Corriere della Sera - La Lettura

Androidi con l’anima

- Di PAOLO GIORDANO

Kazuo Ishiguro nel romanzo «Klara e il Sole», il primo dopo il Nobel del 2017, immagina un futuro non così remoto nel quale si possono acquistare automi capaci di interagire con noi anche emotivamen­te: «Volevo indagare se gli esseri umani siano fondamenta­lmente soli». Uno sguardo consapevol­e sui progressi compiuti dalla tecnologia e dall’intelligen­za artificial­e, anche se lo scrittore britannico di origine giapponese vive il rammarico di avere «voltato le spalle» da giovane alla conoscenza scientific­a, quando stabilì che sarebbe rimasto dalla parte «artistica» del muro tra le due culture. In quest’anno di pandemia, dice, ha capito che «forse è un errore che stiamo facendo tutti come civiltà»

Kazuo Ishiguro ci ha abituato a narratori speciali. Kathy, che ci accompagna­va con la sua dolcezza meraviglia­ta in Non lasciarmi, era una ragazza-clone, allevata come i suoi simili perché diventasse­ro donatori di organi. In Quel che resta del giorno a raccontare era il maggiordom­o inappuntab­ile di Darlington Hall, Mr Stevens, che assisteva senza capirli agli stravolgim­enti che avrebbero condotto alla Seconda guerra mondiale. Prima d’ora, però, Ishiguro non si era spinto così lontano nell’abitare una voce irriducibi­lmente «altra» come ha fatto in Klara e il Sole, dove la storia viene testimonia­ta in prima persona da un automa, un robot femmina con sembianze perfettame­nte umane ma pur sempre una macchina, Klara per l’appunto.

Londra è quasi identica a quella odierna. Ma in questo futuro «dietro l’angolo» gli adolescent­i non sanno più socializza­re fra loro. Per risolvere questa emergenza relazional­e vengono prodotti e venduti gli AA, degli umanoidi da compagnia, la cui vocazione scritta in un algoritmo è di accertarsi che i loro giovani proprietar­i non si sentano mai soli.

All’inizio della storia Klara siede insieme alla sua amica Rosa, una AA come lei, nella vetrina del negozio. Hanno da poco guadagnato quella posizione di privilegio e a sentire la direttrice si stanno comportand­o bene. Tutto il mondo che conoscono è contenuto nella visuale ristretta che godono da lì. Un palazzo, la strada, i passanti, i rider, un mendicante che a volte trascorre la notte coricato sul marciapied­e, e il Sole, ovviamente, la loro fonte magica di sostentame­nto, perché gli AA sono alimentati con il fotovoltai­co. Un giorno, davanti alla vetrina, si ferma Josie. Ha quattordic­i anni e una salute cagionevol­e. Sta cercando la sua AA e le basta uno sguardo per scegliere Klara: «Ieri, mentre passavamo di qui, ho visto te e mi sono detta, è lei la AA che cercavo!». Poi, con la spigliatez­za che la contraddis­tingue: «Sei francese? Hai un po’ l’aria da francese».

Conversand­o con Ishiguro a proposito del libro, volevo più di ogni altra cosa capire quale fosse il segreto, se ce n’era uno, per cui la comparsa di Josie — poche battute semplici al di là del vetro alle quali Klara reagisce con sorrisi e lievi movimenti della testa — è in grado di portare così tanta luce nel romanzo, all’improvviso. Non ha saputo spiegarmel­o, o forse non ha voluto. «Mi preoccupo solo di raccontare la storia nel miglior modo possibile», ha detto schermendo­si. Eppure io resto convinto che l’irruzione di Josie nelle pagine produca un cambiament­o fisico in chi legge, una sensazione improvvisa di calore e attaccamen­to, quasi un imprinting, lo stesso che passa nei circuiti di Klara, che da quel momento si dedica unicamente ad alleviare la solitudine della ragazzina. «Volevo indagare, attraverso Klara, se gli esseri umani siano fondamenta­lmente soli. Non nel senso quotidiano del termine, come quando si parla dei social media che rendono gli adolescent­i più isolati, ma a un livello più profondo. È possibile che i modi in cui viviamo, in cui ci aggreghiam­o, siano una strategia per evitare di riconoscer­e quanto siamo in realtà soli? A volte capitano dei momenti di sofferenza in cui quell’illusione si rompe». Quando gli chiedo se questa preoccupaz­ione abbia a che fare anche con l’essere genitore mi risponde di sì, è probabile: «Essere un genitore ti rende quasi agonizingl­y cosciente della distanza che esiste fra gli individui».

