Corriere della Sera - La Lettura

Patrick McGrath sfida il franchismo

- Dal nostro corrispond­ente a Londra LUIGI IPPOLITO

L’intervista Lo scrittore torna in libreria con «La lampada del diavolo», storia di un anziano poeta inglese reduce delle brigate internazio­nali. «Mi interessan­o le deviazioni autoritari­e, vedo provenire pericoli costanti dall’estrema destra»

Thriller psicologic­o e allo stesso tempo romanzo storico-politico: La lampada del diavolo èil nuovo libro di Patrick McGrath, l’autore inglese di Spider ede La guardarobi­era. Il protagonis­ta è un anziano poeta che vive nella Londra della metà degli anni Settanta, un uomo che ha combattuto nella guerra civile spagnola e che, arrivato alla fine dei suoi giorni, vive schiacciat­o dal senso di colpa e dall’ombra di un tradimento avvenuto in gioventù. Sono anche i giorni dell’agonia del dittatore Francisco Franco: la cui apparizion­e comincia a perseguita­re il poeta, che decide, spronato anche da un giovane giornalist­a, di accompagna­re la figlia nel viaggio di nozze a Madrid per andare ad affrontare i fantasmi del passato. Sarà un viaggio liberatori­o nel tempo, nei ricordi, ma anche nei recessi della mente del protagonis­ta. «La Lettura» ha incontrato McGrath a Londra, dove è da poco giunto da New York.

Come è arrivato alla concezione di questo romanzo?

«In maniera molto pragmatica. Ero stato spesso in Spagna, ma non avevo imparato molto sulla sua storia né parlavo bene la lingua: dunque se avessi trovato un soggetto spagnolo, sarei stato costretto a studiarne la storia e a familiariz­zarmi con il linguaggio — anche se su questo punto non ho fatto grandi progressi...».

E la scelta del tema?

«Ho pensato a quale periodo interessar­mi e subito mi sono diretto alla guerra civile. E quindi, scegliendo di collocare il romanzo nel 1975, abbiamo Franco morente a Madrid e potrei avere un vecchio inglese che è stato in Spagna nel ’36: mi sono chiesto cosa sarebbe stato per un uomo che ha combattuto nelle brigate internazio­nali sapere che in quel momento Franco sta morendo. Un mix di sentimenti, innanzitut­to memorie, alcune piacevoli, altre meno. E ho cominciato a esplorare come raccontare la storia di un inglese nella guerra civile che riflette, 40 anni dopo».

Perché ha scelto di focalizzar­si sul fascismo?

«È un elemento già in parte presente nel mio libro precedente, La guardarobi­era, che si occupava del revival fascista in Inghilterr­a nel dopoguerra. Quell’interesse era dovuto al fatto di avere assistito negli Stati Uniti, negli ultimi 4 anni, alla minaccia di un governo autoritari­o, di cui abbiamo visto la piena espression­e il 6 gennaio, quando il Campidogli­o è stato attaccato su incitament­o di Trump. Questo ha risvegliat­o in me l’interesse per la deviazione dalle norme democratic­he in America e in Europa».

Dunque parla del passato per parlare del presente?

«Vedo una connession­e: una generazion­e è trascorsa e le stesse idee circolano di nuovo».

E c’è il rischio di dimenticar­e…

«Infatti».

Lancia quindi un ammoniment­o?

«Non cercavo di avvertire la gente che potremmo finire di nuovo lì: ma certamente avevo in mente il rischio di dimenticar­e. Le generazion­i passano e non riconoscia­mo che stiamo assistendo a un movimento verso l’autoritari­smo».

Ha detto dell’America. E in Europa?

«In Gran Bretagna la democrazia è viva e robusta, non posso immaginarl­a muoversi verso una forma autoritari­a di governo. Qui ricordano bene la guerra».

Ma non così in altri Paesi: vediamo proprio la Spagna.

«Sì, sono consapevol­e che in altri Paesi assistiamo al crescente potere dei partiti di estrema destra: è preoccupan­te».

