Corriere della Sera - La Lettura
«I sei personaggi» tra noi un secolo dopo il debutto
Il 9 maggio 1921, esattamente un secolo fa, debuttò al Teatro Valle di Roma un testo che, quella sera stessa e poi nei giorni successivi, non fu affatto ritenuto il capolavoro che avrebbe consacrato Luigi Pirandello. «Sei personaggi in cerca d’autore» fu fischiato al grido «Manicomio, manicomio». I 1.040 spettatori della prima si ridussero a 367 già la sera dopo. Il 13 maggio fu addirittura tolto dal cartellone. «La Lettura» ha chiesto a sei interpreti — registi e/o attori — di raccontare il loro rapporto con l’opera che ha cambiato il teatro del Novecento
Il 9 maggio 1921 i Sei personaggi in cerca d’autore vanno in scena al Teatro Valle di Roma. L’allestimento è di Dario Niccodemi, capocomico di valore, che scrive nel suo diario alla data del 17 aprile 1921, meno di un mese prima del debutto: «Ho letto la nuova commedia di Pirandello Sei personaggi in cerca d’autore e ne sono come stordito, tanto dalla grandezza veramente nobile del tema quanto dalla stranezza della forma. Lo rileggerò. Forse tutto si rischiarerà alle prove».
Se tra le righe si legge un positivo, anche se generico (grandezza nobile del tema), apprezzamento, colpiscono due asserzioni: che il testo è di non facile comprensione, dovrà essere riletto, sperando che il lavoro delle prove aiuti a capire; e che si caratterizza per la stranezza della forma. «Questo elemento è importante — spiega Roberto Alonge, scrittore, docente e critico teatrale — e costituisce la rivoluzione teatrale del Novecento: il pubblico non ritrova sul palcoscenico un salotto borghese, come si attendeva, ma s’imbatte in un teatro vuoto, con attori che stanno preparando uno spettacolo, che sono dunque attori e non ancora personaggi (il famoso teatro nel teatro)».
Alla prima, teatro gremito, 1.040 posti venduti; il 10 maggio gli spettatori scendono vorticosamente a quota 367; l’11 maggio sono 317; il 12 maggio 225. Il 13 maggio i Sei personaggi sono tolti dal cartellone. Un fiasco. Il pubblico urla «Manicomio, manicomio».
La stampa romana non capisce. I pochi critici che capiscono (per esempio Adriano Tilgher), interpretano che il nucleo del lavoro consiste nella riflessione sulla creazione artistica, cioè sul rapporto fra autore e personaggi. Il critico Renato Simoni individuò nell’opera diversi temi: il dramma creativo dell’artista (già colto da Tilgher), e il discorso sul rapporto personaggio/attore, cioè sulla difficoltà per l’attore di cogliere l’essenza profonda del personaggio, il rischio di deformarlo.
«Emerge a fatica l’attenzione allo zoccolo duro dell’opera — sottolinea Alonge —, la vicenda torbida che coinvolge i sei personaggi. Renato Simoni ne coglie riduttivamente solo un lembo, quando parla del dramma di ogni uomo che si sente incompreso, alludendo al Padre, che si percepisce demonizzato dalla Figliastra perché sorpreso in una casa di appuntamenti».
Questo sintetico quadro di fondo, prosegue lo studioso, «ci consente di rendere ragione delle sei testimonianze che qui si presentano. Roberto Latini, con la sua riscrittura dei Sei personaggi per un solo attore, è ovviamente sensibile a quella stranezza della forma che aveva colpito Niccodemi, cioè alla linea di una ricerca sperimentale sul linguaggio teatrale. Più attenta a rispettare la complessità dell’opera pirandelliana è la realizzazione di Luca De Fusco, che cerca di seguire alcune delle diverse chiavi di lettura in essa implicite. Benché assai diverse fra loro, le edizioni di Ronconi (di cui riferisce Lucrezia Guidone), di Lavia e la rivisitazione/adattamento di Scimone e Sframeli si muovono lungo una linea interpretativa tesa a mettere un po’ in ombra la dimensione metateatrale dell’opera, il contrasto fra attori e personaggi, per concentrarsi sulla torbida vicenda che lega Padre, Madre, Figliastra, Figlio».
Poi aggiunge: «Memorabile la messinscena di Lavia per avere esaltato la pulsione a una sessualità perversa del Padre, ma anche per avere rifiutato l’errata tradizione scenica di una Madre vecchia, puntando su un’attrice di bella presenza come Rosy Bonfiglio. Anche Scimone e Sframeli innovano su questo punto, vestendo la Madre di verde, anziché con il solito nero a lutto, e le battute che interpolano ci mostrano una donna non più sottomessa, che ha abbandonato il marito per un altro uomo». In questa stessa direzione dovrebbe andare lo spettacolo del Teatro Vertigo di Livorno, per la regia di Francesca Malara, interrotto dalla pandemia prima del debutto.