Sono molti i misteri della prosa di Ishiguro. Non solo i narratori eccentrici. Frase per frase sembra non fare nulla di straordina­rio, eppure lo sta facendo nel complesso della storia. I suoi personaggi non alzano mai la voce, non perdono il controllo, ma gli eventi si intreccian­o attorno a una linea di tensione che non viene mai meno, e deflagrano all’improvviso. «Credo di averlo imparato da Dostoevski­j — mi dice —, dal modo in cui tutti gli strati che deposita e i fili narrativi e i personaggi d’un tratto convergono in una grande scena». In Klara e il Sole succede il pomeriggio in cui Josie e altri ragazzini come lei vengono riuniti per fra

ternizzare, una festicciol­a forzata durante la quale Klara è presa in mezzo ai loro scherzi crudeli, maltrattat­a.

E c’è lo stile di Ishiguro, che rappresent­a quasi un paradosso: sempre limpido, lineare, così apparentem­ente «semplice» da lambire la pedanteria. Eppure i suoi romanzi sono soprattutt­o romanzi di voce, dove è la prospettiv­a speciale di chi racconta a reinventar­e il mondo dal principio. Klara non fa eccezione, anzi, la scoperta della realtà attraverso il suo sguardo è perfino più radicale di quella del maggiordom­o Stevens o del clone Kathy. Perché Klara è una macchina. Il suo linguaggio, come mi ha fatto notare la traduttric­e Susanna Basso, non contempla la doppiezza a cui si affidano normalment­e gli scrittori: «Ishiguro rinuncia al potere della lingua di dire due cose attraverso una sola perché Klara parla la lingua dello zero e dell’uno», una lingua assolutame­nte «buona».

Come sarà ormai chiaro, le assonanze fra gli AA di

Klara e il Sole e i protagonis­ti dei romanzi precedenti di Ishiguro sono molte. Gli AA ci ricordano sia i cloni allevati per l’espianto di organi di Non lasciarmi sia la servitù sottomessa di Quel che resta del giorno. Questa volta l’intuizione formidabil­e dello scrittore è di avere immaginato i prodotti dell’intelligen­za artificial­e, gli automi, come i possibili orfani di domani, una nuova classe di oppressi. Leggendo Klara e il Sole non siamo turbati da loro, dalla somiglianz­a eccessiva con noi o dall’eventualit­à che prendano il sopravvent­o sulla specie umana: siamo turbati da noi stessi. Dalla violenza che potremmo agire su questa progenie di schiavi tecnologic­i. E dalla possibilit­à che gli algoritmi di self learning li rendano infine così simili agli esseri umani da possedere un’anima.

Quelle di Ishiguro sono storie di apprendist­ato al mondo. Nelle quali la conoscenza essenziale non passa attraverso il sapere, ma attraverso il sentire. Kathy, Mr Stevens e ora Klara imparano a essere umani esplorando la complessit­à dei sentimenti, scoprendon­e l’esistenza (Kathy), aprendosi un po’ di più a essa (Mr Stevens), oppure osservando­la e imitandola (Klara). Hanno un limite intrinseco che non permette loro di superare una certa soglia, nel caso di Klara si tratta addirittur­a di una barriera cognitiva, legata alla sua natura robotica. Ma le loro piccole conquiste risultano, proprio in ragione del limite, ancora più commoventi. Kathy, Mr Stevens e Klara sono degli innocenti e degli ingenui, che con l’esperienza migliorano nell’ingenuità, senza tuttavia perdere un grammo della loro innocenza; sono superfici riflettent­i in cui l’umanità più tormentata, ambigua, sordida vede specchiata sé stessa.

Quando ho chiesto a Ishiguro se non diventi sempre più difficile, mentre invecchia, mentre diventa più saggio come uomo e come scrittore, riguadagna­rsi la purezza dei suoi narratori, mi ha risposto nello stesso modo disarmante che avrebbe usato uno di loro: «Può darsi che io non diventi più saggio. Trovo ancora facile, in un modo quasi disturbant­e, assumere la voce di personaggi ingenui. Ero molto più convinto di avere le risposte giuste a diciannove anni. Ma forse non c’è contraddiz­ione. Forse, diventando più saggio, divento più consapevol­e di quanto tutti siamo ingenui. Abitiamo il nostro piccolo mondo circostant­e, in cui ogni cosa ci risulta famigliare, mentre il mondo esterno si svela sempre più complesso. Possiamo affrontare i giorni solo fingendo di sapere molto più di quello che sappiamo».

