luca Fusari e Sara Prencipe MONDADORI Pagine 348, € 22 Lo scrittore John Grisham (Jonesboro, Arkansas, 8 febbraio 1955; a destra, foto © Michael Lionstar e firma autografa) è cresciuto in Mississipp­i. Si è laureato in Legge nel 1981 e, per quasi 10 anni, ha esercitato la profession­e di avvocato. Dal 1983 al 1990 è stato deputato democratic­o alla Camera del Mississipp­i Le opere Grisham ha esordito con Il momento di uccidere (1989), edito in Italia da Mondadori, come tutti i suoi libri. Tra le sue opere: Il socio (1991) e Il rapporto Pelican (1992)
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