Corriere della Sera - La Lettura
Androidi con l’anima
Kazuo Ishiguro nel romanzo «Klara e il Sole», il primo dopo il Nobel del 2017, immagina un futuro non così remoto nel quale si possono acquistare automi capaci di interagire con noi anche emotivamente: «Volevo indagare se gli esseri umani siano fondamentalmente soli». Uno sguardo consapevole sui progressi compiuti dalla tecnologia e dall’intelligenza artificiale, anche se lo scrittore britannico di origine giapponese vive il rammarico di avere «voltato le spalle» da giovane alla conoscenza scientifica, quando stabilì che sarebbe rimasto dalla parte «artistica» del muro tra le due culture. In quest’anno di pandemia, dice, ha capito che «forse è un errore che stiamo facendo tutti come civiltà»
Kazuo Ishiguro ci ha abituato a narratori speciali. Kathy, che ci accompagnava con la sua dolcezza meravigliata in Non lasciarmi, era una ragazza-clone, allevata come i suoi simili perché diventassero donatori di organi. In Quel che resta del giorno a raccontare era il maggiordomo inappuntabile di Darlington Hall, Mr Stevens, che assisteva senza capirli agli stravolgimenti che avrebbero condotto alla Seconda guerra mondiale. Prima d’ora, però, Ishiguro non si era spinto così lontano nell’abitare una voce irriducibilmente «altra» come ha fatto in Klara e il Sole, dove la storia viene testimoniata in prima persona da un automa, un robot femmina con sembianze perfettamente umane ma pur sempre una macchina, Klara per l’appunto.
Londra è quasi identica a quella odierna. Ma in questo futuro «dietro l’angolo» gli adolescenti non sanno più socializzare fra loro. Per risolvere questa emergenza relazionale vengono prodotti e venduti gli AA, degli umanoidi da compagnia, la cui vocazione scritta in un algoritmo è di accertarsi che i loro giovani proprietari non si sentano mai soli.
All’inizio della storia Klara siede insieme alla sua amica Rosa, una AA come lei, nella vetrina del negozio. Hanno da poco guadagnato quella posizione di privilegio e a sentire la direttrice si stanno comportando bene. Tutto il mondo che conoscono è contenuto nella visuale ristretta che godono da lì. Un palazzo, la strada, i passanti, i rider, un mendicante che a volte trascorre la notte coricato sul marciapiede, e il Sole, ovviamente, la loro fonte magica di sostentamento, perché gli AA sono alimentati con il fotovoltaico. Un giorno, davanti alla vetrina, si ferma Josie. Ha quattordici anni e una salute cagionevole. Sta cercando la sua AA e le basta uno sguardo per scegliere Klara: «Ieri, mentre passavamo di qui, ho visto te e mi sono detta, è lei la AA che cercavo!». Poi, con la spigliatezza che la contraddistingue: «Sei francese? Hai un po’ l’aria da francese».
Conversando con Ishiguro a proposito del libro, volevo più di ogni altra cosa capire quale fosse il segreto, se ce n’era uno, per cui la comparsa di Josie — poche battute semplici al di là del vetro alle quali Klara reagisce con sorrisi e lievi movimenti della testa — è in grado di portare così tanta luce nel romanzo, all’improvviso. Non ha saputo spiegarmelo, o forse non ha voluto. «Mi preoccupo solo di raccontare la storia nel miglior modo possibile», ha detto schermendosi. Eppure io resto convinto che l’irruzione di Josie nelle pagine produca un cambiamento fisico in chi legge, una sensazione improvvisa di calore e attaccamento, quasi un imprinting, lo stesso che passa nei circuiti di Klara, che da quel momento si dedica unicamente ad alleviare la solitudine della ragazzina. «Volevo indagare, attraverso Klara, se gli esseri umani siano fondamentalmente soli. Non nel senso quotidiano del termine, come quando si parla dei social media che rendono gli adolescenti più isolati, ma a un livello più profondo. È possibile che i modi in cui viviamo, in cui ci aggreghiamo, siano una strategia per evitare di riconoscere quanto siamo in realtà soli? A volte capitano dei momenti di sofferenza in cui quell’illusione si rompe». Quando gli chiedo se questa preoccupazione abbia a che fare anche con l’essere genitore mi risponde di sì, è probabile: «Essere un genitore ti rende quasi agonizingly cosciente della distanza che esiste fra gli individui».
