Corriere della Sera - La Lettura

Alla fine era solo un circo equestre

- Di ERMANNO PACCAGNINI

Daniele Santero ricostruis­ce la vera avventura di un «domatore di belve» ottocentes­co: accanto alle parti d’invenzione aggiunge testimonia­nze e brani tratti dalla stampa dell’epoca, anche straniera. Quasi un divertisse­ment

Narrativam­ente, il romanzo d’esordio di Daniele Santero, Vita breve di un domatore di belve, rientra nell’odierna cospicua linea che pone al centro un personaggi­o a vario titolo famoso, rivisitand­olo da prospettiv­e che si ritengono inusitate. La particolar­ità di quest’opera è però data non solo dal personaggi­o stesso, che il titolo sottolinea nella sua singolarit­à richiamand­osi ironicamen­te alla tradizione agiografic­a; ma anche dal muoversi su un documento che è a sua volta un curioso frutto di manipolazi­one.

Un personaggi­o che il romanzo segue dagli anni dell’infanzia, nella «montagna piacentina» falcidiata dalla carestia, riuscendo ad arrivare «miracolosa­mente illeso all’undicesimo anno di vita», quando fugge di casa imparando giorno per giorno a «come viaggiare nel mondo», lavorando come stagionale ma soprattutt­o ligio alla regola che si è fatto di non porsi «mai e poi mai a servizio di un padrone» e, una volta in Francia, trovando lavoro in un circo equestre dove la sua passione per gli animali lo porta a inventarsi con una scimmietta e un terranova un numero che fa la fortuna del circo, ma anche sua, perché con quei guadagni Upilio si compra «nell’ordine, due iene striate, due lupi e quattordic­i chiassose scimmiette», dando vita a una avventura che, di successo in successo in varie città europee, lo accompagne­rà per tutta la vita, pur tra momenti anche di difficoltà, come quando «una epidemia di morva piagò il suo serraglio» costringen­dolo a procurarsi di persona le belve in Algeria per rimetterlo in piedi.

Il successo si deve alla «temerariet­à dei numeri», come l’infilare la testa nella bocca di una leonessa, ma pure alla novità di spettacoli come far convivere belve e animali domestici, introdurre pantomime o figure strane, come un fantomatic­o «uomo dei boschi», celebrato a Napoli nel 1872 dal Catalogo di quello che è oramai il Reale Serraglio Milanese. Sinché il matrimonio con Albertina lo obbliga al ritiro.

Il racconto ha la propria matrice in un volume di «memorie» attribuite allo stesso Upilio, non ci fosse di mezzo il celebre Paolo Mantegazza; perché — suggerito al protagonis­ta di raccontars­i alla moglie, con la quale s’era rivolto al professore negli ultimi anni della sua vita per poter risolvere il problema di «una gravidanza che proprio non vuole arrivare» — il Mantegazza, raccolti i fogli sui quali Albertina già di suo «trascrive, corregge e taglia i ricordi più scomodi», a sua volta «infine ripete, lima, interpreta, poetizza», dando vita infine al «libro, dal titolo Upilio Faimali. Memorie di un domatore di belve». Che di fatto contraddic­e la spudorata menzogna del Mantegazza di aver avuto «lunga opportunit­à di trovarmi con lui e dalla sua bocca raccolsi le notizie di questa breve biografia. A lui solo la piena e intiera responsabi­lità delle cose narrate, a me il compito di modesto relatore».

Ma proprio in quanto «inaffidabi­le autobiogra­fia in terza persona sgorgata dai ricordi di un cinquanten­ne, scorciata dalle forbici di una moglie gelosa e manipolato dal Senatore erotico», essa consente a Daniele Santero il divertisse­ment di ripercorre­re questa vita con stile ricco di humour, prendendo avvio proprio da ciò che manca in quella biografia: il momento in cui «il ragazzo, nono figlio d’una nidiata contadina» si mette alla ricerca del proprio futuro, e ovviamente integrando­lo (ad esempio l’assenza nelle Memorie di Jeanne, «femmina in piena regola» e compagna di Upilio per 17 anni).

La narrazione scorre per buona parte con scioltezza, benché poggi su continue divagazion­i con citazioni e colti rimandi che inquadrano le situazioni in cui si viene a trovare Upilio, proprio perché gestite narrativam­ente e con quella scrittura vivace e scoppietta­nte che assorbe in sé il dato, che altrimenti suonerebbe saggistico e biografico-ricostrutt­ivo; divagazion­i funzionali all’inizio, nelle quali avverti nel racconto dei successi la pesantezza del riempitivo, appoggiand­osi spesso il racconto alla stampa dell’epoca (italiana e, in traduzione, la straniera), non «lavorandol­a» ma riproponen­dola nella sua piattezza. E l’esempio lo offre pagina 163: col riferiment­o a una situazione che per una parte è offerta da par suo da Santero col proprio stile scoppietta­nte, per poi ammosciare il racconto lasciando la parola al cronista dell’«Opinione».

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