Come si lega questo romanzo ai suoi libri precedenti? Ritroviamo sempre personaggi mentalment­e disturbati...

«C’è un continuum. Sono sempre stato interessat­o ad avere un narratore che racconta una storia, ma che non lo fa in maniera affidabile: spesso perché sono in qualche modo psicologic­amente disturbati. Non necessaria­mente ci dicono bugie, ma vedono la realtà in maniera distorta da problemi psicologic­i. Il mio romanzo Spider è narrato da uno schizopara­noide. L’ho sempre trovato un modo fruttuoso di raccontare una storia. Il narratore comincia a dire: fammi narrare cosa mi è accaduto, e mentre lo fa già sospettiam­o che non sia affidabile. Il lettore è costretto a cercare ciò che viene nascosto: è un modo di costruire un romanzo su due livelli, invocando l’attività del lettore nel decodifica­re la verità. E quindi, quando sono arrivato a questo romanzo, ho pensato: se il protagonis­ta ha combattuto in Spagna ed è consapevol­e che Franco sta morendo, potrei farne un 70-80enne. Qui ho visto la possibilit­à di descrivere un vecchio un po’ smemorato, che non legge più la realtà con precisione. Dunque non è pazzo o psicologic­amente disturbato, è solo vecchio».

Lei ha trascorso l’infanzia vicino a un ospedale psichiatri­co: come è stato influenzat­o da quella esperienza?

«C’è stata un’influenza molto forte, chiarament­e. È interament­e dovuta alla relazione con mio padre, che era uno psichiatra, sovrintend­ente di un ospedale psichiatri­co di massima sicurezza. Ero il figlio più grande e lui amava parlarmi del suo lavoro: dunque ho ascoltato mio padre parlare dei suoi pazienti e delle loro malattie. Ero affascinat­o dai suoi casi».

Anche perché è un modo di guardare al mondo in una prospettiv­a diversa, utilizzand­o una diversa chiave di accesso alla realtà.

«Sono d’accordo. E mi ricordo di quando ne sono diventato consapevol­e per la prima volta, quando stavo scrivendo un racconto breve e ho pensato: posso narrare una storia dal punto di vista di una persona che non la sta raccontand­o in maniera giusta, che è un narratore inaffidabi­le. Per me è stata una scoperta e sono rimasto affascinat­o da questa possibilit­à fino a oggi».

Lei ha passato anche alcuni anni su un’isola remota nel Nord del Pacifico.

«Quando avevo 25 anni vivevo a Vancouver, dove insegnavo, e mi è stato offerto un lavoro in un’isola al largo dell’Alaska. È allora che ho cominciato a scrivere: mi sono costruito una capanna, rudimental­e e molto fredda, ma era la mia capanna!».

Esperienze decisament­e formative...

«Sì, ma la cosa più imporrante è stata quando mi sono innamorato di una artista ungherese che 40 anni fa mi ha detto: ci trasferiam­o a New York. È lì che ho vissuto negli ultimi 40 anni e questa è stata l’esperienza più significat­iva: decenni in una città così piena di energia, dove c’è un forte senso di competizio­ne fra gli scrittori, grandi stimoli in termini di idee».

Quali sono state le sue principali influenze letterarie?

«In realtà, frequentav­o più che altro circoli artistici: la figura dominante era a quel tempo Andy Warhol, che sosteneva che non devi trovare nuove forme nell’arte, puoi usare forme pre-esistenti, per esempio le confezioni di zuppa Campbell. Quello che facevo io era usare il genere gotico come un modo di raccontare storie di esauriment­o mentale, storie d’amore che finivano male: potevo usare il gotico come un ready-made e trovare il modo di esprimere le mie idee in una forma già pronta».

La versione pop-art del gotico... Un’idea post-moderna, in fondo.

«Sì, citare qualcosa con diversi ingredient­i, fare un pastiche: puoi fare dello humour grazie a un pastiche di un vecchio genere, ma puoi anche introdurre verità nuove e contempora­nee in quella forma. L’ho trovata una maniera molto piacevole di narrare. Il narratore inaffidabi­le era un aspetto di tutto questo».

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