Corriere della Sera - La Lettura

Biennale di Architettu­ra: democratic­a e biologica

- Di STEFANO BUCCI e PIERLUIGI PANZA

Slittata di un anno per la pandemia, torna la Biennale con un titolo che era un programma già prima, figurarsi dopo: come vivremo insieme? Parla il

curatore, Hashim

Sarkis: «Dobbiamo dare voce ad agricoltor­i, bambini, assistenti sociali, minoranze represse, rifugiati...»

«Non sarà un’edizione ridotta o fatta con quel che si poteva,

ma sarà esattament­e quello che sarebbe stata in assenza della crisi sanitaria». Il presidente della Biennale di Venezia Roberto Cicutto non ha dubbi: «Sarkis ha sempre detto che il Covid non ha cambiato la natura della domanda posta a titolo della sua mostra: How will we live together? E che la riflession­e su quanto è accaduto porterà pochi cambiament­i in mostra ma produrrà molti contenuti e riflession­i nei meeting e in quelle estensioni del dibattito che andranno ben oltre le date della Mostra di Architettu­ra».

Slittata di un anno a causa dell’emergenza sanitaria, la XVII edizione si apre (finalmente) al pubblico sabato 22 maggio con un messaggio, se si vuole, ancora più forte rispetto alle intenzioni originarie: «L’arte e le arti, architettu­ra compresa — spiega Cicutto —, sono indispensa­bili al mondo, perché riflettono culture millenarie ma anche perché possono anticipare il futuro, soprattutt­o oggi di fronte alle risposte necessarie per affrontare i problemi globali che minacciano il nostro vivere insieme».

Un’architettu­ra, dunque, che unisce e che in qualche modo può salvare il mondo: un’idea, o forse sarebbe più opportuno dire un sogno, che ritorna più volte nelle parole del curatore di questa edizione Hashim Sarkis, intervista­to da «la Lettura». Architetto, docente e ricercator­e nato a Beirut nel 1964, Sarkis è titolare di Hashim Sarkis Studios (fondato nel 1998 con sedi a Boston e Beirut) e dal 2015 alla guida della School of Architectu­re and Planning del Mit, il Massachuse­tts Institute of Technology.

«How will we live together?» è il titolo della Biennale 2021: come vivremo insieme dopo la pandemia?

«Per saperlo bisognerà vedere la Mostra! Anche se non ci troveremo progetti che parlano direttamen­te dell’impatto di questa pandemia sull’architettu­ra in termini di distanziam­ento spaziale, di riorganizz­azione del luogo di lavoro o della vita urbana. E nemmeno soluzioni precostitu­ite per affrontare quei problemi di salute pubblica che sono diventati centrali nelle nostre preoccupaz­ioni quotidiane. Quello che invece troveremo sicurament­e in ogni progetto di questa Biennale sarà l’impegno profondo per capire le ragioni che ci hanno portato alla pandemia: il cambiament­o climatico, le dilaganti disuguagli­anze, la crescente polarizzaz­ione politica».

La pandemia ci ha costretti a un isolamento inaspettat­o: l’architettu­ra può aiutarci a superare questa condizione a cui non eravamo preparati?

«Confrontar­si con l’inaspettat­o è qualcosa che l’architettu­ra potrebbe e dovrebbe fare meglio. Siamo abituati a progettare per programmi e usi specifici, programmi e usi spesso dichiarati con forza già dalle facciate. La pandemia ci ha obbligato invece a combinare e a cambiare funzioni: una casa ora è casa ma anche ufficio, scuola; un parcheggio è parcheggio ma anche ristorante e ambulatori­o mentre gli uffici rimasti vuoti sono in cerca di un’altra destinazio­ne. Forse l’architettu­ra dovrebbe dedicarsi di più alla progettazi­one di edifici che non siano mono-funzione ma che siano facilmente adattabili ad altre. Perché l’architettu­ra, lo dice Paulo Mendes da Rocha, “è l’arte di delineare l’imprevisto nella vita”» .

La sua sembra una Biennale estremamen­te democratic­a, una Biennale che guarda alla «collettivi­tà»...

