Corriere della Sera - La Lettura
L’obbedienza è di nuovo una virtù
L’emergenza determinata dalla pandemia da Covid-19 ha riportato in primo piano la necessità di adeguarsi alle direttive provenienti dall’autorità, rivalutando il significato della scelta di obbedire rispetto alla decisa contestazione di cui si era fatto portavoce negli anni Sessanta don Lorenzo Milani. Approfondisce il problema in un libro il giurista Natalino Irti, che abbiamo messo a confronto in queste pagine con il presidente della Fondazione Corriere della Sera, Piergaetano Marchetti, e con il filosofo Salvatore Natoli
Nel libro Viaggio tra gli obbedienti (La nave di Teseo) il giurista Natalino Irti propone un punto di vista complesso e articolato su un tema che è tornato di particolare attualità in seguito alla pandemia. In questo periodo difficile le autorità costituite hanno emesso continue direttive alle quali i cittadini si sono in genere attenuti sulla base della necessità di affrontare una minaccia subdola e micidiale. Sembra quasi che l’obbedienza, purché meditata e ragionata, abbia riacquistato un carattere positivo. Quello che don Lorenzo Milani le aveva negato, in polemica con i cappellani militari proclamando: «L’obbedienza non è più una virtù». Ma è veramente così? Per approfondire l’argomento abbiamo invitato Irti a confrontarsi con Piergaetano Marchetti, a sua volta studioso del diritto e presidente della Fondazione Corriere della Sera, e con Salvatore Natoli, docente di Filosofia teoretica presso l’Università MilanoBicocca.
PIERGAETANO MARCHETTI — Durante la pandemia si sono susseguite continue richieste di obbedienza, con divieti concernenti libertà fondamentali ed elementari: spostarsi, radunarsi con altri, esercitare attività economiche. Il fatto che siano in gioco da una parte il bene più essenziale, la vita, e dall’altra diritti primari dovrebbe stimolare una risposta consapevole, basata su una riflessione profonda di ciascuno circa quelli che gli economisti chiamano costi e benefici. Al di là dell’attuale emergenza c’è poi il tema generale dell’alluvione legislativa, con l’accavallarsi di norme scritte in un linguaggio oscuro. A mio parere è un fenomeno pericolosissimo: da una parte produce l’anomia, l’assenza di regole chiare a cui attenersi, dall’altra alimenta la sfiducia nel legislatore, anzi la condanna generalizzata delle istituzioni. Una reazione alla quale, sul piano politico, corrisponde la tendenza a lanciare appelli emotivi, rivolti alla pancia e non alla ragione. Si sollecita così un’obbedienza che non comporta adesione cosciente al comando, secondo il paradigma delineato nel libro di Irti, ma spinge i cittadini sul piano inclinato dell’irrazionalità.
SALVATORE NATOLI — Il comando, osserva Irti, produce un’adesione della volontà che condivide e corrisponde. Ciò presuppone che l’intenzione di chi emana la direttiva sia compresa da chi ascolta grazie al linguaggio. Ma a volte il comando viene trasmesso in modo equivoco. Oggi poi, di fronte al coronavirus, si manifesta un’inflazione di norme dovuta al costante variare delle condizioni: il tasso di diffusione del contagio, la pressione sugli ospedali, il numero dei morti. I politici si confessano incompetenti e dicono che bisogna ascoltare gli scienziati, i quali però, dinanzi a fenomeni ancora in gran parte da studiare, non possono fornire certezze. Così il vaccino AstraZeneca, che sembrava più indicato per i giovani, adesso viene riservato agli anziani. L’attuale proliferazione di norme non discende tanto dal meccanismo legislativo quanto dalla pressione di una contingenza che impone spesso di revocare in fretta quanto si è appena stabilito. Le regole variano ogni settimana, sono sempre suscettibili di un’interpretazione alternativa. E, nell’ambiguità che ne consegue, ognuno cerca di piegarle a suo vantaggio. Non c’è modo di uscire da questo circolo vizioso?