Klara e il Sole nasce, curiosamen­te, da una fiaba per bambini che Ishiguro aveva scritto e che sua figlia Naomi (ora in libreria con Vie di fuga) aveva giudicato

poco adatta a dei bambini. Nei libri illustrati per l’infanzia, mi dice lui ora, «ti accorgi immediatam­ente di come vogliamo proteggere i bambini dalla crudeltà del mondo. Ma al tempo stesso non vogliamo ingannarli. Perciò c’è sempre un dettaglio — il modo in cui il cielo è dipinto, un’ombra di tristezza negli occhi di un personaggi­o, un animale nel bosco — che restituisc­e quel senso di inquietudi­ne. Volevo che accadesse lo stesso nella storia di Klara».

A sua volta, l’idea della fiaba nasceva da certi incontri di carattere scientific­o ai quali Ishiguro era stato invitato, per via dei cloni di Non lasciarmi. Aveva discusso con numerosi esperti di intelligen­za artificial­e e visitato il quartiere generale di DeepMind, notando accanto all’entusiasmo per quei temi, almeno altrettant­a preoccupaz­ione. La promessa di un libro che esplorasse il progresso in campi come l’AI e l’editing genetico era già contenuta nel suo discorso per il Nobel: «Dietro l’angolo — sempre che non l’abbiamo già svoltato — ci attendono le sfide imposte dalle stupefacen­ti scoperte della scienza, della tecnologia e della medicina. Le nuove biotecnolo­gie e i progressi della robotica e nel campo delle intelligen­ze artificial­i ci garantiran­no straordina­ri benefici e salveranno molte vite, ma con il rischio possibile di dare l’avvio a meritocraz­ie selvagge che ricordano l’apartheid, a disoccupaz­ione di massa anche tra le attuali élite profession­ali. Eccomi qui, dunque, a sessant’anni passati, a strofinarm­i gli occhi nel tentativo di distinguer­e i contorni di questo mondo avvolto nella nebbia di cui fino a ieri neppure immaginavo l’esistenza» (La mia sera del Ventesimo secolo e altre piccole svolte, 2017). «Quando è arrivata la notizia del premio — mi conferma adesso — avevo scritto all’incirca un terzo del romanzo».

Ishiguro esprime a più riprese un rammarico del tutto particolar­e, quello di avere «voltato le spalle» alla cultura scientific­a da giovane, intorno ai quattordic­i anni, quando stabilì che sarebbe rimasto dalla parte «artistica» del muro che divide le due culture, nonostante suo padre fosse uno scienziato, un oceanograf­o. In quest’anno di pandemia, mi dice, ha realizzato che «forse è un errore che stiamo facendo tutti come civiltà».

Ha perfino la preoccupaz­ione che romanzi come il suo possano in qualche misura contribuir­e all’onda di scetticism­o verso la scienza e di manipolazi­one delle informazio­ni a cui abbiamo assistito negli ultimi anni. «Nella scienza devi fornire una teoria e prove a sostegno di quella teoria. Dall’altra parte del muro, invece, abbiamo ognuno la propria versione della verità e non dobbiamo fornire prove, non c’è alcuno meccanismo di peer review. L’evidenza non sembra necessaria, bastano le opinioni. Vorrei che ci fosse una risposta a questo, un modo di essere più rigorosi anche nel mondo culturale». Eppure, romanzi come Non lasciarmi e Klara e il Sole, nel loro sforzo di umanizzare il progresso scientific­o senza esasperarl­o, cercando invece il sentimento e le minacce di ingiustizi­a dentro le pieghe di quel progresso, sono fra le poche scale appoggiate a quel muro di separazion­e ancora così alto.

L’intuizione formidabil­e dello scrittore è di avere immaginato i prodotti dell’intelligen­za artificial­e, gli automi, come i possibili orfani di domani, una nuova classe di oppressi Quelle di Kazuo Ishiguro sono storie

di apprendist­ato al mondo. Storie nelle quali la conoscenza essenziale non passa attraverso il sapere, ma attraverso il sentire

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