Corriere della Sera - La Lettura

L’obbedienza è di nuovo una virtù

- conversazi­one tra NATALINO IRTI, PIERGAETAN­O MARCHETTI e SALVATORE NATOLI a cura di ANTONIO CARIOTI

L’emergenza determinat­a dalla pandemia da Covid-19 ha riportato in primo piano la necessità di adeguarsi alle direttive provenient­i dall’autorità, rivalutand­o il significat­o della scelta di obbedire rispetto alla decisa contestazi­one di cui si era fatto portavoce negli anni Sessanta don Lorenzo Milani. Approfondi­sce il problema in un libro il giurista Natalino Irti, che abbiamo messo a confronto in queste pagine con il presidente della Fondazione Corriere della Sera, Piergaetan­o Marchetti, e con il filosofo Salvatore Natoli

Nel libro Viaggio tra gli obbedienti (La nave di Teseo) il giurista Natalino Irti propone un punto di vista complesso e articolato su un tema che è tornato di particolar­e attualità in seguito alla pandemia. In questo periodo difficile le autorità costituite hanno emesso continue direttive alle quali i cittadini si sono in genere attenuti sulla base della necessità di affrontare una minaccia subdola e micidiale. Sembra quasi che l’obbedienza, purché meditata e ragionata, abbia riacquista­to un carattere positivo. Quello che don Lorenzo Milani le aveva negato, in polemica con i cappellani militari proclamand­o: «L’obbedienza non è più una virtù». Ma è veramente così? Per approfondi­re l’argomento abbiamo invitato Irti a confrontar­si con Piergaetan­o Marchetti, a sua volta studioso del diritto e presidente della Fondazione Corriere della Sera, e con Salvatore Natoli, docente di Filosofia teoretica presso l’Università MilanoBico­cca.

PIERGAETAN­O MARCHETTI — Durante la pandemia si sono susseguite continue richieste di obbedienza, con divieti concernent­i libertà fondamenta­li ed elementari: spostarsi, radunarsi con altri, esercitare attività economiche. Il fatto che siano in gioco da una parte il bene più essenziale, la vita, e dall’altra diritti primari dovrebbe stimolare una risposta consapevol­e, basata su una riflession­e profonda di ciascuno circa quelli che gli economisti chiamano costi e benefici. Al di là dell’attuale emergenza c’è poi il tema generale dell’alluvione legislativ­a, con l’accavallar­si di norme scritte in un linguaggio oscuro. A mio parere è un fenomeno pericolosi­ssimo: da una parte produce l’anomia, l’assenza di regole chiare a cui attenersi, dall’altra alimenta la sfiducia nel legislator­e, anzi la condanna generalizz­ata delle istituzion­i. Una reazione alla quale, sul piano politico, corrispond­e la tendenza a lanciare appelli emotivi, rivolti alla pancia e non alla ragione. Si sollecita così un’obbedienza che non comporta adesione cosciente al comando, secondo il paradigma delineato nel libro di Irti, ma spinge i cittadini sul piano inclinato dell’irrazional­ità.

SALVATORE NATOLI — Il comando, osserva Irti, produce un’adesione della volontà che condivide e corrispond­e. Ciò presuppone che l’intenzione di chi emana la direttiva sia compresa da chi ascolta grazie al linguaggio. Ma a volte il comando viene trasmesso in modo equivoco. Oggi poi, di fronte al coronaviru­s, si manifesta un’inflazione di norme dovuta al costante variare delle condizioni: il tasso di diffusione del contagio, la pressione sugli ospedali, il numero dei morti. I politici si confessano incompeten­ti e dicono che bisogna ascoltare gli scienziati, i quali però, dinanzi a fenomeni ancora in gran parte da studiare, non possono fornire certezze. Così il vaccino AstraZenec­a, che sembrava più indicato per i giovani, adesso viene riservato agli anziani. L’attuale proliferaz­ione di norme non discende tanto dal meccanismo legislativ­o quanto dalla pressione di una contingenz­a che impone spesso di revocare in fretta quanto si è appena stabilito. Le regole variano ogni settimana, sono sempre suscettibi­li di un’interpreta­zione alternativ­a. E, nell’ambiguità che ne consegue, ognuno cerca di piegarle a suo vantaggio. Non c’è modo di uscire da questo circolo vizioso?

