Corriere della Sera - La Lettura
Com’è rossa la mia giungla
Richard Mosse porta al Mast le sue videoinstallazioni e le fotografie realizzate con tecniche normalmente applicate in campo militare: «Il mio è realismo sensoriale»
D’improvviso non ci troviamo più sul pianeta Terra. Non sappiamo nemmeno dove ci stanno portando le immagini rallentate che ci si stagliano davanti in tutta la loro crudezza, tra ombre di bianco, di nero e di grigio. Provocano un frastuono interiore. Ma non possiamo più tornare indietro. Siamo lontani da tutto quello che ci sembrava riconoscibile e rassicurante fino a pochi minuti prima di spostare la grossa tenda nera che introduce nella dark room di una delle sale della Fondazione Mast di Bologna: qui viene proiettata Incoming (l’arrivo), sconvolgente videoinstallazione del 2017 di Richard Mosse (1980) sui profughi raccolti nel Mediterraneo e poi trasferiti nei campi dell’isola greca di Lesbo. Ci eravamo sbagliati: siamo sul pianeta Terra ma in un suo girone infernale.
Impossibile distogliere lo sguardo da immagini che rappresentano solo una parte della prima ed ampia mostra antologica dedicata al fotografo irlandese. Che si intitola Displaced — si può concettualmente tradurre come «spaesamento», «fuori asse», «non luogo» — ed è curata da Urs Stahel. Presenta 77 fotografie di grande formato, inclusi i lavori più recenti della serie Tristes Tropiques (2020), realizzati nell’Amazzonia brasiliana, due monumentali videoinstallazioni immersive, The Enclave (2013) e, appunto, Incoming (2017), un grande video-wall a 16 canali Grid (Moria) (2017) e il video Quick (2010). I temi del lavoro di Mosse riguardano la migrazione, i conflitti e il cambiamento climatico, all’interno dei quali cerca di mostrare quel confine in cui si scontrano i cambiamenti sociali, economici e politici.
Il fotografo risponde alle domande de «la Lettura» dalla foresta amazzonica brasiliana, dove sta realizzando un progetto su un gruppo di segherie illegali lungo il Rio Xingu. «Il mio lavoro si pone in uno spazio intermedio tra la fotografia documentaria e l’arte contemporanea», racconta. «Cerco di usarne una per rafforzare l’altra e viceversa, nella speranza di creare immagini adeguate a uno storytelling diverso, in grado di raccontare una vicenda in un modo più potente e significativo. Da un lato, la fotografia documentaria è, nella sua forma più pura, un modo per dire: “L’ho visto e voglio che tu lo veda”. L’arte contemporanea, nel frattempo, ha il potenziale per indicare o rendere visibili aspetti dell’esperienza umana che ci sforziamo di articolare, o anche di vedere, ma che esistono a prescindere dal