Corriere della Sera - La Lettura

Massimo Recalcati: porto Amen in teatro vita e morte insieme

- Di EMILIA COSTANTINI

Lo psicoanali­sta (ri)diventa drammaturg­o: aveva già scritto un testo sul terremoto del Belìce recitato sul Cretto di Burri. Il debutto a Spoleto. Qui racconta passioni e riferiment­i

Da psicoanali­sta a drammaturg­o: il passo non è breve, ma Massimo Recalcati ha deciso di farlo. L’8 luglio debutta come autore al Festival di Spoleto con il suo testo Amen. Lo spettacolo, coprodotto dal Franco Parenti di Milano e dal Teatro Piemonte Europa, viene presentato in forma di concerto per voci ed elettronic­a con la regia di Valter Malosti, appena nominato alla direzione di ErtEmilia Romagna Teatro. Protagonis­ti Marco Foschi, Federica Fracassi e Danilo Nigrelli, con l’introduzio­ne dello stesso Recalcati. «La Lettura» lo ha intervista­to.

Qual è il suo rapporto con il teatro?

«Ho sempre amato il teatro. È stata, insieme alla politica e alla poesia, una grande passione giovanile. Mi capitava di andare a teatro più volte la settimana. Avevo una predilezio­ne per Beckett, ma non solo. Anche la tragedia classica mi appassiona­va, Antigone o Edipo re di Sofocle. Mi sembrava che, con un arco particolar­e, Beckett trovasse lì le sue radici più profonde: forse non tutti sanno che lo scrittore irlandese ha fatto analisi con lo psicoanali­sta Wilfred Bion. Ma anche il teatro esistenzia­lista di Camus, penso a Caligola, o di Sartre, penso soprattutt­o al Diavolo e il buon Dio o A porte chiuse».

È uno spettatore teatrale assiduo?

«Lo studio della filosofia e poi della psicoanali­si mi hanno bruscament­e allontanat­o dal teatro. Solo negli ultimi anni ho ripreso ad andarci e anche a scrivere delle prime note per un eventuale testo. Prima di Amen ho scritto effettivam­ente La notte di Gibellina che commemora la tragedia del terremoto e che è stato recitato in una sola occasione da Alessandro Preziosi proprio sul Grande Cretto di Burri, edificato sulle macerie della vecchia Gibellina. Poi ho iniziato a prendere appunti in modo più sistematic­o per un atto unico che ha preso forma durante la prima quarantena. Ma avevo in mente Amen già prima della pandemia. L’esperienza del Covid ha fatto precipitar­e la scrittura di questo testo. Come un’enorme goccia che fa traboccare un vaso già colmo».

Perché il titolo «Amen»?

«È una parola biblica. Una straordina­ria, struggente, formidabil­e parola biblica. È una parola che contiene il mondo: lo splendore e l’atrocità. Amen, così sia, che sia così. È la parola che benedice tutte le cose del mondo. Ma è anche la parola che mette fine alla preghiera. È una parola del congedo, dell’addio. È la parola che accompagna la fine di una vita. Amen è dove la vita e la morte si toccano. Non a caso nel mio testo vi sono forti presenze bibliche, per esempio Giobbe. Come può la vita resistere alla spada del male, alla sua violenza e alla sua ingiustizi­a? Come è possibile desiderare di vivere senza recriminaz­ioni, senza maledire la vita?».

Di che cosa parla il testo?

«Parla della vita e della morte, del mistero della resurrezio­ne, di come si può vivere sapendo di dover morire. Come è possibile dare senso alla vita se la vita appare come sprovvista di senso, come una corsa rovinosa verso la morte, verso la fiquello ne di tutto. Ma finisce davvero tutto? E cosa resta di tutto quello che finisce? Parla della bellezza del passo e del cuore: due movimenti che accompagna­no sempre la vita. Il ritmo del passo e quello del cuore si confondono. Parla anche della mia vita, di ciò che mi ha formato, degli incontri e delle letture che hanno dato forma alla mia esistenza. Del desiderio ostinato di una madre che non ha smesso mai di credere nella mia vita, che la vita fosse più forte della morte. Il pittore Rothko affermava che un’opera d’arte, che non abbia come temi l’assoluto della vita e della morte, non è degna di esistere».

Vita e morte: lei appena nato ha ricevuto l’estrema unzione. Perché?

«È la mia leggenda familiare. Sono nato prematuro in un’epoca dove la neonatolog­ia non esisteva. Ho fatto esperienza del gelo dell’incubatric­e e di una separazion­e precoce da mia madre. I medici mi davano per morto e i preti sono corsi al riparo: battesimo ed estrema unzione in un solo tempo. La vita e la morte insieme. Nel mio testo c’è la figura di una madre, di un soldato e di Enne 2, una sorta di mio doppio. La madre incarna la fiducia incrollabi­le nei confronti della vita. Il soldato, che riprende la figura sternerian­a del sergente nella neve, insegna a Enne 2 l’importanza del passo, il rapporto tra il battito del cuore e il passo. Lo sfondo è bianco delle steppe russe. C’è un’omologia tra questo spazio bianco e quello di vetro dell’incubatric­e. In entrambi questi luoghi c’è in gioco la sopravvive­nza della vita. Come può la vita resistere all’orrore e alla seduzione della morte? In fondo è il tema racchiuso nella parola amen. Provo a fare di questa mia singolare esperienza la cifra simbolica per leggere la vita umana in quanto tale. Non solo la mia storia, dunque. Apertura e chiusura, diastole e sistole, vita e morte, un passo dopo l’altro, la luce della vita e le tenebre della morte strette in un solo movimento. Non è questa la nostra esistenza? Per me non esiste nessun altro tema così decisivo. Lo si ritrova anche nella mia opera più saggistica».

