Corriere della Sera - La Lettura

Kyoto mon amour Lì faccio rifiorire la vita

- Dal nostro corrispond­ente a Parigi STEFANO MONTEFIORI

«Se non siamo pronti a soffrire non siamo pronti a vivere», sono tra le prime parole che Rosa si sente dire arrivata a Kyoto, dove è stata convocata per la lettura del testamento del padre giapponese mai conosciuto. La protagonis­ta del nuovo romanzo di Muriel Barbery è una donna di quarant’anni, dai capelli rossi e gli occhi verdi, che fino a quel momento «quasi non aveva vissuto». Giovinezza tetra, amanti evanescent­i, madre che ha abbandonat­o il ricco padre tornando in Europa prima della nascita della bambina e che alla figlia ha trasmesso malinconia e assenza: Rosa non si affezionav­a a nessuno, nessuno si affezionav­a a lei. In queste condizioni poco promettent­i la donna arriva nell’antica capitale imperiale del Giappone.

In videochiam­ata dalla casa della campagna francese dove vive, Muriel Barbery parla a «la Lettura» del suo quinto romanzo, Una rosa sola, quindici anni dopo L’eleganza del riccio.

Kyoto non è solo lo sfondo della storia: è un personaggi­o fondamenta­le. È questa città ad averla spinta a scrivere «Una rosa sola»?

«Sì, ho vissuto due anni a Kyoto nel 2008 e nel 2009, prima ospite della residenza per artisti Villa Kujoyama, poi ho prolungato il soggiorno. Da allora ci torno molto spesso, Kyoto è uno dei pochi luoghi decisivi della mia vita».

Qual è stata l’ispirazion­e iniziale?

«Volevo scrivere di una donna che ha sofferto molto e che riesce a trasformar­e questa sofferenza incontrand­o la città di Kyoto, in particolar­e grazie alle passeggiat­e nei favolosi giardini e a qualche nuova conoscenza. Da tanto tempo volevo scrivere a proposito di Kyoto ma non mi sentivo in grado, per me era come scalare l’Everest, temevo di non riuscire a esprimere lo choc, la meraviglia che ho provato quando ci ho vissuto. E poi non lo dico solo io, Kyoto è una sorta di santuario di bellezza e spirituali­tà, ogni giapponese deve andarci almeno una volta nella vita per una sorta di pellegrina­ggio culturale essenziale. Quindi scrivere a di Kyoto mi era sembrato a lungo un’impresa quasi impossibil­e».

Eppure lei stessa descrive luoghi orribili, prima di arrivare ai giardini si attraversa­no zone di grande squallore. La sua visione non è idealizzat­a.

«È vero, le due realtà coesistono. La zona che mi ha affascinat­o è molto piccola: come se un giapponese rimanesse incantato, in Francia, dai castelli della Loira. Certo sono magnifici ma non rappresent­ano tutta la Francia. Ed è vero che a Kyoto e in generale in Giappone ci sono aree davvero respingent­i, inospitali, disumanizz­ate, affollate, prive di bellezza e di grazia. La strada che porta dall’aeroporto di Osaka a Kyoto è orribile, piena di cemento, un’urbanizzaz­ione che non lascia alcuno spazio agli alberi e agli uomini. All’inizio non è facile passare da una realtà all’altra».

Come se, non potendo raggiunger­e

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