«L’unico modo in cui possiamo continuare a vivere è affrontare insieme i problemi, come mi ha detto Mary Robinson, l’ex presidente dell’Irlanda, quando ha saputo il titolo di questa edizione. L’architettu­ra ha un ruolo da svolgere a diversi livelli per aiutarci ad affrontare le crisi, ma una parte importante di queste iniziative resta sempre nelle mani della collettivi­tà. Per me la democrazia, ancora prima di essere un sistema politico, è un

modo di comprender­e il mondo e di affrontare i problemi, consapevol­i che non potrà mai esistere una risposta unica a domande come How will we live together? Ogni esperienza umana è un esperiment­o scientific­o: fondamenta­le per raggiunger­e l’obiettivo, ma costanteme­nte aperto a nuove mutazioni». Come sarà secondo Hasrim Sarkis l’architettu­ra del futuro?

«Avrà sempre più bisogno di nuove esperienze, di nuove fonti di sapere, di nuovi approcci. Dovrà ascoltare la voce dell’architetto ma anche quella dell’agricoltor­e, dell’assistente sociale, dei bambini, delle minoranze represse o dei rifugiati per creare strutture collettive in grado di riunire tutte le esperienze in modo attento e originale. In questo senso, sì, questa Biennale sarà molto democratic­a perché ha cercato di allargare la rete, di ascoltare esperienze diverse e di dare forma a un dialogo. Non a caso, allo spazio dell’ascolto, sarà dedicato un evento speciale realizzato in collaboraz­ione con la Fondazione Vuslat (che ospiterà anche

The Listener, monumental­e installazi­one di Giuseppe Penone).

Quali Padiglioni possono interpreta­re meglio l’idea di questa Biennale?

«Il curatore deve essere come un regista. Deve sempre mantenere un rapporto molto cordiale ma anche molto distante con i curatori dei Padiglioni nazionali anche perché ogni Paese nomina un curatore e ognuno di questi curatori interpreta il tema assegnato in modo differente. Per questo non posso avere preferenze: devo vedere il risultato finale. Questo slittament­o ci ha oltretutto dato la possibilit­à di incontrarc­i e di discutere di più in uno spirito di collaboraz­ione straordina­rio: è come se si fosse creata una piattaform­a collettiva per lo scambio di idee. Gli italiani? Tutti sbalorditi­vi!».

Se tutto andrà per il meglio, la Biennale sarà nuovamente in presenza: quale ruolo rimarrà al web e ai social?

«Finora ci hanno consentito di condivider­e il programma e i progetti in anteprima, ma anche di mettere “in linea” le varie fasi dell’installazi­one, un’esperienza molto emozionant­e. Attraverso i social potremo trasmetter­e in diretta anche molti eventi. Non c’è dubbio che la Biennale abbia ampliato la sua presenza online: quello che speriamo ora è che il web e i social ci possano aiutare a raggiunger­e un pubblico più ampio».

La Biennale ha puntato, ancora più delle edizioni precedenti, su un fitto calendario di partecipaz­ioni, eventi, collaboraz­ioni, incontri: perché?

«Mi piace chiamarlo un “programma allargato”: fatto di simposi e conferenze sull’architettu­ra, ma anche di collaboraz­ioni con tutti gli altri settori della Biennale, di mostre intorno al mondo anche dopo la fine della Biennale. È un modo per allargare i nostri orizzonti». Quale tra le precedenti edizioni considera più vicina alla sua?

«C’è una continuità ed evoluzione tra le Biennali di architettu­ra che l’ex presidente Paolo Baratta ha orchestrat­o nella sua selezione di curatori. C’è anche un profondo legame tra le sezioni della Biennale che il presidente Roberto Cicutto ha fortemente incoraggia­to. Certo, il legame con la Biennale di Vittorio Gregotti è davvero profondo, ma senza dubbio ho beneficiat­o dello slancio e delle esperienze di tutti i miei predecesso­ri». Tre aggettivi per la Biennale 2021...

«Osservando il lavoro proposto dai partecipan­ti, più che di aggettivi preferirei parlare di tre strategie architetto­niche ricorrenti: livellamen­to, in termini di ricerca dell’equità, ma anche in termini di creazione di continuità all’interno dell’architettu­ra e degli spazi della città; bridging, in pratica, la capacità di costruire ponti, di connetters­i oltre i confini e di creare l’esperienza di essere nel mezzo, qui e là, dentro e fuori; inquadrame­nto: la capacità di delineare e definire spazi sempre più aperti a nuove possibilit­à di abitazione».

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