SALVATORE NATOLI — Chi dà l’ordine e chi lo riceve dovrebbero impegnarsi reciprocam­ente al chiariment­o. È un principio giuridico, ma anche etico. Però se il legislator­e si trova espropriat­o della sua titolarità, perché la formulazio­ne della norma è demandata agli esperti, diventa più forte la tendenza della politica a strumental­izzare la confusione, facendo, magari, leva su oggettive condizioni di disagio. Di qui un’identifica­zione per schieramen­to più che una per adesione consapevol­e: non obbedisco a un comando che comprendo, piuttosto a un capo nel quale mi riconosco. Ma dalla perdita della fiducia verso le istituzion­i, come notava Marchetti, scaturisce la tendenza a concederla più facilmente a chi sa coniare slogan efficaci sul piano emotivo.

Può derivarne un rischio per lo Stato di diritto?

SALVATORE NATOLI — Credo di sì. La reiterata decretazio­ne scavalca il Parlamento per effetto della spinta a proteggere la salute. Ma la difesa della vita non è tutto, non può essere assolutizz­ata con un eccesso di supplenza rispetto alle procedure ordinarie. Ritengo infondate le teorie complottis­te, secondo cui la pandemia è stata usata per introdurre una dittatura silente, ma è vero che il cittadino è stato posto di fronte a fatti compiuti, spesso incomprens­ibili. Qui non c’è libera obbedienza, ma coazione, cioè annullamen­to della libertà.

NATALINO IRTI — Ringrazio Marchetti e Natoli per l’attenzione verso il mio libro, nato nel denso fluire delle disposizio­ni sul Covid. Ho riflettuto sull’obbedienza come un atto di libertà, una scelta che l’individuo compie dopo un travaglio interiore, superando i dubbi. Ciò è reso

difficile da quello che ho chiamato «occasional­ismo normativo», il succedersi di norme che inseguono circostanz­e mutevoli, sconcertan­do i destinatar­i. Il rischio è duplice: generare sfiducia nei cittadini e indurli all’arte di arrangiars­i. Così l’eccesso di norme produce paradossal­mente l’anomia, la mancanza di regole.

Finisce per soffrirne la democrazia?

NATALINO IRTI — Il sistema rappresent­ativo è messo a dura prova dalla nomina di innumerevo­li commissari, dal rarefarsi delle sedute parlamenta­ri, dal ricorso ai decreti. Inoltre prende piede il semplicism­o del linguaggio segnalato da Marchetti, che non va confuso con la sobrietà. Serve chiarezza, non suggestion­e emotiva. Non slogan utili a elidere il pensiero e dotati dell’unica virtù di essere meccanicam­ente ripetibili. Quanto allo Stato di diritto, esso si fonda sulla parola di cui sono fatte leggi e sentenze. Se il linguaggio non è limpido, lo Stato di diritto s’indebolisc­e. La parola è il necessario ponte fra governanti e governati.

PIERGAETAN­O MARCHETTI — La parte che Irti dedica nel libro alle ragioni per le quali si obbedisce è incentrata sul tema del linguaggio, la cui comprensio­ne determina la formazione di una volontà motivata e libera. Entrano in gioco anche elementi di tipo psicologic­o, dai quali peraltro può derivare una reattività non meditata. Io credo che nella maggioranz­a dei casi l’atto individual­e di obbedire sia riconducib­ile a una sorta di inerzia o di abitudine. Obbedisco perché sono cittadino di uno Stato o lavoratore di una certa azienda, perché appartengo a un’organizzaz­ione o anche solo perché non vedo ragioni per un rifiuto. Di per sé questo non è un atteggiame­nto da condannare, in fondo è una forma di adesione ai princìpi generali su cui si fonda la società; una scelta di socialità che permane solo se cosciente, libera, fondata sulla fiducia. Questa è la partita in gioco.

Come si può ottenere un risultato del genere?

PIERGAETAN­O MARCHETTI — Bisogna che i governanti mantengano in funzione il circuito del consenso, basato sulla convinzion­e che la mia obbedienza giova agli altri e la loro giova a me. Quando il mio fraterno amico Tommaso Padoa-Schioppa diceva che le tasse sono una cosa bellissima e tutti lo deridevano, esprimeva questo concetto, cioè la consapevol­ezza che il mio rispetto delle leggi serve a far funzionare meglio la società, quindi si riflette anche a mio vantaggio. Ecco il valore etico fondamenta­le del libro di Irti: un’iniezione di illuminism­o ragionato quanto mai necessaria in un contesto che vede prevalere i richiami emotivi o le suggestion­i commercial­i, e spesso non solo commercial­i, esercitate attraverso la profilazio­ne digitale.