SALVATORE NATOLI — Chi dà l’ordine e chi lo riceve dovrebbero impegnarsi reciprocamente al chiarimento. È un principio giuridico, ma anche etico. Però se il legislatore si trova espropriato della sua titolarità, perché la formulazione della norma è demandata agli esperti, diventa più forte la tendenza della politica a strumentalizzare la confusione, facendo, magari, leva su oggettive condizioni di disagio. Di qui un’identificazione per schieramento più che una per adesione consapevole: non obbedisco a un comando che comprendo, piuttosto a un capo nel quale mi riconosco. Ma dalla perdita della fiducia verso le istituzioni, come notava Marchetti, scaturisce la tendenza a concederla più facilmente a chi sa coniare slogan efficaci sul piano emotivo.
Può derivarne un rischio per lo Stato di diritto?
SALVATORE NATOLI — Credo di sì. La reiterata decretazione scavalca il Parlamento per effetto della spinta a proteggere la salute. Ma la difesa della vita non è tutto, non può essere assolutizzata con un eccesso di supplenza rispetto alle procedure ordinarie. Ritengo infondate le teorie complottiste, secondo cui la pandemia è stata usata per introdurre una dittatura silente, ma è vero che il cittadino è stato posto di fronte a fatti compiuti, spesso incomprensibili. Qui non c’è libera obbedienza, ma coazione, cioè annullamento della libertà.
NATALINO IRTI — Ringrazio Marchetti e Natoli per l’attenzione verso il mio libro, nato nel denso fluire delle disposizioni sul Covid. Ho riflettuto sull’obbedienza come un atto di libertà, una scelta che l’individuo compie dopo un travaglio interiore, superando i dubbi. Ciò è reso
difficile da quello che ho chiamato «occasionalismo normativo», il succedersi di norme che inseguono circostanze mutevoli, sconcertando i destinatari. Il rischio è duplice: generare sfiducia nei cittadini e indurli all’arte di arrangiarsi. Così l’eccesso di norme produce paradossalmente l’anomia, la mancanza di regole.
Finisce per soffrirne la democrazia?
NATALINO IRTI — Il sistema rappresentativo è messo a dura prova dalla nomina di innumerevoli commissari, dal rarefarsi delle sedute parlamentari, dal ricorso ai decreti. Inoltre prende piede il semplicismo del linguaggio segnalato da Marchetti, che non va confuso con la sobrietà. Serve chiarezza, non suggestione emotiva. Non slogan utili a elidere il pensiero e dotati dell’unica virtù di essere meccanicamente ripetibili. Quanto allo Stato di diritto, esso si fonda sulla parola di cui sono fatte leggi e sentenze. Se il linguaggio non è limpido, lo Stato di diritto s’indebolisce. La parola è il necessario ponte fra governanti e governati.
PIERGAETANO MARCHETTI — La parte che Irti dedica nel libro alle ragioni per le quali si obbedisce è incentrata sul tema del linguaggio, la cui comprensione determina la formazione di una volontà motivata e libera. Entrano in gioco anche elementi di tipo psicologico, dai quali peraltro può derivare una reattività non meditata. Io credo che nella maggioranza dei casi l’atto individuale di obbedire sia riconducibile a una sorta di inerzia o di abitudine. Obbedisco perché sono cittadino di uno Stato o lavoratore di una certa azienda, perché appartengo a un’organizzazione o anche solo perché non vedo ragioni per un rifiuto. Di per sé questo non è un atteggiamento da condannare, in fondo è una forma di adesione ai princìpi generali su cui si fonda la società; una scelta di socialità che permane solo se cosciente, libera, fondata sulla fiducia. Questa è la partita in gioco.
Come si può ottenere un risultato del genere?
PIERGAETANO MARCHETTI — Bisogna che i governanti mantengano in funzione il circuito del consenso, basato sulla convinzione che la mia obbedienza giova agli altri e la loro giova a me. Quando il mio fraterno amico Tommaso Padoa-Schioppa diceva che le tasse sono una cosa bellissima e tutti lo deridevano, esprimeva questo concetto, cioè la consapevolezza che il mio rispetto delle leggi serve a far funzionare meglio la società, quindi si riflette anche a mio vantaggio. Ecco il valore etico fondamentale del libro di Irti: un’iniezione di illuminismo ragionato quanto mai necessaria in un contesto che vede prevalere i richiami emotivi o le suggestioni commerciali, e spesso non solo commerciali, esercitate attraverso la profilazione digitale.
