Corriere della Sera - La Lettura
La rivoluzione (non) è in ginocchio
C’erano stati Martin Luther
King (1965) e Willy Brandt
(1970) e Karol Wojtyla
(1979). Ma quando Colin
Kaepernick, un giocatore di football, prima rifiuta di alzarsi durante l’inno e poi mette un ginocchio a terra per protestare contro il razzismo in America, il gesto prende nuovo senso. Fino alla rabbia per l’uccisione di George Floyd, un anno fa, e alla disarmante preghiera della suora birmana Ann Rose
Il 26 agosto 2016 Colin Kaepernick non si alza dalla panchina al momento dell’inno americano. Il quarterback dei San Francisco 49ers protesta così contro la brutalità razzista della polizia, in particolare per la morte del ventenne nero Mario Woods. Nelle ore che seguono il gesto di Kaepernick, l’ex collega della lega del football americano e veterano di guerra Nate Boyer gli suggerisce un modo più rispettoso di protestare: perché la prossima volta non t’inginocchi? Il gesto è familiare a ogni quarterback che può fermare il gioco, appena ricevuta la palla ovale, se mette un ginocchio a terra.
Cinque giorni dopo la prima protesta da seduto, il 1° settembre 2016 Kaepernick trasforma il suo gesto di regista del gioco in gesto di protesta. La posa è la stessa, ma stavolta taking a knee, mettendo un ginocchio a terra, il giocatore non vuole fermare il cronometro della gara, vuole cambiare il verso del suo tempo. La protesta si diffonde presto, dentro e fuori gli stadi. Intanto Donald Trump ha vinto le elezioni, la violenza non si ferma.
Il 25 settembre 2017, a un anno dal primo inginocchiarsi di Kaepernick, il settimanale «Time» torna mezzo secolo indietro. Un articolo di Maya Rhodan ricorda ai lettori americani le radici lontane di quel gesto. Una foto dice tutto. Martin Luther King è ritratto in ginocchio sul marciapiedi di una città dell’Alabama, nella stessa posizione di Kaepernick e dei manifestanti di oggi. Nel consueto abito nero, il reverendo King è appoggiato sul ginocchio sinistro, la testa leggermente china. Altri manifestanti, donne e uomini, si sono inginocchiati, alcuni come lui, altri con entrambe le ginocchia.
La foto riporta l’America al marzo 1965, al movimento per i diritti civili, alla lotta contro la segregazione dei neri, a discorsi politici dal ritmo gospel, a sermoni che sfidano l’autorità. In ginocchio si riconosce una diseguaglianza e la si trasforma: l’uomo che si inginocchia davanti a Dio se ne riconosce figlio e strumento. L’impotenza si impasta di potenza. Per questo in ginocchio si può sfidare ogni asimmetria: tra nero e bianco, tra ricco e povero, tra potente e impotente.
Tre mesi prima è uscito in Italia In ginocchio da te. Nel film e nella canzone Gianni Morandi sembra confermare il modello del maschio italiano, tutto privato, familista e opportunista, spregiudicato e piagnone, devoto della Madonna e frequentatore di bordelli, l’uomo che tradisce e poi chiede perdono, si inginocchia. Nell’Italia del boom, nel cattolicesimo del Concilio Vaticano II, niente, tuttavia, può restare immobile. Morandi è sul confine tra il vecchio che non muore mai e il nuovo che non si può fermare, tra la finzione del set dove si inginocchia davanti a Carla, l’attrice Laura Efrikian, e la realtà della vita dove sposa davvero la stessa Efrikian. È in discussione lo squilibrio tra uomo e donna, Nord e Sud, élite secolarizzata e religiosità popolare.
Quindici anni più tardi, l’America di King e l’Italia di Morandi sono ormai parte di un mondo più grande. Il 25 gennaio 1979 sbarca nella Repubblica dominicana il Papa polacco, al suo primo viaggio transoceanico sulla rotta di Colombo e del Nuovo Mondo da evangelizzare. L’indomani, all’arrivo a Città del Messico, il pubblico globale assiste per la prima volta a un gesto che diverrà celebre. L’energico Giovanni Paolo II scende la scaletta, con un passo a sinistra esce dal tappeto rosso e va giù su entrambe le ginocchia, a baciare l’asfalto della pista. La tv mostra l’entusiasmo del popolo messicano, tenuto a distanza. C’è spazio intorno al papa, la scena deve essere ben visibile. È ancora più bianco, più splendente, il Karol Wojtyla che rialzandosi si libera dal velo gettatogli sul capo dal vento.
Quattro giorni dopo atterra a Teheran l’ayatollah Khomeini. La rivoluzione è iniziata. Sorretto da un uomo in uniforme, vestito di nero, scende malcerto la scaletta. Giunto in fondo, scompare tra la folla che assedia l’aereo. Durante il volo del rientro dall’esilio parigino un giornalista
americano gli ha chiesto cosa prova:
«How do you feel?». «Hichi», ha risposto Khomeini: niente. Preparano il nostro mondo i due leader religiosi che scendono dal cielo nella storia, il Papa che s’inginocchia al suolo e l’ayatollah portato via dal popolo quasi prima di toccar terra.