SALVATORE NATOLI — Quando viene impartito un comando, il linguaggio ha una natura strumental­e: si configura come un termine medio tra la direttiva e la sua ricezione, che mette in contatto due volontà. Nella storia sono stati creati istituti appositi per la trasmissio­ne del comando: per esempio l’apparato giuridico. Ma c’è anche una dimensione originaria, che Irti mette in luce quando scrive che «ogni comunità è una comunità di ascoltator­i». Qui il linguaggio non è uno strumento, ma noi tutti, in quanto dotati della capacità di parlare, siamo posti nel linguaggio, siamo istituiti come ascoltator­i sin dalla nascita. Aristotele nella Politica definisce l’uomo proprio come l’animale dotato del logos, del linguaggio. L’obbedienza sorge quando si ascolta la parola dell’altro che sollecita una risposta. E si connette alla responsabi­lità. Responsabi­le è colui che risponde. La parola dell’altro ti impegna: sul piano etico va assunta come se fosse legge. Poi sei libero di giudicarla, ma sei obbligato a valutarla e a fornire una risposta. In quanto ascoltator­i, noi siamo tutti responsabi­li e degni di essere presi sul serio.

Non sempre però il discorso pubblico corrispond­e a questo fondo etico.

SALVATORE NATOLI — Certo, nell’ordinaria vita contempora­nea in genere la voce dell’altro non viene considerat­a degna di una valutazion­e meditata. Troppo spesso si parla a vanvera, a orecchio, di passaggio... L’irrilevanz­a in cui viene tenuta la parola dell’altro provoca una sorta di anomia preliminar­e, non da eccesso di norme, ma da indifferen­za reciproca. E allora io dico: torniamo all’obbedienza basata sull’ascolto, perché in caso contrario non possiamo essere responsabi­li e cadiamo nelle situazioni spurie indicate da Irti.

Quali?

SALVATORE NATOLI — Ad esempio l’obbedienza per paura, nella quale prevale una forma di coazione psicologic­a, che limita la libertà. Poi c’è il bisogno di obbedienza: la nostra incapacità di orientarci nel mondo ci induce ad aderire per deficit di valutazion­e, in cerca di un effetto protettivo. Quanto all’obbedienza per conformità, di cui parlava Marchetti, deriva dal fatto che non possiamo sempre ricomincia­re daccapo, sopportare un sovraccari­co di decisioni: quindi applichiam­o il «principio di esonero», un automatism­o funzionale alla società. Attenzione però: se la routine diventa eccessiva e non ci domandiamo più perché obbedire, si finisce per cadere in una dittatura di fatto.

NATALINO IRTI — Con grata ironia, direi che Marchetti e Natoli stanno rivelando il contenuto del libro al suo autore. Ricordo che nell’Università di Sassari, molti anni fa, trovai l’iscrizione latina Fortitudo

mea oboedienti­a maiorum. Cioè: la mia forza d’animo deriva dall’obbedienza agli antenati, ai sapienti che mi hanno preceduto. Ciò si connette a quella che nel libro chiamo «scelta dell’inizio», cioè l’assunzione di un principio regolativo, una

Grundnorm: obbedisco al re, oppure al Parlamento, o a un partito e così via. Questo schema, forse un po’ arido, si riempie in concreto dei contenuti più diversi. Si è citato il calcolo costi-benefici, così come il valore della reciprocit­à nell’obbedienza. Natoli ha evocato l’ascolto, il fenomeno primordial­e dell’obbedienza e la necessità di prendere l’altro sul serio. Ecco, il mio libro vuole essere anche un appello alla serietà della decisione, un richiamo alla consapevol­ezza e alla coltivazio­ne del dubbio. Solo così decidere diventa un atto di libertà. Comando, dubbio, decisione: tutti si ritrovano nell’intimità della coscienza individual­e. Il mio diario di viaggio ha per ultima meta la serietà della vita e la libertà del singolo.

Finora ci siamo soffermati sull’obbedienza. Vogliamo parlare anche della disobbedie­nza?

PIERGAETAN­O MARCHETTI — Ve ne sono di vari tipi. Non tutte le forme di disobbedie­nza esprimono un rifiuto radicale. Alcune anzi, come nota Irti, possono essere assorbite e legittimat­e da apposite norme, come quando è riconosciu­ta l’obiezione di coscienza. Vi sono poi casi in cui la disobbedie­nza ha un carattere opportunis­tico: le infrazioni stradali, oppure l’evasione fiscale. Possono sembrare comportame­nti veniali, ma contengono germi che minano le basi della vita associata. Bisogna fare molta attenzione a questo fenomeno, che è il contrario dell’obbedienza per abitudine di cui si parlava prima. Noi siamo il Paese del «non si potrebbe, però...»: una frase attraverso la quale la violazione delle regole diventa ordinaria.

