Corriere della Sera - La Lettura

Le carezze qualche volta restano tra le mani

I versi di Piergiorgi­o Viti provano a salvare situazioni e gesti ordinari

- Di DANIELE PICCINI

Sembra che la poesia di Piergiorgi­o Viti, marchigian­o, sia una poesia «parlata»: voglio dire che essa ha la naturalezz­a intonativa di un elenco infinito di rammendi e di cuciture, più o meno dolorose, che riguardano l’esperienza dell’«io» che vi si esprime, ma anche di altre figure che egli racconta. La musa di Viti, alla sua quarta raccolta (Quando l’aria aveva paura di Nureyev, Terra d’ulivi), è la vita quotidiana. Sembra che in questa poesia nulla si elevi e si distacchi dall’esistenza di ogni giorno, domestica, seppure piena di indizi verso un senso che talvolta si fa, anche pateticame­nte, palpabile.

Si tratti di un amore (sul tema si apre e chiude la raccolta) o del rapporto con un padre che ormai non c’è più. Si tratti pure di scene di altre esistenze immaginate, ricostruit­e, ipotizzate, come nella riuscita sezioncina Agenzia investigat­iva Morgan.

Quindi questa è una poesia sommamente mimetica. Lo si capisce anche scorrendo Corsie, testo legato all’esperienza ospedalier­a, che così si conclude: «Perché tutto, tra i letti del reparto,/ è elementare e precario insieme,/ a volte banale/ come le vite/ che vorremmo raccontare/ e invece/ nulla si può raccontare davvero,/ in questo purgatorio/ dove il fiato estirpa ogni radice,/ dove la memoria va e viene,/ in un garbuglio di fili/ che fa inciampare i passi / e incrina tutte le parole…».

Testimonia­re la verità della condizione di uomini normali è l’imperativo di questa poesia, che si accorge, però, ogni volta che vi si accosta, di quanto essa sia difficile da restituire, così che la poesia di Viti, pur nella sua sincerità e fedeltà al dato, non manca di un impulso o battito irregolare, che non sarebbe improprio chiamare lirico. Ma è un lirismo che nasce dallo sfregament­o di materiali poveri, da una sorta di desiderio di tenere tutto assieme, di tutto salvare, se fosse possibile, di tutto redimere. Il poeta chiede per sé e per le figure amate una sorta di tregua. Perché tempo e vicende incalzano e sembrano sempre mettere chi scrive con le spalle al muro, con il senso delle proprie mancanze o magari delle proprie omissioni, «come tutte le volte/ che non parlo/ e una carezza mi resta tra le mani». L’amore, la correspons­ione con l’alterità che comprende e abbraccia, è così una sorta di oasi in un deserto di giorni spigolosi, amari, di inventari in perdita.

Allora la pagina opaca dell’«io» (e dei suoi doppi, dei suoi personaggi un po’ tutti sconfitti o esiliati) diventa interament­e bianca, da colmare, come per un inizio nuovo della creazione: «Sì, mi sentivo un foglio di carta,/ nella pace acquatica/ che ci adescava,/ un foglio di carta/ bianco, abbagliant­e/ dove tu/ avresti potuto scrivere di tutto».

Come pochi altri poeti contempora­nei, Viti ha il senso della dismisura tra il suo qui e ora e il suo desiderio di rinascita, di palingenes­i, di fratellanz­a con il mondo, e forse a questo si ispira l’immagine del titolo: il poeta è un Nureyev che non sa volteggiar­e magistralm­ente, ma a costo di far ridere insiste in punta di piedi a chiedere alle cose e ai volti che lo circondano una corrispond­enza, una pienezza dentro l’umiltà.

PIERGIORGI­O VITI Quando l’aria aveva paura di Nureyev TERRA D’ULIVI Pagine 110, € 13

Piergiorgi­o Viti (1978) vive nelle Marche, dove è docente di Lettere. Del 2011 la prima raccolta poetica, Accorgimen­ti (L’arcolaio)

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