SALVATORE NATOLI — Quando viene impartito un comando, il linguaggio ha una natura strumentale: si configura come un termine medio tra la direttiva e la sua ricezione, che mette in contatto due volontà. Nella storia sono stati creati istituti appositi per la trasmissione del comando: per esempio l’apparato giuridico. Ma c’è anche una dimensione originaria, che Irti mette in luce quando scrive che «ogni comunità è una comunità di ascoltatori». Qui il linguaggio non è uno strumento, ma noi tutti, in quanto dotati della capacità di parlare, siamo posti nel linguaggio, siamo istituiti come ascoltatori sin dalla nascita. Aristotele nella Politica definisce l’uomo proprio come l’animale dotato del logos, del linguaggio. L’obbedienza sorge quando si ascolta la parola dell’altro che sollecita una risposta. E si connette alla responsabilità. Responsabile è colui che risponde. La parola dell’altro ti impegna: sul piano etico va assunta come se fosse legge. Poi sei libero di giudicarla, ma sei obbligato a valutarla e a fornire una risposta. In quanto ascoltatori, noi siamo tutti responsabili e degni di essere presi sul serio.
Non sempre però il discorso pubblico corrisponde a questo fondo etico.
SALVATORE NATOLI — Certo, nell’ordinaria vita contemporanea in genere la voce dell’altro non viene considerata degna di una valutazione meditata. Troppo spesso si parla a vanvera, a orecchio, di passaggio... L’irrilevanza in cui viene tenuta la parola dell’altro provoca una sorta di anomia preliminare, non da eccesso di norme, ma da indifferenza reciproca. E allora io dico: torniamo all’obbedienza basata sull’ascolto, perché in caso contrario non possiamo essere responsabili e cadiamo nelle situazioni spurie indicate da Irti.
Quali?
SALVATORE NATOLI — Ad esempio l’obbedienza per paura, nella quale prevale una forma di coazione psicologica, che limita la libertà. Poi c’è il bisogno di obbedienza: la nostra incapacità di orientarci nel mondo ci induce ad aderire per deficit di valutazione, in cerca di un effetto protettivo. Quanto all’obbedienza per conformità, di cui parlava Marchetti, deriva dal fatto che non possiamo sempre ricominciare daccapo, sopportare un sovraccarico di decisioni: quindi applichiamo il «principio di esonero», un automatismo funzionale alla società. Attenzione però: se la routine diventa eccessiva e non ci domandiamo più perché obbedire, si finisce per cadere in una dittatura di fatto.
NATALINO IRTI — Con grata ironia, direi che Marchetti e Natoli stanno rivelando il contenuto del libro al suo autore. Ricordo che nell’Università di Sassari, molti anni fa, trovai l’iscrizione latina Fortitudo
mea oboedientia maiorum. Cioè: la mia forza d’animo deriva dall’obbedienza agli antenati, ai sapienti che mi hanno preceduto. Ciò si connette a quella che nel libro chiamo «scelta dell’inizio», cioè l’assunzione di un principio regolativo, una
Grundnorm: obbedisco al re, oppure al Parlamento, o a un partito e così via. Questo schema, forse un po’ arido, si riempie in concreto dei contenuti più diversi. Si è citato il calcolo costi-benefici, così come il valore della reciprocità nell’obbedienza. Natoli ha evocato l’ascolto, il fenomeno primordiale dell’obbedienza e la necessità di prendere l’altro sul serio. Ecco, il mio libro vuole essere anche un appello alla serietà della decisione, un richiamo alla consapevolezza e alla coltivazione del dubbio. Solo così decidere diventa un atto di libertà. Comando, dubbio, decisione: tutti si ritrovano nell’intimità della coscienza individuale. Il mio diario di viaggio ha per ultima meta la serietà della vita e la libertà del singolo.
Finora ci siamo soffermati sull’obbedienza. Vogliamo parlare anche della disobbedienza?
PIERGAETANO MARCHETTI — Ve ne sono di vari tipi. Non tutte le forme di disobbedienza esprimono un rifiuto radicale. Alcune anzi, come nota Irti, possono essere assorbite e legittimate da apposite norme, come quando è riconosciuta l’obiezione di coscienza. Vi sono poi casi in cui la disobbedienza ha un carattere opportunistico: le infrazioni stradali, oppure l’evasione fiscale. Possono sembrare comportamenti veniali, ma contengono germi che minano le basi della vita associata. Bisogna fare molta attenzione a questo fenomeno, che è il contrario dell’obbedienza per abitudine di cui si parlava prima. Noi siamo il Paese del «non si potrebbe, però...»: una frase attraverso la quale la violazione delle regole diventa ordinaria.