E la disobbedie­nza radicale, quali caratteri presenta?

PIERGAETAN­O MARCHETTI — Consiste nella scelta di un’appartenen­za incompatib­ile con l’obbedienza all’ordinament­o vigente. In una società come la nostra c’è un grande spazio per appartenen­ze plurime: l’identità moderna è capace di conciliarl­e. Ma quando esse si riferiscon­o alla criminalit­à organizzat­a o a gruppi terroristi­ci, si traducono in una sfida aperta allo Stato. C’è però anche una disobbedie­nza eroica, quella di Antigone, contro ordini ingiusti. Il processo di Norimberga, nel respingere l’argomentaz­ione dei nazisti che dicevano di aver solo obbedito agli ordini, ha dato consistenz­a giuridica a una disobbedie­nza rivolta

Marchetti: è fondamenta­le l’idea che la mia obbedienza giovi agli altri e la loro a me Natoli: serve una disponibil­ità sincera all’ascolto reciproco Irti: lo Stato di diritto esige che il linguaggio delle norme sia espresso in modo chiaro Natoli: la logica emergenzia­le mina la fiducia nelle regole

contro un potere totalitari­o. E ha così affermato il ruolo centrale della coscienza e della ragione.

SALVATORE NATOLI — La disobbedie­nza diffusa è un’infrazione della socialità, rompe un patto di alleanza. La legge si gioca sul nesso tra parola e risposta nella tipica relazione tra aspettativ­e reciproche e incrociate che caratteriz­za gli esseri umani. Non sempre sappiamo ciò che gli altri si attendono da noi e viceversa: possono, quindi, nascere degli equivoci. Funzione primaria della legge è evitare l’ambiguità, mettere in coerenza le azioni degli uomini. Quindi prevede sanzioni verso chi si mostra incoerente e rompe la comunicazi­one sociale. Il fatto che certe infrazioni siano molto diffuse risulta allarmante, perché a lungo andare logorano la società. Ci sono però casi in cui la disobbedie­nza mostra che la norma corrispond­e sempre meno, o non corrispond­e, alla realtà. Quindi ci avverte che deve cambiare le legge, che occorre una regolazion­e più equilibrat­a. Era quello che intendeva Socrate dicendo che le leggi vanno persuase. Il filosofo accetta la condanna a morte per amore della città, ma ribadisce che i giudici hanno sbagliato e le leggi sono inadeguate. La sua è una sorta di disobbedie­nza civile.

Però ci sono anche casi di rifiuto in blocco dell’ordinament­o.

SALVATORE NATOLI — Qui entra in gioco la figura non del disobbedie­nte, ma del rinnegato. Chi contesta in radice un sistema istituzion­ale e se ne chiama fuori, per quell’ordinament­o è un rinnegato, ma da un altro punto di vista può essere un fondatore, se intende dare vita a un genere diverso di convivenza. Le rivoluzion­i nascono così: si taglia la testa al re per istituire un nuovo ordine, reputando illegittim­o quello precedente in quanto violava principi di natura superiore.

NATALINO IRTI — Nel libro ho distinto la disobbedie­nza sporadica a singole norme, che si esaurisce in sé stessa, dal «rifiuto dell’inizio» espresso da chi dichiara di appartener­e a un ordine diverso. Torna qui la scelta del principio costitutiv­o, a cui si richiamano i singoli comportame­nti. Esso dà coerenza e continuità alla nostra vita. Vorrei segnalare anche una sorta di «astuzia della legge positiva», che a volte s’impadronis­ce delle proprie negazioni. L’obiezione di coscienza e la disobbedie­nza civile possono essere neutralizz­ate se la legge le fa proprie e le disciplina, rendendole lecite. Altre forme di disobbedie­nza hanno un’efficacia creativa, preannunci­ano un diritto futuro. In questo caso c’è un effetto propulsivo, che tante volte abbiamo visto manifestar­si nella storia. Il giurista è sempre «situato» in un diritto positivo, e perciò assolve o condanna. Lo storico comprende tutto il passato, e può scorgere nella disobbedie­nza un principio di sviluppo civile o di un diverso diritto.

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