Sono molti i misteri della prosa di Ishiguro. Non solo i narratori eccentrici. Frase per frase sembra non fare nulla di straordinario, eppure lo sta facendo nel complesso della storia. I suoi personaggi non alzano mai la voce, non perdono il controllo, ma gli eventi si intrecciano attorno a una linea di tensione che non viene mai meno, e deflagrano all’improvviso. «Credo di averlo imparato da Dostoevskij — mi dice —, dal modo in cui tutti gli strati che deposita e i fili narrativi e i personaggi d’un tratto convergono in una grande scena». In Klara e il Sole succede il pomeriggio in cui Josie e altri ragazzini come lei vengono riuniti per fra
ternizzare, una festicciola forzata durante la quale Klara è presa in mezzo ai loro scherzi crudeli, maltrattata.
E c’è lo stile di Ishiguro, che rappresenta quasi un paradosso: sempre limpido, lineare, così apparentemente «semplice» da lambire la pedanteria. Eppure i suoi romanzi sono soprattutto romanzi di voce, dove è la prospettiva speciale di chi racconta a reinventare il mondo dal principio. Klara non fa eccezione, anzi, la scoperta della realtà attraverso il suo sguardo è perfino più radicale di quella del maggiordomo Stevens o del clone Kathy. Perché Klara è una macchina. Il suo linguaggio, come mi ha fatto notare la traduttrice Susanna Basso, non contempla la doppiezza a cui si affidano normalmente gli scrittori: «Ishiguro rinuncia al potere della lingua di dire due cose attraverso una sola perché Klara parla la lingua dello zero e dell’uno», una lingua assolutamente «buona».
Come sarà ormai chiaro, le assonanze fra gli AA di
Klara e il Sole e i protagonisti dei romanzi precedenti di Ishiguro sono molte. Gli AA ci ricordano sia i cloni allevati per l’espianto di organi di Non lasciarmi sia la servitù sottomessa di Quel che resta del giorno. Questa volta l’intuizione formidabile dello scrittore è di avere immaginato i prodotti dell’intelligenza artificiale, gli automi, come i possibili orfani di domani, una nuova classe di oppressi. Leggendo Klara e il Sole non siamo turbati da loro, dalla somiglianza eccessiva con noi o dall’eventualità che prendano il sopravvento sulla specie umana: siamo turbati da noi stessi. Dalla violenza che potremmo agire su questa progenie di schiavi tecnologici. E dalla possibilità che gli algoritmi di self learning li rendano infine così simili agli esseri umani da possedere un’anima.
Quelle di Ishiguro sono storie di apprendistato al mondo. Nelle quali la conoscenza essenziale non passa attraverso il sapere, ma attraverso il sentire. Kathy, Mr Stevens e ora Klara imparano a essere umani esplorando la complessità dei sentimenti, scoprendone l’esistenza (Kathy), aprendosi un po’ di più a essa (Mr Stevens), oppure osservandola e imitandola (Klara). Hanno un limite intrinseco che non permette loro di superare una certa soglia, nel caso di Klara si tratta addirittura di una barriera cognitiva, legata alla sua natura robotica. Ma le loro piccole conquiste risultano, proprio in ragione del limite, ancora più commoventi. Kathy, Mr Stevens e Klara sono degli innocenti e degli ingenui, che con l’esperienza migliorano nell’ingenuità, senza tuttavia perdere un grammo della loro innocenza; sono superfici riflettenti in cui l’umanità più tormentata, ambigua, sordida vede specchiata sé stessa.
Quando ho chiesto a Ishiguro se non diventi sempre più difficile, mentre invecchia, mentre diventa più saggio come uomo e come scrittore, riguadagnarsi la purezza dei suoi narratori, mi ha risposto nello stesso modo disarmante che avrebbe usato uno di loro: «Può darsi che io non diventi più saggio. Trovo ancora facile, in un modo quasi disturbante, assumere la voce di personaggi ingenui. Ero molto più convinto di avere le risposte giuste a diciannove anni. Ma forse non c’è contraddizione. Forse, diventando più saggio, divento più consapevole di quanto tutti siamo ingenui. Abitiamo il nostro piccolo mondo circostante, in cui ogni cosa ci risulta famigliare, mentre il mondo esterno si svela sempre più complesso. Possiamo affrontare i giorni solo fingendo di sapere molto più di quello che sappiamo».
