Corriere della Sera - La Lettura
Un gran magone che si sfoga benissimo
Pubblicata nel 1995, Ad nòta è probabilmente la raccolta di versi migliore di Raffaello Baldini, il poeta di Santarcangelo di Romagna pressoché unanimemente considerato uno dei primissimi della nostra poesia degli ultimi cinquant’anni. Nato nel 1924, aveva esordito come poeta molto tardi, nel 1976, quando viveva già da più di due decenni a Milano. Tuttavia il riconoscimento ammirato della sua poesia fu pressoché fulmineo, tant’è che a poco più di dieci anni di distanza da quella prima uscita Franco Brevini, a cui molto deve l’interpretazione della poesia di Baldini, poteva includerlo con piena legittimità nella sua molto selettiva e autorevole antologia Poeti dialettali del Novecento.
Quel libro viene ora riproposto da Einaudi con la bella prefazione originaria di Pier Vincenzo Mengaldo (la prima edizione uscì per Mondadori), che vale la pena ascoltare subito riguardo alla relazione tra il poeta e il dialetto: «Il rapporto fra quello strumento linguistico e quella realtà individuatissima e irripetibile, di cui lo scrivente è parte e testimone, è biunivoco, l’uno non sta senza l’altro». Va detto allora che in Ad nòta Baldini mette perfettamente a punto il suo più efficace e qualificante strumento espressivo, vale a dire quel celeberrimo monologo in versi (di preferenza endecasillabi) che spesso e volentieri si stende a fiume se non a cascata, ma attraverso una sequenza davvero strabiliante di spezzature, anacoluti, intercalari, ripetizioni e riprese. Di qui il particolare effetto di queste poesie, che mettono in tensione una volontà di dire letteralmente eruttiva, irrefrenabile, e un continuo inceppamento, come se il racconto procedesse sì in avanti, ma solo e sempre a scatti, a zigzag. I narratori di queste poesie sono abilissimi, e forse la loro bravura fondamentale sta nel non perdere comunque il filo nonostante la continua esposizione ai loro stessi rovelli, idiosincrasie e turbamenti.
Il fatto è che questi personaggi, uomini e donne che parlano e straparlano in prima persona delle faccende loro, sono tutti, dal primo all’ultimo, degli ossessionati. Non ce n’è uno che sia davvero in pace con sé stesso e col mondo, a meno che non accetti di prendere come realtà le sue stesse costruzioni, che sono mentali e verbali insieme. C’è chi cammina di notte per cercare chissà cosa (ad nòta significa appunto di notte), c’è chi, e sono parecchi, sempre di notte vede assieparsi i morti attorno al proprio letto, c’è chi sogna di vivere di sola eredità, chi si almanacca su qualche amore o conquista mancata, chi lamenta sfortune, incomprensioni, scherzi del destino.
Più di tutto colpisce allora la sproporzione tra la solitudine di questi narratori (a partire già dal primo libro, la solitudine è uno dei grandi temi di Baldini; e forse neanche un tema, ma un dato di partenza, qualcosa come la condizione del nostro stesso essere nel mondo) e la vitalità, davvero strepitosa, di un argomentare che porge a piene mani invenzioni verbali, sorprese, cortocircuiti arguti, presenza di spirito. E lo stesso attrito si può allora riscontrare tra il senso di una comunità che sta tutt’attorno al locutore — persone, nomi propri, luoghi, situazioni — e l’isolamento mentale, il senso d’incomunicabilità e d’incomprensione che è il movente e insieme il portato di queste poesie. In ogni caso, ne esce un discorso poetico che definire su di giri è dir poco.
Per sua intima costituzione, allora, questa poesia non punta sul singolo verso o sull’immagine esaustiva e memorabile (questi personaggi non descrivono mai; sono i fatti e i loro risvolti psichici a importare), ma appunto nel flusso elettrizzato del racconto. È soltanto lì che le singole verità si dichiarano e si lasciano cogliere.
Lamentele, recriminazioni e rivendicazioni, magoni, miraggi, chiodi fissi: ma a chi parlano questi personaggi? Anzitutto se non soltanto a sé stessi, si dovrebbe dire. Per sfogarsi, per chiarirsi, anzitutto per giustificarsi.
Si ha l’impressione di discorsi fatti da sé a sé infinite volte. Come di un tunnel o meglio di un groviglio da cui non sia dato uscire. È stato fatto tante volte il nome di Samuel Beckett, al riguardo. Ma forse si potrebbe pensare con approssimazione anche maggiore ai monologhi ossessivi dei personaggi di Thomas Bernhard. In ogni caso, se un luogo comune più o meno veridico intende la poesia dialettale come quella più espressamente radicata in una comunità e in luoghi concreti e determinati, con Baldini ci si trova esattamente agli antipodi: un paese, che è anche e soprattutto quello della mente, abitato da solitudini che abbaiano alla luna, o forse soltanto a sé stesse: « Peròpuuiè di dé, ch’a n’e’ so, u m ciapa/ una roba aquè dréinta, mè a n capéss,/ u n’è ch’a m so incaplè sa qualchadéun,/ ch’u m’è ’ndè mèl qualquèl, u m vén sta roba,/ mo senza una rasòun, cmè ch’ò da dèi?» («però poi ci sono dei giorni, che non lo so, mi prende/ una roba qui dentro, non capisco,/ non è che sia arrabbiato con qualcuno,/ che mi sia andato a male qualcosa, mi viene ’sta roba,/ ma senza una ragione, come devo dire?»).