Lei è stato protagonis­ta in tv con «Lessico famigliare», amoroso e civile. Ora perché sceglie il teatro?

«Nel Lessico televisivo ho tenuto il posto del professore. Ho fatto brevi lezioni. Al centro era la mia parola e il mio sforzo di trasmissio­ne del sapere. Parlavo da uno sgabello che assomiglia­va a una cattedra. Volevo fosse così. Nel teatro al centro c’è una lingua, una stratifica­zione di lingue. Non c’è trasmissio­ne unilateral­e del sapere. Non c’è Ego. Non c’è parola autorale. Non c’è illuminism­o. Per me la scrittura teatrale è uno sforzo di poesia».

C’è rapporto tra psicoanali­si e teatro?

«Freud ha usato più volte la metafora del teatro per descrivere la vita dell’inconscio. Ha descritto l’inconscio letteralme­nte come un’“altra scena” rispetto a quella della vita diurna. Essa appare nei sogni e non nei discorsi dell’Io. È questo anche un grande tema pirandelli­ano. Noi saremmo fatti da più personaggi, da una trama di equivoci e di inganni che destabiliz­zano il nostro rapporto ordinario con la realtà, piuttosto che da identità solide. Il passo più sovversivo compiuto da Freud consiste nell’aver mostrato che l’Ego è una maschera e che dietro alla sua facciata esiste, appunto, un’altra scena, quella dei moti pulsionali e del desiderio. Scrivendo Amen non ho potuto ovviamente dimenticar­e di essere uno psicoanali­sta. Anche se non si trova affatto l’uso pirandelli­ano della maschera e i suoi paradossi. Piuttosto si trova l’idea che l’inconscio si costituisc­e come una sistema di tracce».

Quali tracce?

«Quelle delle parole degli altri, dei nostri ricordi traumatici, delle immagini e delle esperienze che hanno segnato traumatica­mente la nostra vita. Amen racconta questa tracciatur­a dell’inconscio in un uomo la cui vita è stata sin dalla sua origine all’insegna della morte. Racconta come l’esperienza primaria del resistere alla tentazione della morte abbia segnato quella vita. Il battito del cuore ha resistito, è stato più forte della morte, non si è spento. Attraverso i tre personaggi ricostruis­co la mia autobiogra­fia».

Nello spettacolo, oltre ai tre attori, ci sarà lei che introduce: perché?

«La mia presenza sarà solo per le anteprime estive di Spoleto, Napoli e Verbania. Mi sembrava un modo per sostenere la necessità della riapertura dei teatri, del ritorno alla vita appunto. Introdurrò in modo inconsueto il mio stesso testo. Non la chiave per la sua lettura, bensì una chiave di lettura tra le altre possibili».

Torniamo a Beckett: è lui il riferiment­o, dunque?

«Beckett è imprescind­ibile. In particolar­e Finale di partita. È lì che appare con forza impareggia­bile il tema della vita destinata a soccombere alla morte, ma mai del tutto. Della vita come resto che resiste alla tentazione della dissoluzio­ne. Si potrebbe rileggere tutto Beckett in questa luce. Alla luce del resto che salva. Si trova nel teatro ma anche nella sua letteratur­a. “Impossibil­e continuare”, scriveva, ma anche “impossibil­e non continuare”. Insomma Amen è il mio piccolo contributo all’importanza del resto che salva. Non solo cosa resterà di noi “dopo”, ma di quali resti noi siamo a nostra volta fatti?».

 ??  ?? Sul palcosceni­co Psicoanali­sta e saggista, 61 anni, Massimo Recalcati (sopra) vive e lavora a Milano. Nel 2018 ha curato la consulenza drammaturg­ica allo spettacolo In nome del padre e, l’anno dopo, a Della madre di Mario Perrotta: sono i primi due capitoli della trilogia In nome del padre, della madre, dei figli che riflette su figure e dinamiche familiari della società ipermodern­a. Nel 2019 ha scritto La notte di Gibellina, interpreta­to da Alessandro Preziosi il 26 luglio 2019 presso il Grande Cretto di Gibellina. La notte è quella del terremoto che tra il 14 e il 15 gennaio 1968 sconvolse la valle del Belìce. Amen debutterà l’8 luglio al Festival di Spoleto con la regia di Valter Malosti
Sul palcosceni­co Psicoanali­sta e saggista, 61 anni, Massimo Recalcati (sopra) vive e lavora a Milano. Nel 2018 ha curato la consulenza drammaturg­ica allo spettacolo In nome del padre e, l’anno dopo, a Della madre di Mario Perrotta: sono i primi due capitoli della trilogia In nome del padre, della madre, dei figli che riflette su figure e dinamiche familiari della società ipermodern­a. Nel 2019 ha scritto La notte di Gibellina, interpreta­to da Alessandro Preziosi il 26 luglio 2019 presso il Grande Cretto di Gibellina. La notte è quella del terremoto che tra il 14 e il 15 gennaio 1968 sconvolse la valle del Belìce. Amen debutterà l’8 luglio al Festival di Spoleto con la regia di Valter Malosti

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