Klara e il Sole nasce, curiosamente, da una fiaba per bambini che Ishiguro aveva scritto e che sua figlia Naomi (ora in libreria con Vie di fuga) aveva giudicato
poco adatta a dei bambini. Nei libri illustrati per l’infanzia, mi dice lui ora, «ti accorgi immediatamente di come vogliamo proteggere i bambini dalla crudeltà del mondo. Ma al tempo stesso non vogliamo ingannarli. Perciò c’è sempre un dettaglio — il modo in cui il cielo è dipinto, un’ombra di tristezza negli occhi di un personaggio, un animale nel bosco — che restituisce quel senso di inquietudine. Volevo che accadesse lo stesso nella storia di Klara».
A sua volta, l’idea della fiaba nasceva da certi incontri di carattere scientifico ai quali Ishiguro era stato invitato, per via dei cloni di Non lasciarmi. Aveva discusso con numerosi esperti di intelligenza artificiale e visitato il quartiere generale di DeepMind, notando accanto all’entusiasmo per quei temi, almeno altrettanta preoccupazione. La promessa di un libro che esplorasse il progresso in campi come l’AI e l’editing genetico era già contenuta nel suo discorso per il Nobel: «Dietro l’angolo — sempre che non l’abbiamo già svoltato — ci attendono le sfide imposte dalle stupefacenti scoperte della scienza, della tecnologia e della medicina. Le nuove biotecnologie e i progressi della robotica e nel campo delle intelligenze artificiali ci garantiranno straordinari benefici e salveranno molte vite, ma con il rischio possibile di dare l’avvio a meritocrazie selvagge che ricordano l’apartheid, a disoccupazione di massa anche tra le attuali élite professionali. Eccomi qui, dunque, a sessant’anni passati, a strofinarmi gli occhi nel tentativo di distinguere i contorni di questo mondo avvolto nella nebbia di cui fino a ieri neppure immaginavo l’esistenza» (La mia sera del Ventesimo secolo e altre piccole svolte, 2017). «Quando è arrivata la notizia del premio — mi conferma adesso — avevo scritto all’incirca un terzo del romanzo».
Ishiguro esprime a più riprese un rammarico del tutto particolare, quello di avere «voltato le spalle» alla cultura scientifica da giovane, intorno ai quattordici anni, quando stabilì che sarebbe rimasto dalla parte «artistica» del muro che divide le due culture, nonostante suo padre fosse uno scienziato, un oceanografo. In quest’anno di pandemia, mi dice, ha realizzato che «forse è un errore che stiamo facendo tutti come civiltà».
Ha perfino la preoccupazione che romanzi come il suo possano in qualche misura contribuire all’onda di scetticismo verso la scienza e di manipolazione delle informazioni a cui abbiamo assistito negli ultimi anni. «Nella scienza devi fornire una teoria e prove a sostegno di quella teoria. Dall’altra parte del muro, invece, abbiamo ognuno la propria versione della verità e non dobbiamo fornire prove, non c’è alcuno meccanismo di peer review. L’evidenza non sembra necessaria, bastano le opinioni. Vorrei che ci fosse una risposta a questo, un modo di essere più rigorosi anche nel mondo culturale». Eppure, romanzi come Non lasciarmi e Klara e il Sole, nel loro sforzo di umanizzare il progresso scientifico senza esasperarlo, cercando invece il sentimento e le minacce di ingiustizia dentro le pieghe di quel progresso, sono fra le poche scale appoggiate a quel muro di separazione ancora così alto.
L’intuizione formidabile dello scrittore è di avere immaginato i prodotti dell’intelligenza artificiale, gli automi, come i possibili orfani di domani, una nuova classe di oppressi Quelle di Kazuo Ishiguro sono storie
di apprendistato al mondo. Storie nelle quali la conoscenza essenziale non passa attraverso il sapere, ma attraverso il sentire