Corriere della Sera - La Lettura
Sacharov e la coscienza di Naval’nyj
Nasceva cento anni fa il fisico nucleare, Nobel per la Pace nel 1975, che fu l’esponente più illustre del dissenso in Unione Sovietica e venne inviato al confino per il suo impegno sui diritti umani. Una vicenda ancora attuale nella Russia di oggi
Cent’anni fa, il 21 maggio 1921, nasceva a Mosca Andrej Dmitrievic Sacharov, un protagonista nella vita dell’Urss della seconda metà del Novecento: prima come giovane e geniale scienziato, il cui contributo è fondamentale per la messa a punto della bomba termonucleare sovietica, ma anche per considerazioni teoriche sull’asimmetria tra materia e antimateria, poi come militante dei diritti umani in un regime che reprime ogni forma di opposizione o di dissenso.
La sua prima battaglia pubblica ha luogo nel 1964 — l’anno che pone fine al disgelo di Nikita Krusciov, estromesso proprio allora dal potere — quando protesta all’Accademia delle Scienze, dove è entrato nel 1953 come membro più giovane, contro l’elezione di Nikolaj Nuždin, un biologo seguace del famigerato Trofim Lysenko che sostiene di avere isolato una «sostanza vitale» prodotta da materiale inorganico. Due anni dopo, quando ha inizio il processo contro due famosi dissidenti, Andrej Sinjavskij e Julij Daniel’, Sacharov apprezza da lontano la loro forza e il loro coraggio e sottoscrive una lettera collettiva in vista del XXIII Congresso del Partito comunista contro la possibilità, che è stata ventilata, di una riabilitazione di Iosif Stalin.
Nel 1967 Sacharov partecipa in prima persona alla difesa di Aleksandr Ginzburg — il nipote di Evgenija Ginzburg, di cui ha letto il manoscritto di Viaggio nella vertigine, memorie del Gulag che verranno pubblicate all’estero — e scrive al capo del Kgb Jurij Andropov chiedendo che faccia cessare le vessazioni nei confronti di Daniel’, condannato l’anno prima. Telefona al segretario del Pcus Leonid Brežnev (è ancora un membro della nomenklatura scientifica, tra i suoi privilegi ha anche quello di poter chiamare i capi del partito) per chiedere d’intervenire sulla drammatica situazione ambientale del lago Bajkal, in Siberia, ma senza ottenere nulla.
Il 1968 è l’anno della svolta: scrive l’opuscolo Considerazioni sul progresso, la coesistenza pacifica e la libertà intellettuale, in cui affronta i problemi dell’Urss all’interno di quelli dell’umanità intera (dalla fame all’inquinamento), che circola come samizdat (stampato e diffuso clandestinamente) e viene pubblicato dal «New York Times». Difende la Primavera di Praga ed è dalla parte dei sette coraggiosi che scendono il 25 agosto sulla piazza Rossa per denunciare l’invasione sovietica (tra loro Pavel Litvinov, il nipote del ministro degli Esteri giubilato da Stalin per permettere l’avvicinamento con la Germania e il patto tedescosovietico dell’agosto 1939, e Larissa Bogoraz, ex moglie di Daniel’ e sposata con Anatolij Marcenko, in quel momento sotto processo per aver raccontato i campi di lavoro in epoca post-staliniana).
Nel 1970 Sacharov fonda il Comitato per i diritti umani in Urss e diventa l’elemento di punta di una battaglia che gli procura, nel 1975, il premio Nobel per la Pace. Ha ricevuto l’anno prima il premio Cino Del Duca come «portavoce della coscienza dell’umanità». Ormai ha perso ogni privilegio ed è attaccato senza sosta dal potere e dai suoi stessi colleghi. È la moglie Elena Bonner, sposata nel 1971, a recarsi a Oslo a ricevere il premio Nobel e a leggere il suo discorso. Crea il Gruppo Helsinki, per monitorare l’attuazione degli accordi sui diritti umani firmati anche dall’Urss nella conferenza di Helsinki del 1975, insieme a Jurij Orlov, che viene condannato a sette anni nel 1978. Sacharov critica l’invasione sovietica dell’Afghanistan nel dicembre 1979 e l’8 gennaio 1980 viene privato del titolo di Eroe del lavoro socialista (che aveva ricevuto tre volte) e inviato in esilio a Gorkij (città che oggi è tornata a chiamarsi Nižnij Novgorod) insieme alla moglie. Tornerà solo nel 1986, riabilitato da Michail Gorbaciov.
Negli anni della perestrojka Sacharov partecipa alla fondazione del gruppo Memorial, formato soprattutto da giovani impegnati nella ricerca e divulgazione della verità storica sui crimini dello stalinismo. La prima manifestazione di Memorial dedicata alla memoria delle vittime delle repressioni politiche ha luogo al Palazzetto dello Sport Dinamo di Mosca nel giugno 1988 e tra gli oratori c’è Sacharov, eletto intanto nel Presidium dell’Accademia delle Scienze. L’anno dopo diventa deputato — è proprio Memorial a candidarlo — e partecipa alla redazione della nuova Costituzione. Muore il 14 dicembre 1989, per un attacco di cuore, tre giorni dopo avere chiesto la fine del monopolio politico del Pcus.
Il contesto in cui vive oggi la Russia è certamente molto lontano da quello del 1989, l’anno della scomparsa di Sacharov. Eppure non può sfuggire il fatto che anche oggi, trent’anni dopo la fine dell’Urss e l’inizio della transizione verso un regime rappresentativo e un’economia di mercato, c’è un simbolo della repressione dell’opposizione politica e dell’oppressione della dissidenza che in Russia continuano tuttora. Il tentato omicidio di Aleksej Naval’nyj e la sua reclusione illegale, lo sciopero della fame e il rifiuto di permettergli cure da parte dei suoi medici, il divieto di ingresso in Russia per il presidente del Parlamento europeo David Sassoli e altri esponenti dell’Ue dimostrano come, per certi aspetti, la Russia formalmente pluralista di Vladimir Putin possa essere ancora più drastica e feroce del potere sovietico, che non a caso Mosca tende oggi a rilegittimare — compreso lo stalinismo — con una politica di memoria insistente sul piano pubblico e politico.
Naval’nyj è spesso accusato, dai simpatizzanti di Putin che si trovano sia a destra sia a sinistra nello spettro politico italiano ed europeo, di essere populista e nazionalista, dimenticando la sua coerente battaglia contro la corruzione, le menzogne governative, le minacce alla libertà di stampa e di associazione che sono i pericoli continui e concreti che vive la società russa e che un potere sempre più autocratico tende a perpetuare. Naval’nyj, oggi, è il simbolo di tutto il dissenso russo, anche di chi non la pensa come lui, e sembra al momento l’unica persona capace di catalizzare e unire — con una forte risonanza nazionale e internazionale — l’opposizione all’oligarchia che dall’inizio del secolo domina al Cremlino. E che oggi usa la carta della violenza e dell’intimidazione — di cui Naval’nyj è la vittima più illustre — per impedire alle voci critiche di farsi sentire. Magari accusandole, come è accaduto a Memorial dal 2016, di essere «agenti stranieri» per avere ricevuto donazioni dall’estero.