E la disobbedienza radicale, quali caratteri presenta?
PIERGAETANO MARCHETTI — Consiste nella scelta di un’appartenenza incompatibile con l’obbedienza all’ordinamento vigente. In una società come la nostra c’è un grande spazio per appartenenze plurime: l’identità moderna è capace di conciliarle. Ma quando esse si riferiscono alla criminalità organizzata o a gruppi terroristici, si traducono in una sfida aperta allo Stato. C’è però anche una disobbedienza eroica, quella di Antigone, contro ordini ingiusti. Il processo di Norimberga, nel respingere l’argomentazione dei nazisti che dicevano di aver solo obbedito agli ordini, ha dato consistenza giuridica a una disobbedienza rivolta
Marchetti: è fondamentale l’idea che la mia obbedienza giovi agli altri e la loro a me Natoli: serve una disponibilità sincera all’ascolto reciproco Irti: lo Stato di diritto esige che il linguaggio delle norme sia espresso in modo chiaro Natoli: la logica emergenziale mina la fiducia nelle regole
contro un potere totalitario. E ha così affermato il ruolo centrale della coscienza e della ragione.
SALVATORE NATOLI — La disobbedienza diffusa è un’infrazione della socialità, rompe un patto di alleanza. La legge si gioca sul nesso tra parola e risposta nella tipica relazione tra aspettative reciproche e incrociate che caratterizza gli esseri umani. Non sempre sappiamo ciò che gli altri si attendono da noi e viceversa: possono, quindi, nascere degli equivoci. Funzione primaria della legge è evitare l’ambiguità, mettere in coerenza le azioni degli uomini. Quindi prevede sanzioni verso chi si mostra incoerente e rompe la comunicazione sociale. Il fatto che certe infrazioni siano molto diffuse risulta allarmante, perché a lungo andare logorano la società. Ci sono però casi in cui la disobbedienza mostra che la norma corrisponde sempre meno, o non corrisponde, alla realtà. Quindi ci avverte che deve cambiare le legge, che occorre una regolazione più equilibrata. Era quello che intendeva Socrate dicendo che le leggi vanno persuase. Il filosofo accetta la condanna a morte per amore della città, ma ribadisce che i giudici hanno sbagliato e le leggi sono inadeguate. La sua è una sorta di disobbedienza civile.
Però ci sono anche casi di rifiuto in blocco dell’ordinamento.
SALVATORE NATOLI — Qui entra in gioco la figura non del disobbediente, ma del rinnegato. Chi contesta in radice un sistema istituzionale e se ne chiama fuori, per quell’ordinamento è un rinnegato, ma da un altro punto di vista può essere un fondatore, se intende dare vita a un genere diverso di convivenza. Le rivoluzioni nascono così: si taglia la testa al re per istituire un nuovo ordine, reputando illegittimo quello precedente in quanto violava principi di natura superiore.
NATALINO IRTI — Nel libro ho distinto la disobbedienza sporadica a singole norme, che si esaurisce in sé stessa, dal «rifiuto dell’inizio» espresso da chi dichiara di appartenere a un ordine diverso. Torna qui la scelta del principio costitutivo, a cui si richiamano i singoli comportamenti. Esso dà coerenza e continuità alla nostra vita. Vorrei segnalare anche una sorta di «astuzia della legge positiva», che a volte s’impadronisce delle proprie negazioni. L’obiezione di coscienza e la disobbedienza civile possono essere neutralizzate se la legge le fa proprie e le disciplina, rendendole lecite. Altre forme di disobbedienza hanno un’efficacia creativa, preannunciano un diritto futuro. In questo caso c’è un effetto propulsivo, che tante volte abbiamo visto manifestarsi nella storia. Il giurista è sempre «situato» in un diritto positivo, e perciò assolve o condanna. Lo storico comprende tutto il passato, e può scorgere nella disobbedienza un principio di sviluppo civile o di un diverso diritto.