Quarant’anni dopo tocca a noi sfidare gli squilibri, le diseguaglianze, le ingiustizie, metterci in ginocchio per rimettere in piedi chi è in ginocchio davvero. Dal Myanmar a maggioranza buddhista, che perseguita la minoranza musulmana dei Rohingya, rimbalza in tutto il mondo l’immagine della suora che inginocchiata affronta la polizia in assetto di guerra. L’infermiera e religiosa birmana Ann Rose Nu Tawng ha compiuto il gesto per due volte, il 28 febbraio e l’8 marzo scorsi. Con entrambe le ginocchia a terra, la cristiana asiatica si oppone alla violenza politica e fisica della dittatura militare, e più ancora agli squilibri di un mondo globale diviso tra maggioranze e minoranze, tra armati e disarmati.
Del resto da quasi un anno, dal 25 maggio 2020, il ginocchio è simbolo di morte. Il poliziotto di Minneapolis Derek Chauvin ha tenuto premuto il suo ginocchio sinistro sul collo di George Floyd fino a provocarne il decesso. È la stessa posa del football americano, di Colin Kaeaumentare
pernick e della protesta anti-razzista del reverendo King; la stessa posa di chi ora ravviva e amplifica la protesta. Nella sua ricostruzione il «New York Times» stima in otto minuti e quindici secondi il tempo in cui il ginocchio di Chauvin ha progressivamente tolto il respiro a Floyd. Per i manifestanti, che replicano il gesto per un tempo simbolico, la durata è di otto minuti e quarantasei. Anch’essi, a loro volta, reinventano una tradizione, mischiano sacro e profano, confondono rito civile e rito religioso.
La reiterazione e la durata sono essenziali nell’inginocchiarsi e nel prostrarsi dei musulmani, cinque volte al giorno nella preghiera del salat, come lo sono per i monaci buddhisti che dondolano lentamente sulle ginocchia e sui glutei fino a trovare la posizione che li terrà fissi in meditazione. In ginocchio uniamo pratiche, colleghiamo universi, connettiamo significati. Oppure, proprio nell’apparente somiglianza dei gesti marchiamo differenze decisive.
Rabbi Shira Stutman di Washington si chiede se debba invitare la sua comunità a mettere il ginocchio a terra in segno di solidarietà con i manifestanti invece di inginocchiarsi e prostrarsi come da tradizione per la recita di Aleinu durante lo Yom Kippur. La risposta è negativa. È meglio che i due gesti restino distinti, come distinti sono i significati. Infatti, nota il rabbino, chi protesta si inginocchia per
il proprio potere, mentre noi lo facciamo per spogliarci del potere, per indicare la nostra sottomissione a Dio. Stanno qui la valenza più profonda del gesto e la sua sfida più alta. Se non c’è umiltà o se c’è umiliazione, ci si inginocchia invano, e anzi si allarga la distanza, si esaspera lo squilibrio tra terra e cielo, giustizia e ingiustizia, oppresso e oppressore.
Mentre è in prigione in attesa di essere giustiziato per il complotto contro il Fuhrer, il pastore e teologo Dietrich Bonhoeffer scrive di un Dio che è potente perché impotente, che esalta la propria libertà nella libertà dell’uomo. La sua impiccagione nel campo di Flossenbürg il 9 aprile 1945 è il simbolo di chi non si inginocchia al potente, ma all’impotente, ed è elevato per questo all’unica potenza che conta.
Poco più di mezzo secolo dopo, all’inizio del terzo millennio, Maurizio Cattelan raffigura Hitler con la corporatura di un bambino, in ginocchio, le mani giunte e gli occhi lucidi rivolti verso l’alto. La scultura è in resina di poliestere e cera, i capelli sono umani. Nel 2012 è stata esposta a Varsavia, non lontano dal Monumento agli eroi del Ghetto davanti al quale si era inginocchiato il cancelliere tedesco Brandt quarant’anni prima, il 7 dicembre 1970, in un atto storico per le relazioni tra Est e Ovest al tempo della guerra fredda.
Il gesto antichissimo degli uomini e delle donne che si mettono in ginocchio può essere metafora e realtà, privato e pubblico, ordinario e straordinario, sentimentale, sportivo, religioso e politico. Come Martin Luther King e Colin Kaepernick, come Derek Chauvin e i manifestanti di Black Lives Matter, come Giovanni Paolo II e suor Ann Rose, come Willy Brandt e Maurizio Cattelan, non smettiamo di reinventare quel gesto. Continuiamo a inginocchiarci perché non accettiamo che la nostra impotenza sia vana.