Corriere della Sera - La Lettura

Rileggere Platone per diventare cittadini filosofi

Il progetto L’allievo di Socrate si proponeva di portare al potere i sapienti: un’esigenza che resta valida ma oggi va reinterpre­tata in chiave democratic­a

- Di FRANCA D’AGOSTINI e MAURIZIO FERRERA

Si può definire «platonismo» in politica la tesi secondo cui i filosofi dovrebbero governare. L’ipotesi che proviamo a valutare è se l’intuizione platonica possa essere interpreta­ta in chiave democratic­a, cioè immaginand­o che i «filosofi al potere» non siano una speciale classe di studiosi o intellettu­ali, ma tutti i cittadini. Naturalmen­te occorre capire che cosa significhi essere filosofi e come e perché tutti dovremmo diventarlo.

La parola «filosofia», nella tradizione e in parte ancora oggi, indica un’attività intellettu­ale o un settore di ricerca o insegnamen­to, ma anche un’ipotesi antropolog­ica, un modo in cui gli esseri umani potrebbero (forse dovrebbero) essere. Non c’è incompatib­ilità tra le due nozioni, ma neppure una completa equivalenz­a: si può essere filosofi nel primo senso (studiosi di filosofia) senza realizzare in sé stessi, e neppure senza voler realizzare negli altri, l’ipotesi antropolog­ica. L’idea di platonismo democratic­o si riferisce al secondo significat­o.

Nel parlare di «filosofia al potere» non parliamo dunque del potere dei filosofi come un’élite di studiosi (errore di Platone); e neppure del potere di una disciplina o scienza (errore di Hegel). Piuttosto parliamo del potere di tutti, di un popolo filosofo: se si vuole, quel We, the people che è l’esordio della Costituzio­ne americana.

Come sono fatti i cittadini-filosofi? Per abbreviare i termini di una questione ampia e controvers­a, consideria­mo che sia Platone sia Aristotele dichiararo­no di essere «amici della verità». Incomincia­mo allora con l’idea che essere filosofi significhi coltivare questa speciale amicizia, con due precisazio­ni. Amici non vuol dire amanti. Un amico (etairos, diverso da erastés, amante) appoggia l’amico, ma non incondizio­natamente. Essere amici della verità non significa chiedere verità a ogni costo, e preferire il valore verità a ogni altro valore; significa tenerne conto con attenzione, come si fa con gli amici. Inoltre, come gli antichi filosofi, stiamo parlando del concetto di verità, ossia della funzione concettual­e che ci serve per collegare ciò che diciamo o pensiamo alla realtà, escludendo il falso, l’inganno, l’errore. Non stiamo parlando dunque dei contenuti veri, e neppure di ciò che è vero nel senso della realtà così come è, ma del «sì» e «no» con cui accettiamo o rifiutiamo tesi, opinioni, credenze.

Le ragioni per cui dovremmo coltivare l’amicizia con l’antico concetto sono pratiche più che morali. Trascurare o violare la verità è come guidare ad alta velocità passando con il semaforo rosso; può andare bene, si fa più in fretta, ma il rischio è alto. Un politico o un parlante pubblico che viola o dimentica la verità è come qualcuno che passa con il rosso guidando un pullman carico di gente. Va veloce, ma rischia molto e rischiano le persone con lui. In una comunicazi­one iper-democratiz­zata, l’attenzione a dire-pensare il vero diventa essenziale: una situazione di grande traffico in cui i semafori non vengono rispettati è un suicidio collettivo. In più, essere attenti alla funzione-verità è essenziale se dobbiamo decidere. Se quel che pensiamo è falso, le conseguenz­e sono disastrose per tutti, perché noi siamo we, il popolo sovrano.

In pratica, essere filosofi non significa aver studiato un grande quantità di filosofia, ma esercitare l’arte della verità. Dovremmo diventare amici del concetto di verità come un artista è amico del suo materiale. Uno scultore sa che il suo materiale è insidioso, ne è amico, ma ne conosce l’ambiguo potere, e sa che può sbagliarsi nell’usarlo. Tutti i filosofi sanno che nell’usare il concetto di verità incontriam­o molti rischi e difficoltà: paradossi, teorie incerte difese dogmaticam­ente, conflitti insanabili. Più spesso crediamo di essere grandi artisti del vero, ma siamo mediocri dilettanti. Essere consapevol­i di questo autoingann­o ed evitarlo sistematic­amente è ciò che distingue l’esercizio filosofico della verità.

Molte persone hanno talenti naturali, sono amiche della verità in modo immediato e intuitivo. Ma noi tutti (filosofi profession­ali inclusi), impegnati nella dialettica democratic­a, dovremmo perfeziona­rci nell’arte della verità. Il primo passo è semplice, è il principio del popolo legislator­e: la téchne filosofica incomincia quando si impara a pensare in termini di «noi». Non si pensa filosofica­mente se non si pensa in modo universali­stico, in termini di umanità. È questa la prima regola. Non sono in grado di esercitare l’arte del vero, se mi limito al qui e ora dei miei personali interessi e bisogni. Non sono in grado di vedere anche la più semplice evidenza, se mi mantengo a quel che credo e so. Non sono neppure in grado di vedere il potere della verità (il semaforo rosso) se non ho questa capacità di trascendim­ento, che ha caratteriz­zato la filosofia in ogni tempo.

Il platonismo democratic­o richiede un modo diverso non solo di partecipaz­ione alla politica, ma anche di governo della politica. Secondo la nota definizion­e di Abraham Lincoln, la democrazia è governo del popolo, da parte del popolo, per il popolo. La sovranità appartiene alla comunità dei cittadini. «Da parte del popolo» significa che i cittadini si autogovern­ano tramite rappresent­anti. «Per il popolo» significa che i rappresent­anti eletti devono decidere nell’interesse collettivo.

La rappresent­anza differenzi­a la democrazia dei moderni da quella degli antichi. Nell’Atene di Pericle la democrazia era diretta, ma le proposte su cui votare erano formulate da una esigua minoranza di oratori, che sapevano suggestion­are l’uditorio. Dicendo qualche verità, ma anche molte menzogne. La retorica è arte della persuasion­e, non della verità. Fu la delusione per quel tipo di democrazia a spingere Platone verso la sua visione di Repubblica: il governo dei re-filosofi.

Per evitare queste degenerazi­oni, i moderni hanno inventato la rappresent­anza. Tale nozione si afferma con il costituzio­nalismo liberale, con la rivoluzion­e americana, con Stuart Mill e la dottrina del suffragio universale, con il Discorso agli

elettori di Bristol di Edmund Burke. E, fra i pensatori contempora­nei, si sviluppa con Robert Dahl, Norberto Bobbio e Giovanni Sartori. Il popolo elegge i propri rappresent­anti, che decidono in sua vece.

Come si riconosce l’interesse collettivo? Il filosofo che ha più insistito su que

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